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contraddizione

Capitale in affanno e "lavoro agile"

Ultimo ritrovato, in ordine di tempo, per l’aumento dello sfruttamento lavorativo

Carla Filosa

acciaio ACome terza volta in cui proviamo ad affrontare il cosiddetto “smart work” – le prime due pubblicate su “La Città futura” e poi sul blog di “Contraddizione” con i titoli ‘La “nuova svolta” lavorativa’ e ‘“Smart working”: sfruttamento illimitato alla costrizione al lavoro’ – si tenterà ora di mettere a fuoco le origini storiche più lontane, nonché vicine, per cogliere appieno il senso e la funzione attuale di questa parvente riorganizzazione del lavoro. Più che nuova organizzazione, si deve intendere, nell’uso ideologico di “agile”, una pedissequa continuità e perfezionamento degli obiettivi che da sempre il sistema di capitale ha perseguito, ultimamente attraverso le ristrutturazioni – quelle sì - del taylorismo prima, del toyotismo o onhismo poi, confluite solo attualmente in questa dicitura anglofona non a caso senza paternità teoriche definite. Emergono nella trovata “agilità” solo consulenti e apprendisti realizzatori, o controllori di un prêt à porter dell’ultima ora, autolegittimantisi con innovazioni informatiche, peraltro aspecifiche per il modo di produzione capitalistico tuttora in vigore.

In questi lunghi anni di crisi del sistema la disoccupazione a livello mondiale è aumentata a un ritmo crescente rispetto alla rivoluzione tecnologica continuamente in atto, limitandone in parte la piena estensione nei settori produttivi e improduttivi di tutti i paesi. La disomogeneità produttiva e di accumulo di capitali fra gli stati, ha fatto emergere con ancora maggiore evidenza la gerarchia mondiale di paesi dominanti, in cui si è fatta concentrare ricerca scientifica e innovazione tecnologica connessa a ristrutturazione lavorativa, da esportare nei paesi più deboli o di più recente sviluppo nel mercato internazionale per lo più unificato. L’innovazione informatica di cui si fa largo uso nello “smart”, poi, ha riguardato prevalentemente i settori di servizio, o improduttivi, funzionali allo sviluppo organizzativo o commerciale del sistema così ampliato. L’aumento attuale, quantitativo più che qualitativo delle macchine inserite nei settori produttivi, relativamente recessivi in modo differenziato per la saturazione dei mercati, attende – se e quando possibile - ben altre innovazioni robotiche di cui la Cina, in particolare, secondo un’informazione corrente per noi inverificabile, sembra essere punta di diamante in termini concorrenziali.

Il Nuovo Ordine Mondiale rispolverato (dal più famigerato Neue Ordnung di ispirazione nazista) negli Usa del ’74, a guida Kissinger, aveva già determinato un nuovo ordine del lavoro che, all’interno di riforme istituzionali, avrebbe dovuto cancellare l’antagonismo reale di classe tra capitale e lavoro. Proprio anche la stessa denominazione classe doveva essere delegittimata in una generica dimenticanza o in un degradato isolamento culturale. Dopo aver dichiarato, nella propaganda di sistema, l’obsolescenza dell’antitesi tra gli interessi della produzione e riproduzione del capitale e quelli della sopravvivenza subalterna della forza lavoro, bollati come conservatori quelli che ancora vivono consapevolmente l’intrinseca e ineliminabile conflittualità strutturale, il rinnovato “ordine” corporativo ha ritenuto di essere maggiormente riparata dalla minaccia di un’accumulazione mondiale nell’inesorabile calo progressivo .

Il neocorporativismo del dopoguerra - a firma giapponese dell’ingegnere Taiichi Ohno (vicepresidente di Toyota Motors) negli anni ’70 - è risorto sulla trasformazione del processo lavorativo come doppia flessibilità, simultanea , di lavoro e macchine, contemporaneamente riflesso nei mutamenti giuridico-istituzionali, poi estesisi a livello mondiale. Riassumendo l’analisi effettuata su quel periodo: il perfezionamento della MTM (Misurazione tempi e metodi risalente a F.Taylor nel 1911) operato nel sistema denominato poi della “Qualità totale” - per chi non ricorda o non ha mai colto pienamente il senso non tecnologico , ma di riaffermazione incondizionata di comando sul lavoro che la ristrutturazione in questione ha pienamente realizzato – è stato possibile in seguito alla seconda grande rivoluzione industriale dell’automazione del controllo . Dopo la prima rivoluzione industriale, che sostituì il moto (umano) con l’introduzione delle macchine nel processo lavorativo, la trasformazione qualitativa operata nel toyotismo ha riguardato la sostituzione del cervello (automazione del controllo) , rendendo oltretutto multifunzionale il lavoro , interposto tra una macchina e l’altra. L’aumento della scala di produzione, aumento quindi della standardizzazione, dovuta a un processo di centralizzazione nelle grandi imprese transnazionali, ha determinato quella produzione a fungo che singoli piccoli o medi capitalisti non avrebbero mai potuto sostenere. Tale ristrutturazione avrebbe ovviamente portato all’agognata flessibilità salariale , ovvero riduzione dei costi (o di capitale variabile) per una maggiore quantità di lavoro.

Attraverso le nuove tecniche lavorative ( V. Filosa-Pala, “Il terzo impero del sole”, Bologna, 1992 Synergon) - in cui all’aumento di intensità e condensazione lavorativa si univa la tendenza all’eliminazione delle scorte e gerarchizzazione dei subfornitori - si è instaurato anche un aumento della durata di turni, straordinari e cottimi calcolato in un 30% in più della media europea di circa 500 ore lavorative condensate per anno. Il salario è stato ridotto a meno della metà in busta paga, laddove la partecipazione ai risultati aziendali (per definizione imponderabili) potrà – forse – restituire al lavoro già oggettivato qualcosa della quota sottratta, ma intanto rendendolo subalterno al ricatto dei risultati e legato al rendimento lavorativo individuale , irretito nella logica premiale del cottimo corporativo. Il posto di lavoro fisso riguarderà programmaticamente circa i due terzi della forza-lavoro, dividendo il mercato del lavoro in un “ mercato della lealtà” (aristocrazia selezionata in base a fedeltà, senso del dovere, disponibilità incondizionata, ecc.) gerarchizzato e protetto, e un “ mercato mercenario” inferiore, non garantito, ricattabile e marginalizzato. In tale contesto si farà strada l’ideologia a) del Bene Comune, cui annettere lo spirito di sacrificio (per le sole masse lavoratrici), b) di un rinnovabile “patriottismo”, ad occultamento della regionalizzazione degli stati da parte di un capitale finanziario transnazionale sempre più concentrato, infine c) di misticismi di varia origine per favorire un consenso sociale di tipo fideistico e finalmente imbelle.

Cardine dell’ottenimento di un consenso vincolante sarà in primo luogo la costruzione di un sindacato gestito dai dipendenti di fiducia dell’impresa, per averne il pieno controllo . Sarà infatti il dirigente sindacale di turno – abituato al contatto diretto con i lavoratori – ad essere il miglior veicolo degli interessi aziendali per realizzare l’ auspicata subalternità dei dipendenti. Conseguenza di tutto ciò sarà la diminuzione drastica dell’assenteismo e la diminuzione delle ferie. La “centralità del lavoro” fu ripresa in quanto “investimento più importante”, essendo chiaro che avrebbe potuto costituire la parte più rilevante di ostacolo (non annullamento) alla caduta tendenziale del tasso di profitto. Infatti, sia la diminuzione del tempo di lavoro necessario sia la riduzione della forza-lavoro agiscono simultaneamente e reciprocamente si determinano: la prima aumenta il saggio del plusvalore, la seconda fa diminuire la parte pagata del lavoro impiegato, ma contemporaneamente anche quella non pagata, quale insanabile contraddizione di questo sistema.

I lavoratori di quest’ultima ristrutturazione di capitale, quindi, saranno soggetti a minori specializzazioni, maggiore cooperazione e collaborazione , costretti a una solidarietà formale e pertanto gestibili entro forme non antagonistiche e più propense ai compromessi. L’antagonismo verrà fatto percepire come comportamento asociale o autolesionistico e siffatta compattezza lavorativa consentirà l’appropriazione gratuita dei risultati del lavoro combinato , collettivo, nascosto dentro una riorganizzazione lavorativa apparentemente neutra ed efficiente. Gli obiettivi perseguiti e pianificati produrranno pertanto la sovrapposizione di tempo di produzione e tempo di lavoro, eliminandone porosità e attese, e ottenendo un’ora lavorativa di sessanta minuti: a) zero scorte – sia in termini di capitale costante (materie prime, macchinari, ecc.) che variabile (lavoratori salariati come costi), oltre a risparmi nei costi di approvvigionamento, trasporto, magazzinaggio e gestione delle scorte; b) zero opposizioni, nell’abile contrapposizione tra esercito attivo dei lavoratori e esercito industriale di riserva . Attraverso le diverse sfumature di quest’ultimo, poi, la “disoccupazione” statistica potrà essere agevolmente modificabile, fin quasi a sparire, per l’utilizzo ad libitum di frazioni lavorative in base a necessità momentanee delle aziende, ovvero alle oscillazioni di mercato per ammortizzare le ripercussioni su costi e profitti.

Questa che può apparire solo una premessa eccessivamente lunga per riaffrontare l’odierno “smart work”, in realtà serve per confrontare quegli obiettivi di modernizzazione di quasi mezzo secolo fa con quelli ripropostici come nuovi nella crisi “smart” dei nostri giorni.

1) Questo cosiddetto lavoro “agile” si presenta ora come “sviluppo dei talenti per migliorare l’engagement e la motivazione” (Marco Minghetti, 24.05.2014 “Lo smart work incontra il Talent Management ” su White Paper, School of Management del Politecnico di Milano), per favorire la competitività tra lavoratori. A tale obiettivo possibile solo entro “ flessibilità e autonomia” , si avviano “scelta di spazi, orari lavorativi e strumenti” in vista della “ responsabilizzazione dei risultati”.

Rispetto al toyotismo si noti l’identico rovesciamento della concorrenza tra capitali sulla competitività indotta nei lavoratori, al posto di una solidarietà – non formale ma - di classe instauratasi fino a tutti gli anni ‘60. I “talenti” altro non sono qui che l’uso più sfruttabile dell’individuo già flessibilizzato e autonomizzato quel tanto che è necessario per un lavoro isolabile, di cui porterà responsabilmente i risultati ottimizzati del proprio cottimo. Identico anche il considerare i “risultati” a negazione della processualità maggiormente profittevole articolata del lavoro combinato, comunque collettivo, in forme sempre più complesse. La partecipazione “organizzativa” saldata nel risultato, risulta quindi una partecipazione al ricatto aziendale, che decide in quanto leadership anche le forme premiali salariali da destinare al possibile completamento salariale.

2) L’ “agilità” quindi – che fa eco alla “produzione snella” di cui sopra - consiste nello sperequato apporto di “benefici per: a)l’azienda b) la persona c) la sostenibilità ambientale”. Risulta evidente il sotteso solito concetto armonizzante della neocorporazione lavorativa, a negazione ideologica dell’esistenza strutturale del conflitto sociale.

a) Il sicuro beneficio per l’azienda è: l’aumento della cosiddetta “produttività” lavorativa (nel senso invece dell’intensificazione e condensazione lavorativa già indicata); la riduzione dell’assenteismo per l’effetto ricattatorio del cottimo; il risparmio dei costi d’ufficio, locali (spazio), stigli, eventuali strumenti, ecc. Quindi la possibilità di valutare il “raggiungimento degli obiettivi e risultati” mediante “l’esperienza digitale senza soluzione di continuità e indipendentemente dal luogo”, avendo come schema (framework) di riferimento: il superamento di gerarchia, formalizzazione, stabilità, regole, procedure, obbedienza, subordinazione. L’isolamento dei lavoratori rende vacuo il ruolo dei sindacati, peraltro già istituzionalizzati.

Questa cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro (sedicente “ scientific management” ) – che risuona dal taylorismo in poi - invece tende a: collaborazione e comunicazione, relazioni trasversali, valorizzazioni di talenti e innovazioni, personalizzazione e flessibilità, responsabilità e autorizzazione (“ empowerment” ) a forme di autonomia e decisione. Fin qui la “novità” consiste nello scoprire (!) le “figure” (in senso hegeliano e marxiano) storiche concrete, coincidenti o meno, con la “forma” del modo di produzione capitalistico, già analizzate nel Capitale di Marx nella seconda metà del XIX secolo. Ivi il “lavoratore complessivo” era già apparso come “cooperazione, parcellizzazione e automazione progressiva del lavoro necessario, quale sussunzione sotto uno scopo transindividuale” non più “legato alla ‘fabbrica’”. In una interpretazione intensiva è “una singola unità produttiva”, in una estensiva è l’espressione di una “umanità integrata, di un lavoratore complessivo mondiale” (R. Fineschi, “Un nuovo Marx”, Roma, 2008, Carocci, pp. 154-6). In altri termini, siffatta scoperta dell’acqua calda propaganda una illimitata libertà di esecuzione delle forme del cottimo (la forma più consona allo sfruttamento!), trasferita sull’ipotetica “libertà” del cottimista, ma solo dalle panie di una obsoleta gerarchizzazione, ormai limitante le possibilità di un uso incalzante della forza-lavoro, assolutamente controllabile e ricattabile oggi per via informatica. La tradizionale e arbitraria identificazione di lavoro e forza-lavoro permette così uno scambio tra aumento di libertà dello sfruttamento con un aumento invece della costrizione al lavoro di una forza-lavoro irretita e privata di difese.

Attraverso le tecnologie digitali (Cloud, Social, Mobile, Unified Communication and Collaboration, ecc.) è ora possibile sia impartire ordini o autorizzazioni ai propri dipendenti sia controllarli da remoto. Fondamentale è stimolare in loro il senso di appartenenza, fiducia, autonomia decisionale (limitata all’attività specifica), flessibilità, senso della virtualità.

b) I benefici per la persona dovrebbero essere: maggiore soddisfazione e miglioramento lavorativo per la preferibile destinazione dei tempi e dei luoghi di esecuzione. In realtà emerge una sofferenza diffusa per la precarietà lavorativa imposta di fatto, mista a sospetto e paura per possibili, frequenti licenziamenti individualizzati e senza preavviso, con scomparse di colleghi dal posto di lavoro con motivazioni ignote e sempre reiterabili. Intanto lo zelo e l’intramontabile obbedienza al comando sul lavoro, realizzato di fatto seppure non direttamente dal proprio superiore, ma fatto percepire come disponibilità alla carriera, alla prestazione lavorativa illimitata, all’esecuzione materiale, ancorché corredata di creatività incentivata (“ contemplation space”), ecc. alimentano la formazione di individui unidirezionati agli interessi aziendali, psichicamente banalizzati e inclini a interdire ogni capacità critica sia personale sia sociale.

L’approccio ideologico da cui sono circuiti mostra loro la complementarità tra le esigenze proprie e quelle dell’impresa. La conciliazione tra la flessibilità dell’orario e degli spazi e il welfare aziendale può favorire la funzione genitoriale o di assistenza familiare, mentre i possibili vantaggi riguardano una tutela sanitaria e di sicurezza (eventuale esposizione al video), scelta dell’orario dei propri ritmi. Sempre che tutto ciò non resti sulla carta e non vinca l’inapplicabilità dovuta a casualità sempre peculiari. Aspetti meno accattivanti sono però il minore accesso alle conoscenze (know how) che contano, il maggiore isolamento personale e la mancata integrazione relazionale nella squadra lavorativa. La “socialità” è infine unidirezionata e funzionale alla sola impresa che ne gestisce tempi e contenuti.

c) I benefici per l’ambiente dovrebbero essere: riduzione del traffico, di CO², e di tempi di percorso necessitati e perciò improduttivi sempre ai fini aziendali, cui tutti i benefici fanno sempre ritorno.

Smart work” significa quindi un’ulteriore flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro (si lavora anche fuori azienda, il controllo è assicurato dalla tecnologia digitale in uso), e una generale cottimizzazione (non solo all’interno dei settori economici e con l’avallo dell’intervento statale). La mediazione governativa è: a) ideologica (“cultura dell’innovazione” unita all’illusione della fine della misurazione in termini di tempo dell’attività lavorativa, ridotta a risultato ); b) normativa (nuove regole); c) istituzionale (Approvazione del Consiglio dei ministri del ddl sullo “smart work”; gennaio ‘16).

Un “lavoratore a progetto” ((Project Worker) può lavorare in tempi non considerati convenzionali, e quand’anche in tempi misurabili. “Ogni progetto può essere scomposto in microfasi e ognuna di esse può essere etichettata con parametri di tempo di esecuzione, di qualità e di costo (project management). Il lavoro del progettista può essere così misurato in termini di fasi elementari portate a termine nell’unità di tempo (settimana, mese, ecc.). Alternativamente, può essere valutato in termini di tempo facendo riferimento a un obiettivo temporale di completamento delle fasi (benchmark). (D. Laise, “La natura dell’impresa”, Milano, Egea, 2015).

Si considera cioè il lavoro come attività umana in generale, cancellandone la funzione capitalistica di lavoro salariato. L’innovazione è almeno di due secoli fa. Il lavoro si solidifica in “pezzi” di cui non si sospetta neppure la quota gratuita. Per questo vengono offerti incentivi alle imprese come per il Jobs Act di cui è parte integrante.

Il Trattamento economico dovrebbe essere “non inferiore” a quello percepito dai lavoratori, con le stesse mansioni, all’interno dell’azienda. Incentivi di carattere fiscale e contributivo (premi) sono applicati anche ai lavoratori “agili”.

Le nuove Regole stabiliscono che l’accordo deve essere stipulato per scritto. Va individuato un tempo di riposo per il lavoratore. Il contratto può essere a termine o a tempo determinato; l’eventuale recesso è avvisato con 30 gg. di anticipo. Il datore di lavoro deve fornire: “misure atte a garantire la protezione dei dati utilizzati e elaborati dal lavoratore che svolge la prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile”.

Il lavoratore è tenuto a custodire gli strumenti tecnologici messi a disposizione, è responsabile della riservatezza dei dati cui ha avuto accesso.

Per la Sicurezza e assicurazione:il datore di lavoro deve garantire la salute e la sicurezza del lavoratore, fornire un’informativa scritta sui rischi generali cui può incorrere. L’assicurazione è obbligatoria. Il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni, o malattie professionali. (Cristiana Gamba, il Sole 24 ore, 29.01.’16).

Slogan imperativo del “lavoro agile” è: innovare , conciliare , competere . Produttività partecipata (non agli utili ma organizzativa, i cui suggerimenti possono essere premiabili). Responsabilità (o autocondizionamento a mantenersi nel proprio ruolo di capitale fisso appropriato). La “Nuova filosofia manageriale” vorrebbe fondarsi sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta di spazi, orari, strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilità sui risultati. Non c’è però nessuna tracciabilità sociale della quantità di lavoro svolto. È approntato un approccio multidisciplinare a supporto dei Decision Maker (Responsabili dei Sistemi Informativi/Cio, Responsabili delle Risorse Umane, HR Facility Manager) di organismi pubblici e privati. Dal telelavoro si passa al lavoro esterno o da remoto, (professionisti, autonomi, fornitori di servizi, ecc.), su appalto, domanda, incarico o commissione in via straordinaria. I benefici dovrebbero equamente riversarsi su aziende, persone, ambiente, puntando sul senso di appartenenza, fiducia, empowerment, ecc.

L’osservatorio “smart work” segnala, a favore delle imprese, un aumento di “produttività” di 27 miliardi € e riduzione di costi fissi in 9 miliardi.

Del Jobs Act sembra (Marta Fana e Michele Raitano su “Etica e Economia”, 25.05.’16) che - dopo gli incentivi e bonus statali del costo tra i 14 e i 22,6 miliardi di € - possa produrre solo occupazione precaria e a termine. (1° scenario) il 13% degli occupati cessano l’attività lavorativa entro il1° anno, il 17,7% entro il secondo, il 10,3 entro il 3°. (2° scenario) il 41% dei contratti trasformati a tempo indeterminato dura meno di 3 anni, oppure (3° scenario) il 20% dura 18 mesi mentre l’80% raggiunge i 36 mesi (al 37° c’è l’obbligo di assunzione secondo la direttiva europea ).

Il rischio è che senza incentivi crolli l’occupazione. Nel 2016 ci sono stati più voucher per tutti: +45% nel 2016. Questo sembra essere il concreto beneficio per il lavoratore.

La maggiore produttività lavorativa (35-40%) per minori perdite di tempo o distrazioni, determina anche minori costi complessivi (27 mrd €) e costi fissi (10 mrd €), minor assenteismo (63%). Il tempo di lavoro e di vita si sovrappongono nella precarizzazione conciliata e nell’espulsione programmatica dal mercato del lavoro di un esercito mondiale di riserva sempre più stagnante o pauperizzato. La contraddizione reale può dar luogo al suo superamento qualitativo da questa immane quantità continuamente in aumento della disuguaglianza sociale, resa calamità.

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