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Il «sogno cinese» alla prova della classe. Un’intervista a Pun Ngai

di Giorgio Grappi e Devi Sacchetto

Chinese dreamIl Parlamento Europeo discute se la Cina debba essere considerata o no un’economia di mercato, moltiplicando le critiche all’interventismo dello Stato cinese negli affari economici. Sono tuttavia molte le imprese anche europee che in questi anni hanno approfittato dei rigidi regimi del lavoro imposti da Pechino. Altrettante sono quelle che sperano nell’imminente arrivo di investimenti cinesi per rilanciare il loro fatturato. Dopo aver ricoperto il ruolo di «fabbrica del mondo» per mansioni a basso valore aggiunto, oggi il ruolo della Cina sta drasticamente cambiando. Il protagonismo delle aziende cinesi, insieme alla strategia nota come Nuova via della Seta, che promette ingenti investimenti nel settore delle infrastrutture, fa gola a molti attori in ogni angolo del globo. Nell’epicentro dell’Europa colpita dalla crisi, la vicenda del porto del Pireo, oggi controllato dalla cinese Cosco grazie ad una concessione trentennale che ne ha rilanciata la posizione globale, è solo il più importante esempio di come la Cina sia più che mai vicina. Sappiamo però poco delle trasformazioni in atto nel paese.

Nel corso degli ultimi anni lo sviluppo economico cinese pare aver imboccato una nuova strada, con delocalizzazioni verso l’interno del paese e all’estero, mentre alcuni commentatori hanno sottolineato l’emergere di un’ampia classe media.

Tuttavia, i conflitti che attraversano il paese hanno raggiunto un nuovo picco all’inizio del 2016. Il numero di lavoratori migranti interni che si spostano verso le città continua a crescere e ha superato il 20% della popolazione, circa 270-280 milioni: impegnati soprattutto nell’industria e nelle costruzioni, sono loro i principali protagonisti di centinaia di scioperi e proteste che, per ora, raramente superano il livello della singola azienda e sono variamente contenute da un poderoso apparato di sicurezza.

Ciò che accade oggi in Cina è importante non soltanto perché contribuisce a determinare gli assetti geopolitici del presente e di un imminente futuro, ma anche e soprattutto perché in una produzione ormai globale l’emergere di una nuova classe operaia cinese e il suo rapporto con le imprese e con lo Stato hanno un impatto diretto su dinamiche del lavoro e formazioni di potere globali. L’esperienza delle operaie e degli operai cinesi e le trasformazioni che coinvolgono il lavoro migrante, saranno il punto di partenza per una serie d’incontri con Pun Ngai*, professore associato alla Hong Kong University of Science and Technology e autrice di numerose pubblicazioni personali e collettive, a Roma (6 giugno), Bologna (7 giugno) e Padova (8 giugno).

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In questi anni diversi istituti di ricerca hanno riscontrato un nuovo picco della conflittualità operaia in Cina. Dal tuo punto di vista, che cosa caratterizza la situazione attuale nelle fabbriche e, più in generale, nel mondo del lavoro in Cina?

L’elemento che più caratterizza questa fase è la radicalizzazione della diseguaglianza sociale, in particolare del problema della classe che ha travolto la Cina negli ultimi tre decenni. Mentre ci sono i nuovi ricchi nella lista dei top 500 di Fortune, si assiste alla crescita di una nuova classe operaia composta di oltre 500 milioni di lavoratori urbani e di contadini-operai: la più numerosa al mondo. Con il rallentamento dello sviluppo economico e la sovrapproduzione, i conflitti cresceranno.

 

Qualche anno fa parlammo della crescita di una nuova generazione di operai, migranti e precari, in una situazione di stallo tra nessun avanzamento sociale e nessuna possibilità di ritirata. Che cosa è cambiato in questi anni?

Non c’è nessun cambiamento, a parte il fatto che il problema è diventato più serio. Dopo il 2012 e 2013, la crescita dei salari nelle zone industriali della Cina costiera ha subito un rallentamento, ma il costo della vita, in particolare degli affitti, continua a salire nelle aree urbane. Molti lavoratori migranti fanno fatica a stabilirsi nelle città con le loro famiglie, il che produce il fenomeno delle famiglie divise e dei bambini che rimangono nelle zone rurali. In Cina non ci sono gli slum nelle aree industriali, semplicemente perché il regime dei dormitori è un loro valido sostituto, ma allo stesso tempo il regime della fabbrica-dormitorio occulta i bisogni di riproduzione sociale e rende possibile la circolazione dei migranti tra diversi stabilimenti e tra le città, privandoli della vita famigliare o di comunità. I migranti che vorrebbero tornare nelle loro città di origine scoprono che i loro piccoli appezzamenti sono stati requisiti dal governo locale per scopi industriali o commerciali, oppure che il mercato dei prodotti agricoli è sempre più dominato dalle importazioni di prodotti statunitensi quali i semi e i fertilizzanti. La terra agricola non è più quindi un mezzo di sostentamento per questi migranti di ritorno. Un tale dilemma non può essere sciolto senza un cambiamento strutturale.

 

Hai studiato la Foxconn per molti anni. Com’è la situazione oggi?

La Foxconn è un impero industriale direttamente legato a Apple. Il calo dei profitti di Apple e la saturazione del mercato con iPad e iPhone hanno dei contraccolpi ovvi per la Foxconn. Il numero dei suoi dipendenti in Cina è calato da 1,3 milioni a meno di un milione. Il paradosso è che oggi gli operai della Foxconn non svolgono abbastanza lavoro straordinario, e il loro salario è così diminuito del 15 o 20% rispetto agli anni scorsi. Siccome il salario di base per una giornata di lavoro di otto ore è troppo basso, gli operai migranti cinesi dipendono dagli straordinari. I manager oggi minacciano di licenziare i lavoratori se non sono abbastanza sottomessi.

 

Hai recentemente sostenuto l’idea che sia necessario tornare al concetto di classe. Perché pensi che possa essere utile per la comprensione di questi fenomeni?

Nelle ricerche degli ultimi dieci anni, in ogni articolo che ho scritto e in ogni conferenza ho parlato della classe, perché è il concetto basilare per comprendere i rapidi cambiamenti che coinvolgono il mondo neoliberale. L’«addio alla classe» è un discorso egemonico occidentale, che sostiene lo sviluppo del capitale multinazionale. Peggio: è un discorso che maschera la lotta in corso nelle società del Terzo mondo, dove gli agenti del cambiamento storico rimangono gli operai e i contadini che vengono sfruttati dal capitale globale e sono privi del sostegno delle amministrazioni locali. Parlo di classe perché penso che la cancellazione dell’esistenza delle classi sia l’inizio e l’obiettivo dell’emancipazione umana. Quello di classe è un concetto di base per comprendere non soltanto la composizione e la stratificazione della società, ma anche il potere potenziale degli agenti che storicamente hanno cercato di cambiarla. La classe è perciò tanto un concetto analitico quanto uno strumento di emancipazione per modificare un mondo sempre più sotto il controllo del capitale monopolistico transnazionale.

 

Dalla Cina giungono notizie dell’introduzione su larga scala dei robot nelle imprese multinazionali. Pensi che questo processo possa produrre una sostituzione di manodopera, con i robot in grado di modificare i rapporti di potere dentro le fabbriche?

Sì, un modo per il capitale per risolvere il problema della sovrapproduzione è aggiornare le manifatture e creare nuovi mercati per nuovi prodotti. Molte industrie oggi producono robot poi utilizzati nei settori automobilistico, elettronico e in altre produzioni ad alto valore aggiunto. Molti governi locali nella Cina meridionale sovvenzionano le aziende che utilizzano robot. Una sostituzione di manodopera con robot potrà avere un grande impatto nella relazione capitale-lavoro, e modificare il rapporto di potere nelle fabbriche. Se la sopravvivenza della nuova classe operaia cinese fosse minacciata, è probabile la nascita di un movimento luddista cinese. La dinamica di «nessun avanzamento, nessuna ritirata» renderà inevitabile la crescita di un movimento luddista.

 

Molti attori economici vedono oggi nella Cina una possibilità di spingere la crescita e gli investimenti. Discorsi come quello sulla nuova via della seta sono utilizzati, anche in Europa, per immaginare possibilità di sviluppo, ma sappiamo poco di cosa succede in Cina. Cosa ne pensi?

Se la Cina conservasse i principi del socialismo, come nella Cina di Mao, allora la nuova via della seta potrebbe essere un modo per immaginare nuove possibilità di sviluppo. Il capitale cinese che «va fuori» è costretto dalle logiche dell’economia neoliberale: difficilmente potrà generare un mondo migliore. Molti ricercatori cinesi direbbero che gli investimenti cinesi all’estero sono migliori di quelli statunitensi in termini di benefici per le società locali. Per me è solo una questione di gradazione. La natura della valorizzazione del capitale attraverso l’espansione in altre società e con il sostegno degli Stati nazionali locali è la medesima, che si tratti di Stati Uniti, Russia o Cina. La sovrapproduzione in Cina, soprattutto nelle industrie pesanti come l’acciaio, ha reso necessario per i capitali andare all’estero per cercare nuove possibilità d’investimento. Questo non è certo un nuovo internazionalismo.

 

Qual è l’impatto di questi processi nell’opinione pubblica cinese?

A causa del forte nazionalismo che attraversa l’opinione pubblica cinese, la gran parte delle élite e dei membri della classe media è favorevole a queste trasformazioni. Essi pensano che dopo il lungo periodo di povertà, la Cina si sia alzata in piedi. Queste élite propongono un «sogno cinese» per sfidare il «sogno americano». La maggior parte della classe operaia non ha però alcuna possibilità di condividere il «sogno cinese», ma il dieci percento della classe media o superiore è fiera del fatto che la Cina sia diventata un paese importante.


*Pun Ngai ha pubblicato vari saggi sulle trasformazioni lavorative e sulle migrazioni in Cina, da ultimo, Migrant Labor in China: Post-Socialist Transformations (Polity Press). Tra le sue opere tradotte in Italia: Cina, la società aromoniosa (Jaca Book 2012), Morire per un iPhone (Jaca Book 2015) e La fabbrica globale (Ombre Corte 2015).
**Una versione abbreviata di questa intervista è stata pubblicata su «il Manifesto» del 6 giugno 2016

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