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conness precarie 

Alla catena sotto una triplice cappa

di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto

Pubblichiamo l’introduzione di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto al volume da loro curato Morire per un Iphone. La Apple, la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, che comprende contributi di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden. Il libro è uscito in questi giorni per I tipi di Jaca Book. Una lunga anteprima dell’introduzione è stata pubblicata su «il Manifesto» del 12 maggio 2015 con il titolo L’atelier infernale degli smartphone.

Morire per un IphoneSe il computer potesse parlar di sé

Il computer e le sue applicazioni sono tra le prime macchine che potrebbero parlare ai loro fruitori in viva voce e in modo discreto. Potrebbero raccontare di sé, a cominciare da chi li produce. in altri termini, si tratta di macchine potenzialmente in grado di dialogare con i loro consumatori a proposito non solo delle varie fasi di lavorazione ma anche delle vite che in quelle fasi si sono consumate. Tuttavia chi è interessato a conoscere in quali condizioni è stato fabbricato il computer o il telefono che ha tra le mani si trova di fatto davanti a una cortina fumogena, quella che avvolge l’elettronica, uno dei settori industriali più segreti, insieme con quelli delle armi e del petrolio.

In genere, i fruitori dei prodotti elettronici si tengono tanto lontani dal mondo dei rapporti sociali della produzione elettronica quanto ne vengono tenuti lontani dalle imprese. Indubbiamente, il software attira qualche attenzione in più dell’hardware, poiché la storia del software è punteggiata da sorprendenti invenzioni. Per contro, l’elaborazione dei modelli di hardware appare pedestre, anche se si è dimostrata decisiva per le fortune di alcuni grandi marchi dell’elettronica, a cominciare dalla Apple. Nel software è lunga la galleria delle innovazioni presentate come colpi di genio di singoli individui. La galleria sarebbe più corta se si tenesse conto dei gruppi di ricerca non orientati al profitto, i cui risultati sono stati spesso fatti propri da predatori corporate1.

L’aspetto fisico – visivo e tattile – dei prodotti elettronici è stato e rimane un elemento indispensabile nel processo di seduzione della clientela potenziale. In particolare, fin dagli anni ’90 alla Apple è diventata ossessiva la cura dell’effetto sensoriale dell’informatica di consumo sul pubblico. Dunque, un hardware esteriormente allettante ha assunto un’inattesa forza di attrazione. Tale forza è andata crescendo di pari passo con la crescita della domanda.

Il presente volume di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden svela il lato oscuro della produzione elettronica, portando alla luce il caso esemplare della condizione di operaie e operai cinesi che lavorano per un marchio committente, la Apple, e per il suo gruppo appaltatore, la Foxconn. Si tratta del caso più eclatante di un regime di fabbrica-dormitorio ormai destinato a lasciare tracce profonde nella società cinese e nel resto del mondo, indipendentemente dalle annunciate robotizzazioni.

Sotto la spinta della febbrile domanda mondiale di nuovi prodotti informatici il regime di fabbrica della Foxconn vincola la vita, i ritmi, gli orari di lavoro di più di un milione di lavoratori in Cina. Come nel caso del legame tra la Foxconn e la Apple, altre multinazionali elettroniche hanno imposto globalmente processi di produzione a ritmi disumani. Tuttavia il caso del rapporto tra Apple e Foxconn risalta tra gli altri per le dimensioni della forza-lavoro coinvolta e per l’intensità della sua erogazione. Alle lavoratrici e ai lavoratori toccano lunghi orari di lavoro, stringenti cadenze produttive, una sistemazione sorvegliata in dormitori aziendali e salari che permettono appena la sopravvivenza del singolo lavoratore ma non del suo nucleo famigliare. Ne sono risultate condizioni di vita ai limiti della sopportazione che hanno provocato una catena di suicidi attorno al 2010, come gli autori qui illustrano, la più impressionante catena di autoannientamento in fabbriche non concentrazionarie della storia del capitalismo2. La Foxconn ha reagito economicamente ponendo le inferriate alle finestre dei suoi edifici per impedire i salti nel vuoto delle sue disperate maestranze, il perverso rimedio tipico delle istituzioni totali moderne.

L’attenzione alla condizione operaia è il filo conduttore che guida gli autori per l’intero volume, compresi il secondo e terzo capitolo che sono sì dedicati al peculiare rapporto che la multinazionale Apple intrattiene con la multinazionale Foxconn, ma che intendono anche gettare le basi per rischiarare il lavoro vivo nel nesso che lega le due imprese. Né l’una né l’altra sono state pioniere nell’instaurare un rapporto di appalto. Altre imprese le avevano precedute. A cominciare dai primi anni ’90, la produzione elettronica nordamericana ed europea è venuta affermandosi come il settore a più alta esternalizzazione, insieme con il tessile e l’abbigliamento. La peculiarità dell’esternalizzazione di hardware elettronico è duplice: da un lato, il suo centro di gravità si trova nell’Asia orientale e in particolare nelle grandi periferie industriali della costa meridionale della Cina; dall’altro, in Cina il bacino di reclutamento consiste in coorti di adolescenti e di giovani approdati dalle campagne alle catene di produzione come migranti interni e quindi come cittadini di seconda classe, essendo privi dei diritti alla residenza urbana e all’accesso ai beni e ai servizi pubblici legati alla residenza. Negata per via salariale alle operaie e agli operai migranti la possibilità di costruirsi un nucleo famigliare, la trasmissione della vita è o ritardata o addossata ai parenti che sono rimasti nelle campagne o del tutto vanificata in amare rinunce. Una così ampia riduzione dello spazio di riproduzione è un fenomeno quale non si verificava dalla seconda guerra mondiale3. L’estrema parsimonia necessariamente applicata da operaie e operai alla propria vita quotidiana alla Foxconn si manifesta innanzitutto nella scelta obbligata del 60 per cento circa delle maestranze di risiedere nei dormitori dell’impresa, dove un posto letto in un camerone con più letti a castello incide per un ventesimo del salario mensile, contro circa un terzo per l’affitto di una stanza all’esterno della fabbrica. L’invio alla famiglia rimasta in campagna dei risparmi racimolati con i salari spesso ottempera all’obbligo morale della devozione filiale, anche se i legami famigliari vanno indebolendosi nel corso degli anni. Lo scarsissimo tempo libero a disposizione è un fattore disciplinante di prima grandezza che non viene pubblicamente discusso se non da coraggiose minoranze politiche. Tuttavia sarebbe vano in Oriente come in Occidente chiedere a gran parte dei mezzi di comunicazione di mettere in rapporto le condizioni e l’orario lavoro con la mancata apertura di un’arena di pubblico dibattito, quello che viene comunemente chiamato lo spazio della democrazia.

 

Un sistema di lavoro segregato e i suoi custodi

Nell’ostentato assenteismo del sindacato ufficiale, l’autorganizzazione operaia all’interno della Foxconn trova le sue limitazioni in tre principali vincoli imposti alle maestranze: la dura disciplina esercitata dalla Foxconn, i tempi e i modi spasmodici di produzione dettati dai capitolati di appalto della Apple e l’intesa cordiale fra entrambe queste imprese e le amministrazioni locali. Si tratta della triplice cappa che condiziona e incombe sui processi di ricomposizione solidale della forza-lavoro.

Il legame tra la Apple e la Foxconn è forse il caso più evidente degli incerti equilibri produttivi odierni, dopo che i grandi marchi occidentali hanno deciso di abbattere i loro costi e aumentare l’efficienza esternalizzando la fabbricazione prevalentemente in Asia. Questo modello di esternalizzazione è dotato di una sua caratteristica capacità d’irraggiamento globale. La Foxconn ha promosso il modello come assetto esemplare nelle sue fabbriche in europa e nell’america latina4. Nel gergo degli intermediari dell’esternalizzazione, la compressione dei prezzi da pagare ai fornitori è chiamata arbitraging, un significativo slittamento linguistico rispetto all’arbitraggio sui titoli di borsa. Il carattere iugulatorio di questo labour arbitraging viene venduto come manifestazione del libero mercato. Le sue conseguenze vengono scaricate in larga parte sulle condizioni di vita e di lavoro delle maestranze, in particolare in Asia. Essenziale è nel caso della manifattura elettronica la disponibilità della forza-lavoro a un logorante sistema di fabbrica. Viene dunque selezionata una forza-lavoro giovane, istruita, abbondante, disciplinabile entro rigide istituzioni, mobilitabile e smobilitabile entro tempi brevi. Nell’elettronica come in altri settori, i margini di salario e di profitto riservati alle imprese appaltatrici sono compressi dalla preponderanza economica del committente, generalmente un marchio globale che lucra le forti differenze tra il prezzo concesso all’impresa appaltatrice e il prezzo di vendita finale5. Così è stato anche finora nell’intreccio che la Apple ha mantenuto con la Foxconn.

Nell’Asia meridionale e orientale i sistemi delle aziende appaltatrici che forniscono i grandi marchi si reggono sul malfermo piedistallo di salari bassi o addirittura infimi, mentre i magri utili locali possono crescere in ragione dell’aumento della massa degli operai occupati e del prolungamento dei loro orari di lavoro. Per contro, i pingui profitti derivanti dal labour arbitraging vengono rastrellati dai grandi marchi che detengono e si spartiscono le quote delle vendite finali.

Nel caso della Foxconn e della Apple in Cina, come gli autori dimostrano, i margini della Foxconn sono assai ristretti rispetto a quelli della Apple. Nel 2010 la Apple si appropriava di ben il 58,5 per cento del prezzo finale di un iPhone, sebbene avesse completamente esternalizzato la manifattura del prodotto. Soltanto l’1,8 per cento, ossia 9,88 dollari, era destinato al salario delle maestranze in Cina6. In breve, gli accordi ricorrenti su scala crescente tra la Apple e la Foxconn ricadono nella categoria del labour arbitraging. Va notato che i bassi salari, insieme con i lunghi orari di lavoro, sono un decisivo fattore di freno alla mobilitazione informale e formale dei salariati della Foxconn, un fattore che può essere neutralizzato dalle maestranze soltanto con la dedizione organizzativa di cui il movimento operaio in Cina ha dato ampie prove nel passato.

Le amministrazioni locali non sono dovute intervenire se non episodicamente per troncare e sopire la mobilitazione a favore di migliori condizioni di vita e di lavoro. Molto più frequente e puntuale è risultato il loro ruolo nell’approntamento delle zone industriali e nell’opera di reclutamento e selezione del personale, procurando così alla Foxconn un sostanzioso risparmio delle spese d’insediamento. Altrettanto solerti durante i picchi della produzione sono risultate le cure prodigate dalle amministrazioni locali al reclutamento temporaneo di giovanissimi studenti degli istituti tecnici da avviare ai cosiddetti tirocini presso la Foxconn, a costo di compromettere l’apprendimento scolastico dei tirocinanti7. Tagliando i costi in infrastrutture e in reclutamento delle imprese e piegando i centri urbani alle esigenze della fabbrica, le amministrazioni locali mettono al riparo il governo centrale e il partito comunista dall’eventuale esposizione al malcontento e ai conflitti.

Le imprese possono attingere a sempre nuovi bacini di manodopera costituiti da migranti, non solo perché è conveniente ma anche perché la sostituibilità nel posto di lavoro genera paura nelle maestranze. Prende corpo un sistema d’impiego urbano duale e segregato: da un lato quanti sono dotati dei diritti di residenza e dei beni e servizi pubblici connessi, dall’altro i migranti, non solo precari ma anche esclusi da tali beni e servizi con l’artificio della residenza negata8.

 

Modelli produttivi instabili e ossificati

In una prospettiva internazionale, l’esternalizzazione della produzione elettronica della Apple in Cina si situa nella sezione intermedia e mobile della piramide produttiva il cui vertice è saldamente ancorato a una definita entità statale, gli Stati Uniti, e la cui base è rintracciabile nell’opera di estrazione delle materie prime, di cui quote crescenti sono un pesante fardello che l’Africa equatoriale è costretta a portare. Mentre al vertice la progettazione rimane vicina ai centri decisionali e comunque è direttamente controllata dai piani alti dell’impresa con alcune migliaia di addetti, la vendita diretta al minuto nei negozi della Apple assorbe il 70 per cento della sua forza-lavoro negli Stati uniti, 30.000 su 43.000 nel 20129. La progettazione e la vendita non può offrire posti di lavoro neppur lontanamente confrontabili con quelli della produzione e dell’estrazione. Nel 2012 la Apple occupava direttamente 20.000 persone fuori degli Stati uniti, mentre ne impiegava indirettamente poco meno di un milione, seppur a fasi alterne, nel subappalto in Cina per la fabbricazione dei suoi modelli10.

Quanto alla base di questa piramide, le stime del numero dei minatori che estraggono le materie prime sono incerte, ma nel solo caso dei minatori africani di coltan l’ordine di grandezza è delle decine di migliaia di lavoratori che da decenni sono sottoposti a condizioni di un’infernale militarizzazione. Globalmente il mondo dei consumi ha rimosso tale condizione. Il settore elettronico appare dunque come un insieme di merci socialmente stratificate nel loro farsi. Le materie prime strategiche che convergono nel suo hardware giungono da un mondo minerario spesso insanguinato. In particolare, il coltan impegna globalmente circa 125 imprese di estrazione, principalmente nella Repubblica democratica del Congo. Nel 1990 l’Africa estraeva l’11,4 per cento del coltan a livello globale, mentre alla fine del primo decennio di questo secolo ne produceva il 57,3 per cento. Le condizioni in cui il coltan è estratto in Africa non sono uniformi; ma essendone la zona orientale del Congo la maggiore produttrice, i minatori e la popolazione in genere sottostanno ai signori della guerra che vi spadroneggiano.

In breve, risulta cementata la coesistenza di sudore e sangue alla base della piramide, di stress fino al suicidio sull’altare della produzione nella sezione intermedia costituita dalla Foxconn e da altre imprese, mentre quanto più si sale nella gerarchia della Apple tanto più si incontrano le goffmaniane palme sudate nei consigli di amministrazione.

È in un quadro istituzionale di segregazione occupazionale in Cina che va collocata la decisione della Apple del 1998 di appaltarvi gran parte della manifattura dei suoi prodotti, sulla scia di altri grandi marchi dell’elettronica11. In altri termini, è una decisione perfino tardiva, arrivando al traino di altre imprese statunitensi che si erano sentite rinfrancate dalle istituzioni cinesi, dopo avervi a lungo osservato i rapporti di forza tra le classi dalla distanza di sicurezza dei loro periscopi situati nelle Zone economiche speciali dell’Asia orientale.

I sistemi di subappalto all’estero sono la versione estrema del tentativo del capitale nordatlantico di liberarsi della “sua” forza-lavoro. Si racconta che nel 2012, a fronte della domanda del presidente degli Stati uniti su che cosa sarebbe occorso per riportare i posti di lavoro della Apple negli Stati Uniti, l’allora capo della Apple rispose senza esitazione: “Quei posti di lavoro non tornano indietro”. L’anno precedente quasi tutti i 70 milioni di iPhone, i 30 milioni di iPad e i 59 milioni di altri prodotti della Apple erano stati fabbricati fuori degli Stati Uniti e in gran parte in Cina. Secondo il medesimo articolo:

Non è soltanto che gli operai sono più a buon mercato all’estero. Piuttosto, i funzionari della Apple sono convinti che le grandi dimensioni delle fabbriche d’oltremare, insieme con la flessibilità, la diligenza e le capacità industriali dei lavoratori stranieri hanno a tal punto superato la controparte statunitense che il “Made in the U.S.A.” non è più un’opzione attuabile per gran parte dei prodotti Apple12.

Tre giorni dopo, correggendo un errore redazionale, l’articolo veniva così completato:

Un altro vantaggio cruciale a favore della Apple era che la Cina forniva ingegneri in quantità tale che gli Stati uniti non potevano eguagliarla. i funzionari della Apple avevano stimato che erano necessari circa 8.700 ingegneri industriali per guidare e sovrintendere 200.000 operai delle catene di montaggio complessivamente impegnati nella produzione di iPhone. gli analisti della Apple avevano previsto che negli Stati uniti sarebbero stati necessari nove mesi per trovare un pari numero di ingegneri13.

Gli autori del presente volume pongono in luce il negoziato continuo della Apple con la sua principale appaltatrice, la Foxconn, in particolare sulla politica del personale e sulle mutevoli esigenze della composizione della forza-lavoro. a questo proposito, forse più ancora che per gli aspetti finanziari, va discussa l’avvertenza di un ex-dirigente della Apple secondo il quale “[con] Apple non esistono partnership. È lei l’unica a contare”. Un’assenza di partnership a tutto svantaggio della Foxconn14. In realtà, anche se il rapporto tra le due imprese è talvolta teso e anche se l’impresa di Taiwan appare in posizione subordinata, la Apple può difficilmente fare a meno della Foxconn, che detiene il primato nella capacità di mobilitare e smobilitare prontamente forza-lavoro più o meno qualificata secondo la contingenza nell’ordine delle centinaia di migliaia di individui in Cina. Come abbiamo già notato, tale capacità poggia non soltanto sul lavoro migrante ma anche sul lavoro semicoatto di studenti di scuole tecniche superiori, reclutati come “tirocinanti” e messi all’opera alle catene della Foxconn grazie all’appoggio delle autorità amministrative e scolastiche locali15. Sempre grazie a tale capacità, la Foxconn ha aumentato il suo potere negoziale e si è svincolata dalla monodipendenza dalla Apple, prendendo in appalto le commesse di altre multinazionali. In sintesi, nell’attuale configurazione del mercato del lavoro nell’Asia orientale, la Apple, ammesso e non concesso che possa fare a meno della Foxconn, non può fare a meno dello stato cinese, che è capace di drenare quantità di lavoro vivo che sono globalmente uniche per ampiezza16.

L’instabile equilibrio industriale della Cina odierna e la vasta disponibilità al lavoro industriale garantiscono al partito comunista una preminenza nel manovrare le leve di comando del sistema di occupazione. Intanto, all’estero è in pieno svolgimento la corsa delle grandi imprese cinesi per correggere l’asimmetria tra i massicci investimenti diretti stranieri in Cina e i cauti investimenti diretti cinesi nel mondo, finora miranti prevalentemente a ottenere materie prime in Paesi in via di sviluppo e in particolare in Africa, ma ormai capaci di puntare a mete più ambiziose17. All’interno, il settore privato delle imprese appaltatrici è posto in posizione dipendente ma sempre meno assoggettato alla committenza dei grandi marchi. in questi processi sono ancora i poteri pubblici che strutturano i bacini di manodopera. Che nella fase attuale i margini di profitto delle imprese appaltatrici siano magri non è soltanto un passaggio necessario verso maggiori livelli di accumulazione ma è fors’anche una garanzia per lo stato cinese affinché il settore privato non avanzi la richiesta di impadronirsi di leve decisive dei sistemi di occupazione. L’incerto equilibrio che ne deriva costa a chi lavora nell’appalto le dure condizioni che questo libro invita a considerare in tutte le sue implicazioni. Il disagio delle nuove generazioni cinesi può subire metamorfosi e, trasmettendosi ai più giovani, tradursi in un rilancio di nuove prospettive di vita ancor prima che di lavoro, nonostante un modello produttivo che in questa congiuntura e in particolare nel settore elettronico appare globalmente ossificato.

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Note
1 Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001, pp. 97-110, delinea efficacemente il rapporto “tra rivolta (culturale) e rivoluzione (tecnologica)” sulla costa occidentale degli Stati uniti tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70. Mariana Mazzucato, Lo stato innovatore, Laterza, Roma 2014 studia il decisivo contributo della spesa pubblica all’innovazione tecnica, sfatando il mito di Steve Jobs come innovatore. La capacità di Jobs, secondo Mazzucato, starebbe piuttosto nell’integrare in un’architettura innovativa prodotti inventati e sviluppati da altri, i quali sono stati spesso sostenuti da investimenti pubblici.
2    Va notato che negli stabilimenti della Huawei, impresa a capitale cinese di elettronica e di apparati elettrici di Shenzhen, si è verificata un’analoga serie di suicidi tra la fine del ventesimo secolo e il primo decennio di questo secolo.
3    È significativo che, come indicano gli autori, le dipendenti della Foxconn in Cina sono diminuite dal 47 al 35 per cento dal 2008 al 2011, una tendenza che non può essere spiegata soltanto con la disparità della popolazione maschile (circa 20 milioni sul totale della popolazione di 1.349 milioni, un divario dell’1,4 per cento) rispetto a quella femminile nel periodo. V. anche infra, cap. 4, nota 10.
4    Va notato che nell’America settentrionale e nell’Asia orientale le grandi imprese dell’elettronica, compresa la Foxconn, insistono nel chiamare “campus” i loro stabilimenti con annessi dormitori. Per una versione californiana del campus di lavoro, che evoca lo spettro della company town statunitense, v. Reed Albergotti, “A Company town for Facebook”, «The Wall Street Journal Europe», 4-6 ottobre 2013, p. 23. Si tratta di un quartiere di proprietà di Facebook destinato a ospitare il 10 per cento della forza-lavoro a Menlo Park in California. Per una versione mitteleuropea del regime di fabbrica-dormitorio, v. Rutvica Andrijasevic e Devi Sacchetto, “Made in the EU: Foxconn in the Czech Republic”, «WorkingUsa. the Journal of Labor & Society», vol. 17 (3), 2014, pp. 391-415.
5    Olivier Cyran, “In Bangladesh, gli assassini del prêt-à-porter”, «le Monde Diplomatique/il manifesto», giugno 2013, p. 9, intervista un intermediario francese attivo nel Bangladesh che afferma: “I marchi europei hanno per lo meno un margine di sette… per non dire dieci volte”. Dei sette dollari incassati dall’impresa locale per una camicia, solo 38 centesimi di “taglio e cucito” costituiscono il salario operaio. Cfr. Rubana Huq, “letter from a Bangladesh factory”, «The Wall Street Journal Europe», 20 maggio, 2013, p. 16. Per l’80 per cento le maestranze dell’abbigliamento nel Bangladesh sono donne. Supponendo che una lavoratrice riesca a confezionare 7,7 camicie nelle otto ore, la sua paga giornaliera sarà di 2,92 dollari al giorno, insufficiente a mantenere un nucleo famigliare di due persone.
6    La favola della preponderanza del lavoro di progettazione nell’elettronica è la proiezione fantasmatica dei patti leonini imposti dai committenti agli appaltatori. I contratti di committenza ritagliano il monte-salari degli occupati riducendoli a una distribuzione di magre buste paga, a tutto vantaggio degli ampi margini di profitto dei vertici dei grandi marchi.
7    Per un aggiornamento sulla pratica dei tirocini nelle fabbriche elettroniche, v. Eva Dou, “Tech Factories turn to Student Labor”, «The Wall Street Journal Asia», 24 settembre 2014, che stima in otto milioni il numero degli studenti tirocinanti per periodi che vanno dai tre ai dodici mesi. L’autrice dell’articolo osserva che la pratica è assai diffusa nelle imprese appaltatrici di elettronica, ma che è stata ridotta nei grandi stabilimenti della Foxconn.
8    Nella Repubblica popolare cinese vige un sistema in virtù del quale un individuo gode dei diritti di cittadinanza sulla base del luogo di nascita e non di domicilio effettivo.
9    Nel 2012 il salario netto medio dei 30.000 addetti alle vendite della Apple negli Stati Uniti era la magra cifra di 25.000 dollari all’anno. V. David Segal, “Apple’s retail Army, long on loyalty but Short on Pay”, «The New York Times», 24 giugno 2012. La costruzione del centro-dati della Apple iniziato nel 2010 nella Carolina del nord è costata un miliardo di dollari ma occupa soltanto 50 operatori a tempo pieno assunti direttamente. La Apple per costruire il centro-dati ha ottenuto la riduzione delle tasse del 50 per cento sui beni immobili e dell’85 per cento su quelle personali. P. Thibodeau, “Apple, Google, Facebook turn N. C. into data center hub”, «ComputerWorld», 3 giugno 2011, http://www.computerworld.com/article/2508851/da-ta-center/apple--google--facebook-turn-n-c--into-data-center-hub.html
10    Ibid.
11     Adam Lashinsky, I segreti di Apple, Sperling&Kupfer, Milano 2012, p. 103.
12 Charles Duhigg and Keith Bradsher, “how the U.S. lost out on iPhone Work”, «the New York Times», 21 gennaio 2012, p. a1, a22, a23. http://www.nytimes.com/2012/01/22/business/apple-america-and-a-squeezed-middle-class.html?page wanted=all
14    Adam Lashinsky, cit., p. 161.
15    V. infra, cap. 5.
16    La stagionalità della domanda nel settore industriale di punta del ventesimo secolo, l’auto, era un oggetto del contendere tra le nascenti organizzazioni sindacali e le imprese automobilistiche statunitensi negli anni ’30. Le ondulazioni più vistose furono superate con l’aumento delle scorte nei periodi di caduta della domanda e il loro smaltimento nelle fasi di ripresa, generalmente in primavera. La produzione snella o “just-in-time” presuppone non la leggerezza della domanda variabile bensì la pesante incapacità manageriale di attenuare gli sbalzi più violenti degli ordinativi.
17 Peter Nolan, Chinese Firms, Global Firms. Industrial Policy in the Age of Globalization, Routledge, London-New York 2013. Sugli investimenti cinesi in africa, v. il volume di Howard W. French, China’s Second Continent: How a Million Migrants Are Building a New Empire in Africa, Knopf, New York 2014, mentre è annunciata la pubblicazione di altri studi sull’argomento. La recente apertura di uno stabilimento della maggiore impresa cinese di telecomunicazioni, la Huawei, nella Carolina del nord, può essere letta come un tentativo di andare oltre la crescita basata sul consumo interno e di affermarsi come una delle multinazionali cinesi che ambiscono a diventare le pioniere delle tecnologie avanzate.

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