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E se il lavoro fosse senza futuro? (Appendice)

Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato

Giovanni Mazzetti

Quaderno Nr. 8/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo

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Presentazione Ottavo quaderno di formazione on line

Pubblichiamo l'appendice delle cinque pubblicazioni di "E se il lavoro fosse senza futuro? Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato".

Qui, qui, qui, qui, qui le parti precedenti.

 

Appendice

Perché la metafora della “fine del lavoro” è sbagliata

E’ ovvio che, dopo aver concluso il nostro cammino, non possiamo sottrarci ad un confronto più puntuale con le argomentazioni di coloro che hanno proposto una teoria della “fine del lavoro”. Come il lettore si sarà reso conto, pur distinguendoci da  loro abbiamo sin qui difeso la posizione di quanti si sono addensati attorno a quell’ipotesi.1  Se ci ha letto con l’indispensabile approccio critico, oltre che con la necessaria dose di pazienza, a questo punto dovrebbe sorgergli spontanea una domanda: ma se la teoria della “fine del lavoro” non è una “emerita bufala”, se non corrisponde alla mera “proiezione utopistica di fantasie” da parte di visionari, per quale ragione, dopo esser comparsa sulla scena, si è consumata come una meteora, fino a dissolversi nel nulla?2

 Un’interpretazione dell’evoluzione in atto che si trova in  un qualche solido riferimento alla reale dinamica sociale non può puramente e semplicemente svanire, appunto perché rinvia a dei bisogni che sono effettivamente in corso di maturazione. E nel mentre alimenta quei bisogni sotterraneamente, come un fertilizzante, affronta il difficile problema delle forme comunicative che possono garantire un’efficacia alle istituzioni nelle quali cercano di realizzarsi. Ad esempio, l’ipotesi della possibilità di un pieno impiego non precario, e tale da garantire uno sviluppo grazie alla spesa pubblica, che si affaccia sulla scena tra il 1920 e il 1930 con i primi scritti di Keynes, certo non conquista un ruolo egemone per quasi venti anni, ma non scompare completamente, com’è invece accaduto alla teoria della “fine del lavoro”, ed anzi fiorisce in modo prorompente quando la sua validità sociale diventa palese.

 I pochi che ancora balbettano qualcosa in direzione dell’ipotesi della “fine del lavoro”, se la cavano replicando che, vista l’avversione generale che ha subito, quella teoria non poteva non essere accantonata.  Noi, però, non condividiamo questo approccio, che si limita a lamentarsi dell’incomprensione altrui.  Per noi il problema di qualsiasi studioso è quello di farsi comprendere, almeno da chi sperimenta dei bisogni che vanno nella stessa direzione dei suoi. Se una comprensione manca, poiché il lato attivo è quello di chi pretende di aver compreso e di saper spiegare, non si può recriminare che gli altri non riescano a far propria quella spiegazione.  Quando un’articolazione del pensiero si schianta contro il procedere reale senza lasciar traccia, vuol dire che, in qualche modo, ha fallito nella prospettazione dell’esperienza sociale che intende veicolare. Detto in termini semplici, nella costruzione della metafora c’era qualcosa di sbagliato o di inadeguato, che ha impedito che nei suoi confronti intervenisse quell’apertura indispensabile per consentire alla comunicazione di essere accolta, magari anche attraverso una rielaborazione critica, che almeno non l’avrebbe fatta scomparire nel nulla.

 

Dove ci conduce l’ipotesi della “fine del lavoro”?

Per cominciare a capire come e perché la meteora si è consumata, lasciamo innanzi tutto  la parola a  Rifkin, che è stato il teorico più noto di questo filone di pensiero.  In che cosa si concretizza, a suo avviso, “la fine del lavoro”?  “Nella transizione da una società basata sull’impiego in massa nel settore privato ad una fondata su un criterio di non-mercato3 per l’organizzazione della vita sociale.  [Ciò] richiederà un ripensamento dell’attuale visione del mondo.  La ridefinizione del ruolo dell’individuo in una società priva di lavoro di massa organizzato in maniera formale è, forse, la questione fondamentale del prossimo futuro.”4  La convinzione del più noto sostenitore dell’ipotesi della fine del lavoro è dunque che, con lo sviluppo della capacità di produrre con meno lavoro immediato, la necessità di un’organizzazione formale della produzione  receda, e ci si dovrà adeguare a questa situazione. Ma è giusto supporre che, se il lavoro necessario diminuisce, quello che rimane da svolgere possa essere erogato coerentemente con una minore organizzazione formale dell’insieme della società?  La tesi delle classi dominanti è indubbiamente questa:  lasciar libere la domanda e l’offerta di lavoro di fluire senza vincoli, cioè senza organizzarle a monte, e tutto procederà nel migliore dei modi, lasciando poi liberi gli individui di agire in modo altrettanto non organizzato per le loro finalità non economiche.  Ma dalla seconda metà del 2008 si è visto chiaramente, dopo un trentennio di ristagno, quali siano i frutti avvelenati di questa mistificazione.

A nostro avviso la situazione è addirittura rovesciata rispetto a come Rifkin la prospetta. Vale a dire che, per far fronte al problema della difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato, c’è bisogno di più organizzazione, non di meno. Certo si tratta di un’organizzazione diversa, appunto perché il suo principio ordinativo non può più essere, a differenza del passato, quello della continua crescita del lavoro erogato come condizione per soddisfare i bisogni fondamentali.

D’altra parte, della necessità di questo rovesciamento abbiamo già una conferma. Se il lettore ricorda la nostra ricostruzione storica5, non avrà difficoltà a riconoscere che “il settore privato” ha già dimostrato, nella prima metà del Novecento, una grave incapacità di impiegare un parte rilevante della massa dei lavoratori che venivano continuamente rigettati sul mercato del lavoro a causa del progresso tecnico.  E quella difficoltà fu superata con un’organizzazione formale del lavoro ancor più radicale di quella che, con l’oligopolio taylorista e fordista, aveva preso avvio ad inizio Novecento.  Ci volle, cioè, un superamento definitivo del laissez faire, attuato da parte dello stato, che rese possibile una rilevante soddisfazione dei bisogni primari della popolazione, oltre che un generale riconoscimento del ruolo positivo dei sindacati6.  Non l’assenza, e neppure il ridimensionamento dell’organizzazione del lavoro si sono presentati, pertanto, come condizione per far fronte al problema della riproducibilità del rapporto salariato.  Al contrario, proprio l’instaurarsi di un’organizzazione su nuovi presupposti e il suo sviluppo sono stati, per un trentennio, alla base della soluzione del problema della mancata riproduzione del lavoro da parte delle imprese capitalistiche.

Rifkin, convergendo in qualche modo con le convinzioni di molti suoi avversari, ridimensiona però la rilevanza storica di quel passaggio.  Seguiamolo nella sua analisi.  “La maggior parte delle persone trova difficoltà nell’immaginare una società nella quale mercato e governo interagiscano con meno intensità e frequenza nella gestione della vita quotidiana.  Queste due forze istituzionali sono giunte a dominare ogni aspetto della nostra vita, al punto di farci dimenticare quanto limitato fosse il loro ruolo nella vita della società solo un centinaio di anni fa.7  Dopo tutto, le imprese e gli Stati nazionali sono creature dell’era industriale.  Nel corso di questo secolo, questi due settori hanno avocato a sé un numero sempre più grande di funzioni e di attività che in precedenza erano svolte dalle comunità locali, attraverso lavoro cooperativo.  Comunque, oggi – con il settore commerciale e quello pubblico che non sono più in grado di soddisfare alcuni dei bisogni fondamentali della gente – i cittadini hanno la possibilità di ricominciare a guardare a se stessi, ristabilendo uno spirito comunitario che possa fungere da ammortizzatore8 tanto delle forze impersonali del mercato globale, quanto dell’incompetenza e della debolezza delle autorità di governo centrale.  Nei prossimi decenni, il ridimensionato ruolo del mercato e del settore pubblico finirà per condizionare la vita dei lavoratori in due modi.  Chi conserverà un posto di lavoro vedrà probabilmente abbreviata la settimana lavorativa e disporrà di maggior tempo libero, molti di loro saranno probabilmente spinti dalle forze del mercato a dedicare il proprio tempo libero al consumo e al divertimento.  Il crescente numero di disoccupati e sottoccupati, al contrario, si ritroverà sempre più affondato nel sottoproletariato; molti di loro, ridotti alla disperazione, per sopravvivere si volgeranno all’economia non strutturata, barattando lavoro occasionale9 in cambio di cibo e di alloggio, altri si dedicheranno al furto e alla piccola criminalità; droga e prostituzione continueranno a crescere  dal momento che milioni di esseri umani – abili di corpo e di mente ma rifiutati da una società che non ha più bisogno del loro lavoro – dovranno trovare un modo per sbarcare il lunario; le loro richieste di aiuto saranno in larghissima parte ignorate da uno Stato che stringerà sempre più i cordoni della borsa10 e che sposterà la priorità di spesa dal benessere collettivo e dalla creazione di occupazione al rafforzamento delle forze di polizia e alla costruzione di nuove prigioni.  Ma il baratro verso il quale si stanno dirigendo molte nazioni industrializzate non è in alcun modo inevitabile.  E’ disponibile un’alternativa:  una scelta che può aiutare ad ammortizzare i colpi sempre più aspri inferti alla società dai Moloch tecnologici.  Con gli occupati che dispongono di più tempo libero e i disoccupati che hanno tutto il tempo, esiste la possibilità di sfruttare il lavoro inutilizzato di milioni di persone, indirizzandolo verso funzioni produttive al di fuori dei settori privato e pubblico.  Talenti ed energie di occupati e disoccupati – di chi ha tempo libero e di chi ha tutto il tempo – possono essere efficacemente diretti verso la ricostruzione di migliaia di comunità locali e la creazione di una terza forza che riesca a sopravvivere indipendentemente dal privato e dal pubblico.”11

Ma se “il mercato e lo stato hanno evocato a sé un numero sempre più grande di funzioni e di attività”, ciò non è avvenuto, come ritiene Rifkin, per assumere su di sé delle produzioni che erano già svolte dalle comunità locali attraverso attività cooperative.  In questa ricostruzione si stravolge la storia, immaginando una condizione umana sostanzialmente immutata nelle diverse epoche storiche, con una individualità che è concepita in maniera pienamente matura da sempre, a prescindere dai rapporti nei quali si esprime e dalle forze produttive di cui dispone.  Non ci troveremmo cioè, di fase in fase, di fronte a bisogni diversi, a rapporti con l’ambiente circostante nient’affatto simili, a relazioni diverse tra gli individui, a loro differenti capacità, ecc.  Le diverse forme del coordinamento vengono concepite come un di più, e l’organizzazione potrebbe essere ridimensionata senza danno appunto perché gli individui singoli, oltre a saper fare quello che lo stato e le imprese fanno, saprebbero fare anche quello che lo stato e le imprese non sanno fare, e che avrebbero incautamente delegato a fare in vece loro.  Se il lettore ricorda la diffidenza di Marx verso queste ricostruzioni delle condizioni di vita dei nostri antenati,   può però rendersi facilmente conto che l’atteggiamento di Rifkin corrisponde a quel “volgersi indietro romanticamente alla pienezza originaria dei rapporti simbiotici”12, che risulta razionalmente inaccettabile.  Si tratta, infatti, di un ritorno che è impraticabile, proprio perché tutte le condizioni che davano corpo a quella limitata pienezza si sono dissolte e, comunque, non avevano nulla a vedere con i problemi che ci hanno investiti.  Attraverso lo sviluppo del mercato prima, e dello Stato sociale poi, gli esseri umani hanno trasceso le precedenti forme di cooperazione locale, distruggendole, e hanno imparato in tal modo a soddisfare bisogni che, in quelle condizioni, non riuscivano nemmeno a concepire.  Quella cooperazione, troppo angusta per i rapporti odierni, non può pertanto prendere corpo come nuova base della vita, e se si cerca di rigenerarla si può soltanto finire col ripescare i simulacri di un mondo dissolto, confermandoli apologeticamente in un ruolo che oggi non possono più avere, o col precipitare nel vuoto.

Alla difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato non corrisponde pertanto la libertà immediata di scegliere un’alternativa già esistente, ma piuttosto l’emergere di un problema, la cui impostazione coerente e la cui soluzione costituiscono un vincolo per poter uscire produttivamente dalla situazione contraddittoria nella quale si è precipitati.  Certo, se si immagina che il rapporto di lavoro salariato non rappresenti il nocciolo costitutivo dell’individualità della stragrande maggioranza della popolazione, il problema della “fine del lavoro” può essere relegato, come presume esplicitamente Rifkin, in una “sfera a se stante”.13  Si può cioè immaginare che le attività “fondate sulla vendita di se stessi o dei propri servizi” possano contrarsi senza traumi, perché “occupati stabili e precari e disoccupati” potrebbero riversarsi positivamente nello spazio aperto della vita – altro dal lavoro – nel quale non soffrirebbero più di “una costrizione”14, visto che sarebbero in grado di sottrarsi senza danno alle relazioni di quella sfera, “che sarebbero state imposte artificialmente”15.

Ma ciò è concepibile solo perché si rimuove qualsiasi riferimento a quelle che sono state e sono le condizioni storiche di esistenza degli individui, e si procede con un’esagerazione fantastica delle loro possibilità immediate.

 

Il nesso tra emancipazione del lavoro salariato e “fine del lavoro”

Come il lettore ricorderà, all’inizio del nostro lungo percorso abbiamo richiamato un passo di Marx nel quale sosteneva che “il capitale riduce, senza alcuna intenzione, il lavoro umano ad un minimo”, e aggiungeva che “ciò sarebbe tornato utile al lavoro emancipato, e costituiva la condizione della sua emancipazione”.16  Ma perché non si dovrebbe poter godere immediatamente, cioè in forma direttamente positiva, della contrazione del lavoro necessario, conseguente all’innovazione capitalistica?   E rispetto a che cosa il superamento della subordinazione del lavoratori dovrebbe intervenire?  La risposta a questi quesiti Rifkin l’ha davanti agli occhi, tant’è vero che ne registra chiaramente la manifestazione fenomenica. Scrive infatti:  “Sebbene nei precedenti periodi storici gli aumenti di produttività abbiano provocato una costante17 riduzione del numero medio di ore lavorate, nei quarant’anni che sono passati dalla nascita del computer, sembra essersi verificato il contrario.  L’economista di Harvard Juliet Schor puntualizza che la produttività americana è più che raddoppiata dal 1948 a oggi, intendendo dire che possiamo produrre il livello di vita del 1948  (in termini di beni e servizi disponibili sul mercato) in meno di metà del tempo che fu necessario quell’anno.   Eppure, gli americani lavorano più a lungo di quanto fossero soliti fare quarant’anni fa, agli albori della rivoluzione informatica.  Negli ultimi decenni, il tempo di lavoro è aumentato di 163 ore – cioè di un mese – l’anno.  Più del 25% di tutti i lavoratori occupati a tempo pieno mette insieme 49 o più ore di lavoro la settimana.  Negli ultimi vent’anni è anche diminuita la quantità di ferie e di assenze per malattia retribuite…  Con tempi lavorativi più lunghi di quarant’anni fa, gli americani dispongono di un terzo in meno di tempo libero; se l’attuale tendenza continuerà, entro la fine del secolo l’americano medio trascorrerà sul posto di lavoro tanto tempo quanto ne passava negli anni Venti”.18   Dunque, nel processo riproduttivo così com’è la riduzione del tempo di lavoro necessario, conseguente all’innovazione tecnica, sfocia, paradossalmente, in un prolungamento del tempo complessivo di lavoro e in un peggioramento delle condizioni lavorative e retributive.  Vale a dire che la tendenza spontanea, insita nei rapporti di produzione prevalenti, spinge in direzione opposta rispetto all’emancipazione del lavoro salariato, ciò crea uno stato di sostanziale servilismo, la cui prima manifestazione è il prolungamento del tempo di lavoro.

Ma perché mai un simile svolgimento è dovuto intervenire?  Per quale ragione l’accrescimento delle forze produttive è sfociato in un drammatico quadro di peggioramento della situazione sociale generale?  La risposta è relativamente semplice, e Marx l’aveva anticipata con grande chiarezza, anche se la sua indicazione ha finito col dissolversi nell’inconsistenza dell’astratto procedere oggi prevalente.  La vita degli individui va avanti sempre in un modo determinato, un modo che fornisce l’alveo delle possibilità, nel senso che imprigiona l’evoluzione sociale - anche quando questa interviene positivamente - entro limiti determinati.  L’aumento dei salari reali e delle garanzie per i lavoratori, che hanno avuto luogo negli anni Sessanta e Settanta, così come la conquista della settimana lavorativa di 40 ore, rappresentano uno splendido esempio di questo sviluppo positivo nell’ambito degli argini delle condizioni di vita date.  Ma l’esistenza di questi limiti non viene percepita fintanto che non sopravvengono radicali cambiamenti nel contesto materiale e sociale, cambiamenti che finiscono col far trovare quel modo di vita in contraddizione con la realtà che è stata prodotta.  Se Rifkin si sorprende che, all’aumento delle capacità produttive, le condizioni dei lavoratori salariati peggiorino, è appunto perché non sa cogliere la natura contraddittoria dei rapporti che sta analizzando.  Non vede che, pur esistendo la necessità oggettiva di un’evoluzione che permetta di godere positivamente delle nuove forze produttive e del tempo reso disponibile, il modo di essere degli individui non contempla già l’esistenza di quello spazio di libertà, cosicché essi sono condannati a procedere come se quella libertà non esistesse, determinando effetti distruttivi sul loro stesso processo riproduttivo19.  Come la maggior parte dei conservatori, ai quali si oppone, Rifkin immagina, invece, che i rapporti costituiscano un qualcosa di esteriore rispetto agli individui, cosicché questi ultimi sarebbero “altro” e “di più” rispetto a come la loro vita si estrinseca, con la conseguenza che essi saprebbero orientarne l’evoluzione, impedendo il sopravvenire di svolgimenti contraddittori.

In Lavoro salariato e capitale Marx avanza però una tesi opposta, che riceve una conferma proprio dal fenomeno che Rifkin ha così ben descritto.  “Nella produzione gli esseri umani non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri.  Essi producono soltanto in quanto collaborano in un modo determinato e scambiano reciprocamente le proprie attività.  Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e la loro azione sulla natura, il loro produrre, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali”.20  Per questo Marx giunge alla conclusione che “fintanto che l’operaio salariato è operaio salariato, [e sente di non potersi riprodurre altrimenti che vendendo la sua forza lavoro,] la sua sorte dipende dal capitale”21.  E se il capitale non è in grado di trovare nuovi usi del lavoro, perché la capacità di accumulare si sta esaurendo, la merce di cui il lavoratore è proprietario, cioè la sua forza-lavoro, finisce con l’essere eccedente.  E come tutte le merci sovrabbondanti, subisce un processo di svalorizzazione.  Poiché questa svalorizzazione non è qualcosa di altro rispetto al concreto svolgimento della vita delle persone, e in essa si esprime il rattrappirsi del loro potere sociale, è da lì che si deve afferrare il bandolo della matassa.

Per sottrarsi a questo infausto esito, il lavoratore non ha cioè altra via rispetto a quella di “togliere la propria condizione di vita”, al ridurre l’incidenza del peso del lavoro salariato sulla propria esistenza e sul processo riproduttivo sociale, battendosi per una contrazione dell’offerta di lavoro al crescere della capacità produttiva.  Fintanto che la sua determinazione sociale di lavoratore salariato prevale, egli non può, però, realmente procedere in questa direzione, appunto perché il suo lavoro gli si presenta come condizione di vita sulla quale non ha alcun controllo.  L’uscita da questa trappola non può dunque intervenire senza che si espanda un’altra determinazione sociale non ancora data, attraverso la quale egli, da un lato, interiorizza i rapporti universali che ha instaurato e, dall’altro lato, individua il modo in cui sottomettere quei rapporti ad un comune controllo con gli altri con i quali interagisce, sviluppando una nuova capacità produttiva e una nuova forma di proprietà che si spingono al di là di quella conquistata col lavoro salariato.

Sembra a noi che Rifkin prospetti, invece, una sorta di via di fuga dal problema emerso.  Se non ci si fa fuorviare da alcune sue espressioni altisonanti del tipo: con la “fine del lavoro”  “saremo costretti ad affrontare la scomoda prospettiva di dover ripensare integralmente le basi stesse del contratto sociale”, si vede che ciò che lui considera come un “rivoluzionamento” costituisce in realtà la conferma di uno dei lati dell’individualità, così come già si presenta nella forma prevalente della società contemporanea.

 

Il rifugio in cui salvarsi dalla “fine del lavoro”

In che cosa consiste infatti il nuovo “contratto sociale” che, nell’idea di Rifkin, dovrebbe far fronte alla “fine del lavoro”?  In un ampliamento del cosiddetto “terzo settore”. E’ questo “settore” che dovrebbe trasformarsi “in un veicolo per la creazione di un’era di post-mercato”22. Sia ben chiaro, c’è una significativa differenza tra il lavoro salariato e l’attività produttiva svolta su una base volontaria.  Nel primo caso, il lavoratore riceve un compito, cioè pone il principio motore della propria azione fuori di sé, nel capitale o nella pubblica amministrazione.  Nel secondo caso, l’individuo si dà un compito, e cioè esprime se stesso attraverso la sua attività produttiva.  Dunque l’espansione di uno spazio nel quale i soggetti, così come sono, svolgono un’attività volontaria a favore di terzi che ne hanno bisogno, considerata in sé è cosa buona.  Ma, a nostro avviso, il problema insito nell’emergere di una difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato non ha niente a vedere con la fruizione di questo spazio.

Per comprendere questa critica bisogna innanzi tutto riconoscere che la riproduzione della società poggia sul lavoro salariato, il quale sostiene anche le altre forme di attività, che sopravvivono più o meno modificate accanto ad esso.  L’idea che queste ultime possano “sopravvivere indipendentemente da quello” è frutto di una vera e propria illusione. Per spiegarci con esempi concreti.  Se un lavoratore disoccupato aiuta la moglie nello svolgimento dei servizi domestici fa, evidentemente, una buona cosa.  Se va in parrocchia per aiutare a preparare gli addobbi di Natale o nella sede del partito per sostenere l’elezione di un candidato di cui ha fiducia, se aiuta a spalare la neve in caso di maltempo, si tratta di comportamenti positivi.  Ma il problema suo e della famiglia non viene neppure sfiorato da questo tipo di azione, perché è la disoccupazione del capofamiglia che minaccia la riproduzione stessa del nucleo familiare.   Quando dei volontari garantiscono l’assistenza di alcuni anziani bisognosi su una base volontaria, fanno evidentemente una buona cosa.  Ma il problema sta nella mancata inclusione di quei bisogni necessari nel normale processo riproduttivo garantito dal lavoro, che comporta la mancata occupazione di qualcuno, visto che una parte del lavoro necessario non viene svolta.

Se i lavoratori pensassero di risolvere il problema della “fine del lavoro” con il volontariato, non farebbero altro che ripiegarsi su se stessi.  “Con un simile movimento”, scrive Marx, “rinuncerebbero a rivoluzionare il vecchio mondo, prendendo per leva gli immensi mezzi collettivi che esso offre loro, accontentandosi di compiere la propria emancipazione in forma privata, negli stretti limiti delle loro condizioni di esistenza.”23  Il superamento del mutualismo come forma volontaristica di solidarietà tra i lavoratori, per far fronte agli infortuni, alle malattie, alla vecchiaia, ecc. dimostra proprio che, non appena si vuole affrontare una questione sociale nella sua generalità, il volontarismo non è più all’altezza del problema.  Invece di mediare lo sviluppo di un’istituzione nuova, nella quale la vita umana si possa rispecchiare nella sua concretezza, com’è avvenuto nella previdenza pubblica europea ancorata alle retribuzioni prima delle recenti controriforme, le concrete attività si disperdono in mille rivoli, finendo con l’essere travolte dalle contraddizioni sociali prevalenti.

Una conferma di questa tendenziale inconsistenza del volontariato ci viene d’altronde fornita proprio dall’impostazione idealistica che Rifkin dà allo svolgimento in questione. “La visione del terzo settore”, sottolinea, “offre l’antidoto ormai necessario al materialismo che ha così profondamente dominato il pensiero industriale del XX secolo.  Mentre il lavoro nel settore privato è motivato dal guadagno materiale, e la sicurezza è vista in termini di aumento del consumo, la partecipazione al terzo settore è motivata dallo spirito di servizio verso gli altri e la sicurezza è vista in termini di rafforzamento delle relazioni personali e di senso di appartenenza al consorzio umano”.24  Ed ancora:  “Il servizio alla collettività è un’alternativa rivoluzionaria alle forme tradizionali di lavoro:  diversamente dalla schiavitù, dal servaggio e dal lavoro salariato, non è costretto, né ridotto a una relazione fiduciaria.  E’un atto d’aiuto, un offrirsi agli altri, un gesto volontario e spesso non motivato da aspettative di guadagno, che scaturisce da una profonda comprensione dell’interconnessione tra tutte le cose e che spesso è motivato da un senso di debito nei confronti degli altri”.25  L’attività del terzo settore sarebbe cioè “rivoluzionaria” perché altruistica, a differenza di quella del salariato (privato o pubblico) che sarebbe invece egoistica.26

Che questa descrizione rappresenti coerentemente la disposizione soggettiva di molti di coloro che agiscono nel volontariato è fuori di dubbio.  Ma se si vuole affrontare il problema della “fine del lavoro” ci si deve ovviamente spingere al di là di questo livello.  Non si tratta cioè di vedere come gli individui sperimentano ciò che fanno, se proiettano, cioè, nella loro azione un valore universale, bensì di valutare se l’azione incide realmente sul problema di natura universale che ha investito il loro processo riproduttivo.  Non si tratta, in altri termini, di verificare se essi stiano godendo o meno di una libertà già data, nei ristretti limiti della forma sociale prevalente, ma se stiano producendo una  libertà nuova che, se è vera l’ipotesi della “fine del lavoro”, si impone come necessaria per tutti, abbattendo quei limiti.

 

La natura problematica della libertà possibile

Il fulcro dell’intera argomentazione di Rifkin, se si accantona la componente idealistica, sta nella convinzione che l’azione volontaristica “scaturisca da una profonda comprensione dell’interconnessione di tutte le cose”. Soffermiamoci a verificare fino a che punto questo assunto sia fondato.  E’ evidente infatti che se chi pratica il volontariato non si limitasse a proiettare un carattere universale nella particolare attività che pone in essere, e la sua azione esprimesse effettivamente una relazione universale e consapevole con l’insieme dell’organismo sociale, l’ipotesi di Rifkin dovrebbe essere senz’altro accolta.  Ma è proprio questo assunto che, a nostro avviso, sembra non trovare conferma nella realtà storica.

Da questo punto di vista Rifkin non fa infatti giustizia al rapporto di lavoro salariato, che non è così univocamente determinato come egli se lo immagina, quando lo contrappone negativamente al volontariato.  Anche se chi si riversa sul mercato del lavoro punta unicamente a soddisfare i propri scopi egoistici, la riuscita della sua azione non dipende da questa angusta motivazione personale.  Il soddisfacimento di quello scopo è infatti possibile solo se il lavoro che svolge ha la capacità di soddisfare realmente bisogni altrui.  Tant’è vero che solo a questa condizione si scambia con il rappresentate generale della ricchezza, il denaro.  Proprio perché è sottratto al potere immediato del singolo, e deve sottostare ad una convalida sociale esteriore, il lavoro salariato moderno si trova in una interconnessione con tutte le articolazioni delle riproduzione della società, anche se poggia sulla pretesa che l’interconnessione generale possa procedere fisiologicamente senza organizzazione.  In questo e nient’altro consiste ciò che noi chiamiamo “mercato”.  La produzione borghese, come precisa egregiamente Marx, “è una repulsione da se stessa della produzione limitata, in modo da creare un lavoro che ha un valore d’uso nuovo; si tratta dello sviluppo di un sistema sempre più ampio e globale di tipi di lavoro, di tipi di produzione, ai quali corrisponde un sistema sempre più ampliato e ricco di bisogni”.27  Come conseguenza, la forma della società è tale che “gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente.  Il lavoro è così divenuto … il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, come determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare”.28

E’ vero che questa universalità pratica, oggettiva, non si accompagna ancora ad un comportamento soggettivo nel quale il procedere dell’insieme della società è al centro dell’azione stessa dei singoli in forma consapevole e cooperativa.  Il limite dell’agire privato sta, cioè, nella convinzione che non ci sia alcun problema nel rapporto che intercorre tra la propria azione privata e il processo riproduttivo complessivo:  poiché il proprietario privato si è sbarazzato dei preesistenti vincoli locali e di sangue e sta in un rapporto sociale generale con gli altri, è convinto di riuscire ad agire coerentemente con la dinamica complessiva del sistema. Fintanto che il processo riproduttivo procede regolarmente, ed egli trova un acquirente, viene confermato in questa sua convinzione e può godere della sua libertà. Ma in occasione delle crisi tutto cambia. La riproduzione della sua attività produttiva gli è preclusa, o deve sottostare a condizioni che non esprimono affatto una sua libertà.

Pur muovendosi con un orientamento rovesciato, il volontario non si trova in una situazione meno unilaterale del lavoratore salariato.  Sulla base di significati ereditati dal passato, egli eroga un’attività particolare, nella quale proietta un valore immediatamente universale per come lo ha ereditato.  Può svolgerla con meno ostacoli rispetto al lavoro salariato, appunto perché non chiede nulla in contropartita.  Ma in tal modo la sua libertà si sottrae ad una convalida esteriore, cioè ad una conferma della sua rilevanza sociale.  Non a caso Rifkin affastella le attività più eterogenee - dalla cura medica ai servizi sociali, dagli ordini religiosi ai circoli femminili, dalle organizzazioni giovanili a quelle per i diritti civili, dalle associazioni per la conservazione dell’ambiente a quelle per la protezione degli animali, per l’organizzazione dei teatri, delle orchestre, delle gallerie d’arte, delle biblioteche, dei musei, della sicurezza civile, ecc.29  – sulla base della comune caratteristica che esse sono erogate gratuitamente.

Certo, se non riceve una remunerazione, il lavoratore salariato si astiene dalla produzione.  Il processo riproduttivo sociale non è dunque un suo scopo, e la soddisfazione dei bisogni altrui appare quasi esclusivamente come mezzo. Ma sarà proprio la riuscita della sua vendita che confermerà se ha realmente soddisfatto bisogni sociali.  Il volontario, soddisfacendo bisogni come un fine, si sottrae invece oggettivamente a questa verifica.  Ma egli può procedere in questo modo solo se ed in quanto non si trova nello stato di bisogno in cui si trova il lavoratore salariato.  Può cioè “dare” senza chiedere una contropartita in “avere” della ricchezza generale perché gode già di una libertà che non poggia su una conferma esteriore.  Per Rifkin è sufficiente il sussistere di questa libertà per considerare il fenomeno solo positivamente.  Ma, a nostro avviso, si eludono così due problemi. Il primo non riguarda da vicino la nostra riflessione, anche se ha una sua rilevanza.  Il volontario soddisfa bisogni altrui.  Ma in genere questi “altri” sono proprio individui che si trovano in uno stato di bisogno.  La libertà del volontario si incontra cioè con una situazione di assenza di libertà dall’altro lato. Che cosa assicura che il concreto contenuto dell’attività corrisponda effettivamente alle necessità di coloro che vengono soddisfatti?  E perché mai lo scopo dell’azione non dovrebbe essere incentrato sul superamento di questa situazione di bisogno,  sul “libero sviluppo” degli assistiti, con la conseguente scomparsa della libertà del volontario e la dissoluzione del terzo settore?  D’altra parte, la storia ci insegna che c’è una moltitudine di forze in campo nelle relazioni umane, oltre a quelle economiche, che possono avere una presa coattiva sugli individui altrettanto forte e altrettanto contraddittoria di quelle economiche.30  L’idea che il volontario sia necessariamente immune dall’influenza di queste forze costrittive è, ovviamente del tutto infondata.  Ma si tratta di un problema che qui non possiamo affrontare.

Ci preme molto di più l’altro aspetto eluso da Rifkin, quello relativo non già all’incontro tra la libertà del volontario e la libertà di chi vede soddisfare i suoi bisogni, ma se la libertà del primo sia corrispondente, o almeno vada incontro, al bisogno di libertà che si impone oggi sulla società nel suo complesso.

 

Le disastrose esperienze dei passati appelli al volontariato

Nel prospettare la sua proposta di sviluppo del terzo settore per far fronte alla “fine del lavoro”, Rifkin argomenta in modo altrettanto ricco di tutto il resto del libro.  Egli descrive con grande chiarezza le radici storiche del volontariato negli USA e le sue numerose manifestazioni attuali.  Ma non si confronta sufficientemente con le critiche che sono state avanzate alla natura di questa forma della socialità.  Ad esempio riporta in poche righe le riserve di “molti critici progressisti del volontariato”, i quali affermano che “la beneficenza è frustrante per le categorie più deboli, che si sentono oggetto di pietà  … (Mentre) I programmi statali, al contrario, partono dal presupposto che il cittadino in stato di bisogno abbia diritto al servizio, non come gesto caritatevole, ma a causa delle responsabilità dello stato di preoccuparsi del benessere generale”.31 Ciò che comporta la creazione di un lavoro, per garantire quel diritto.  Ma poi puramente e semplicemente accantona questa obiezione.

Qual è la differenza che intercorre tra il riconoscimento che la soddisfazione di un bisogno debba configurarsi come un “diritto” e l’accettazione che essa possa invece derivare da un’azione volontaria?  Nel primo caso si sperimenta la soddisfazione di quel bisogno come un qualcosa di necessario, di pertinente alla normale condizione umana degli esseri che vivono in quella fase storica.  Per questo si istituzionalizza un potere – il diritto - da parte di chi deve godere della prestazione, che è tutelato con una forza analoga a quello di un compratore privato.  Nel secondo caso un simile potere non esiste. Si presuppone che possa essere lasciata al sussistere di forze spontanee, come quella della buona volontà di alcuni individui, cioè al caso.  Col primo approccio si immagina che, senza il godimento di quel diritto non possa esserci un coerente dispiegamento della natura umana, così com’è venuta a configurarsi grazie allo sviluppo intercorso.  Col secondo approccio si auspica che quel dispiegamento intervenga sulla base di spontanei comportamenti degli individui, che appaiono non già come manifestazione della specie, ma solo dei singoli.

Con la sua negligenza nell’approfondire il senso della critica32, Rifkin lascia intravedere una sua condivisione di un limite proprio della cultura degli Stati Uniti. Come abbiamo accennato, l’evocazione della figura dello stato, come comunità dei cittadini, che in genere interviene nelle fasi nelle quali il processo riproduttivo privato si scontra con degli ostacoli, rappresenta una delle  articolazioni contraddittorie dell’individualità borghese.   Lo stato appare come un’entità sovrastante, da evocare allorché gli individui sperimentano la loro impotenza nei confronti di problemi che non sanno affrontare e risolvere al livello degli organismi nell’ambito dei quali normalmente si riproducono (corporazioni, imprese, famiglie, associazioni, ecc.).  Un’articolazione sociale dell’individualità che trova una conferma addirittura manualistica anche nell’attuale fase di crisi, quando tutti chiedono ai governi di “fare qualcosa”. Ma negli Stati Uniti questa seconda determinazione dell’individualità non è mai giunta ad un livello di maturazione.  La ragione, detta in termini banali, è che il particolare processo storico attraverso il quale quel paese si è costituito ha determinato una sorta di atrofia della componente dell’individualità che si esprime nello stato, cosicché quest’ultimo ha finito con l’essere considerato solo come un’entità intrusiva, con un’atrofizzarsi della forma soggettiva della cittadinanza.33  Per questo le varie forme di volontariato hanno assunto il rilevante peso che hanno.

Ma come sappiamo, una difficoltà strutturale di riprodurre il rapporto di lavoro si trascina ormai da quasi un secolo, e la controversia relativa alla necessità di un intervento dello stato o il dar preferenza all’azione volontaria, come riconosce lo stesso Rifkin, si è ampiamente svolto negli USA ed ha raggiunto il suo culmine proprio in occasione del disastro della Grande Crisi.  Hoover, nel 1929 si rifiutò di accettare il suggerimento del suo Ministro del Tesoro, di lasciare che la crisi seguisse il suo corso con i fallimenti delle imprese e con i licenziamenti in massa dei lavoratori.  Ma ritenne che si potesse ergere una diga contro questo esito disastroso poggiando solo “sui principi fondamentali della vita politica e sociale americana, [e cioè ] individualismo, fiducia in sé e volontariato”.34  Anche quando ci furono evidenti segni che questa strategia non dava alcun frutto positivo e l’evoluzione diventava  sempre più disastrosa, si ostinò a seguire questa via, facendo precipitare il paese in una situazione di estrema povertà. Ci volle l’avvento di Roosvelt, tre anni più tardi, per avere un’inversione di tendenza con l’impegno massiccio dello stato nell’economia. Ma quando, nel 1937, lo stesso Roosevelt, per rispondere alle critiche dei conservatori, fece di nuovo affidamento sui principi fondamentali della vita sociale e politica americana, le cose tornarono a precipitare, col 17% degli americani che si trovarono di nuovo senza lavoro.  Come aveva previsto Keynes l’anno prima nella Teoria generale, ci “volle la guerra” – un evento che doveva essere imperativamente gestito dallo stato - per riconquistare una situazione  nella quale la società riuscisse a trovare nuovi usi per il lavoro reso superfluo, migliorando paradossalmente le proprie condizioni di vita nel mentre una parte crescente della ricchezza prodotta veniva ingoiata nel conflitto mondiale.35

 

L’incerta configurazione delle pratiche di volontariato

Si fa presto a chiamare in causa la volontà come deus ex machina in grado di far fronte ai fenomeni contraddittori che ostacolano la riproduzione umana.  Ma la volontà non si manifesta in un vuoto.  Essa è sempre l’espressione di una soggettività e corrisponde a una sensibilità, che prende corpo in un insieme di condizioni che ne determinano il contenuto e la forma. Ad ogni grado dello sviluppo storico “si trova infatti un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui tra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente”.  Questo insieme di forze “può senza dubbio essere modificato dalla nuova generazione, ma impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere”. Ciò comporta che “le circostanze fanno gli uomini”, delimitando i modi in cui la volontà può procedere efficacemente, “non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”. Se non tiene conto di tutto ciò, la volontà si presenta soltanto come una forza istintiva, che estrinseca la propria energia sulla base della pretesa che gli ostacoli non ci siano, salvo poi restare invischiata proprio nei problemi dei quali non riesce a comprendere la natura.  Che il normale procedere degli esseri umani incorra spesso di questa contraddizione è dimostrato dalla ricorrente recriminazione di Marx che, nelle lotte sociali della sua epoca, “c’era la volontà, ma mancava la capacità”.36

Per non restare bloccati, nel momento in cui sopravviene la “fine del lavoro”, non basta dunque che la volontà esprima “la bontà del cuore e il senso di appartenenza ad una comunità”37.  Questa intenzione non è sufficiente, cosicché o l’azione scaturisce da un orientamento che, nella sua concretezza, è coerente con il contesto al quale si riferisce, o è destinato a rovesciarsi in impotenza.  Un rischio che ci sembra investa le proposte di Rifkin.

Che cosa dovrebbero fare i volontari, secondo lui?  L’abbiamo visto dovrebbero “indirizzare l’attività verso funzioni produttive al di fuori dei settori privato e pubblico”.  Ma per avere qualche speranza di riuscire, il soggetto depositario della volontà non dovrebbe dimenticare che l’attività di soddisfazione dei bisogni si deve estrinsecare su un oggetto – la natura più o meno trasformata dalla mano dell’uomo – e deve operare con dei mezzi, che sono il risultato del lavoro pregresso.  Il problema che ci si trova di fronte è, dunque, quello di come consentire ai volontari di appropriarsi quell’oggetto e quei mezzi, cioè di produrre sulla base delle forze produttive che le generazioni precedenti hanno creato.

Esaminiamo i diversi aspetti della questione separatamente.  Innanzi tutto i volontari debbono vivere. I primi mezzi da acquisire sono dunque quelli della loro stessa sussistenza.  La loro volontà non potrebbe infatti prender corpo in alcun modo, se essi non si riproducessero.  Come pensa Rifkin che questo problema possa essere affrontato e risolto?  Rimescolando confusamente le carte della sua teoria.  Rinunciando cioè a condurre la riflessione con la necessaria coerenza analitica e rifugiandosi in un ossimoro come il “salario sociale”, e in un’altra categoria stramba come il “salario fantasma”.

Ci troviamo infatti di fronte ad un salario che, in entrambi i casi,  non dovrebbe avere le caratteristiche del salario.  Il termine viene cioè utilizzato come generico sinonimo di “somma di denaro”.  Ma è evidente che, se si trattasse realmente di quella figura del potere sociale, cioè di un salario, l’intera teoria della “fine del lavoro” si troverebbe ad essere contraddetta per definizione.  Che cos’è infatti il salario?  E’ la somma di denaro che il cosiddetto “datore di lavoro” paga al lavoratore, in cambio di un determinato tempo di lavoro o di una determinata prestazione lavorativa.  Se chi produce riceve un salario è, dunque, inevitabilmente anche un lavoratore, e la sua stessa attività produttiva confuta logicamente l’ipotesi che quel rapporto non sia riproducibile.  Che cosa può allora essere il “salario sociale” che dovrebbe ricevere il volontario38?  Si tratta evidentemente di un rapporto nel quale il passaggio di denaro dovrebbe basarsi su principi che risultano estranei al rapporto di scambio vero e proprio, cioè alla logica economica.  Ma c’è una bella differenza tra il buttar lì intuitivamente un’idea, senza averla verificata, e l’esporla affrontando le regole che possono renderla sostenibile. Ora, un tentativo di rispettare queste regole fa capolino nelle argomentazioni di Rifkin, ma non sembra affatto sostenere efficacemente la sua tesi.   In un luogo leggiamo:  “La corresponsione di un salario sociale e il pagamento dei programmi di rieducazione e formazione necessari per preparare uomini e donne a una carriera lavorativa nei servizi sociali richiederebbe fondi pubblici in misura consistente.  Una parte di questi potrebbero provenire dai risparmi ottenibili sostituendo gradualmente la burocrazia dello stato sociale con i pagamenti diretti individuali alle persone attive nei servizi sociali”39.  Una strategia che a noi sembra comportare solo la sostituzione di un lavoro salariato con un altro, non la sua scomparsa.  In un altro passaggio si legge: “La corresponsione di un salario sociale [dovrebbe intervenire] in alternativa alle sovvenzioni assistenziali e ai benefici sociali per chi, essendo permanentemente disoccupato, accetta di essere riaddestrato e impiegato  in attività del terzo settore”.40  E infine:  “i riformatori di oggi tendono ad agganciare il diritto alla garanzia di reddito alla disponibilità del disoccupato a prestare la propria opera in attività di volontariato nel terzo settore.  Per questa via si fa strada la nozione di un salario sociale per retribuire un lavoro effettivo svolto in tale ambito.”41

Ma questo genere di argomentazioni non è affatto nuovo.  Ripetute perorazioni  a favore dell’erogazione di un salario in cambio di un impiego, per mettere il disoccupato in condizione di produrre, contro la pura e semplice erogazione di sussidi di disoccupazione, ha costituito il cavallo di battaglia di Keynes per una decina di anni.  Egli infatti sostenne che la pubblica amministrazione dovesse spendere non già, come aveva fatto fino ad allora, per erogare miserevoli “sussidi”, bensì per migliorare l’educazione e le scuole, per assistere i malati, per garantire condizioni abitative migliori, per recuperare l’ambiente degradato, per lo sviluppo dell’arte, per la formazione di chi ha perso il lavoro, ecc.  Questa spesa non doveva affatto servire a far crescere “l’intrapresa economica dello stato”, bensì “allo sviluppo del paese attraverso la strumentazione di forme di organizzazione che già esistevano e che erano a portata di mano”.42   Dov’è dunque la novità? Non ci troviamo di fronte alla pura e semplice riproposizione del keynesismo, così come esso fu concepito per garantire una riproduzione del lavoro?  Ma se il keynesismo classico fosse ancora perseguibile non ci troveremmo, come a noi sembra, con una confutazione pratica della teoria della “fine del lavoro”?

Si noti il punto:  lo stato “mette i soldi” del salario sociale, lo stato fa “riaddestrare” i lavoratori disoccupati con processi di formazione, lo stato li “impiega”, cioè indica loro il settore e il modo in cui produrre. Ci troviamo dunque di fronte ad un processo che è l’esatto opposto dell’erogazione di un’attività che  promana spontaneamente dal soggetto.  Se il quadro è questo, nel “volontario” di Rifkin non c’è traccia di una forma della volontà realmente diversa da quella che si trova in qualsiasi salariato, nel quale si manifesta talvolta un elevato grado di autonomia, talaltra un’elevata dipendenza.  Il tutto si risolve dunque in una promozione nominale sul campo da “lavoratore” a “operatore del terzo settore”.  D’altra parte,  come avviene per il salariato, il motore della produzione evocata da Rifkin è lo stato di bisogno, il presupposto sta in una decisione altrui e, infine, lo stesso mezzo si rende disponibile attraverso un potere altrui, cioè denaro erogato.   Quando Rifkin sostiene che, se si offre un “salario sociale a milioni (!) di americani in stato di bisogno e si aiutano le organizzazioni volontaristiche locali con finanziamenti finalizzati al reclutamento, all’addestramento e all’impiego di questi individui in compiti rilevanti per il rafforzamento della comunità e il raggiungimento di obiettivi sociali di più ampio respiro”, non si accorge che sta indicando solo l’obiettivo sul quale dovrebbe concentrarsi l’intervento; che rimane vago, proprio perché definito astrattamente come un luogo “terzo”. Ma la mediazione sociale attraverso la quale quell’obiettivo dovrebbe essere perseguito, secondo le sue indicazioni, non è affatto diversa da quella su cui si fonda lo Stato sociale keynesiano e perfino il lavoro privato.  Il nome è diverso, ma la cosa non cambia.  E infatti, nel pieno della crisi, in Europa c’è un’infinità di esempi di attività keynesiane che, pur perseguendo proprio gli scopi indicati da Rifkin, procedono sulla base del presupposto che quello che si sta creando sia un lavoro, e dunque che non stia affatto sopravvenendo una “fine del lavoro”.  Ciò che spiega anche la posizione di quegli avversari dell’ipotesi della “fine del lavoro, con i quali ci siamo criticamente confrontati all’inizio del nostro percorso.

 

Perché la prospettiva dello sviluppo di un terzo settore è inconsistente

Qui occorre fare la massima attenzione. La costruzione di Rifkin poggia su un evidente presupposto, anche se non viene mai esplicitato.  Secondo lui, da un lato ci sarebbe il mercato, dall’altro lato ci sarebbe lo stato, e in mezzo si troverebbero gli individui, con un loro spazio produttivo indipendente dai due.  Tutto ciò poggia su un’evidente ipostatizzazione, grazie alla quale delle categorie che descrivono rapporti degli individui, vengono trasformate in vere e proprie entità dotate di un’esistenza autonoma rispetto a quegli stessi rapporti che, nella realtà, le sostanziano.  Le forze produttive e le relazioni sociali, che costituiscono “lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale, vengono così concepite solo come mezzi”43, cioè come puri oggetti che gli individui potrebbero far proprie o accantonare a piacimento.

Nella pratica sociale ci sono in realtà degli individui che, da un lato, comperano e vendono merci o servizi, agendo come proprietari privati dando così corpo a ciò che chiamiamo mercato  e, dall’altro, quegli stessi individui rivendicano per sé, o soddisfano per altri, dei diritti, agendo come cittadini.  E’ vero che, poiché entrambe queste determinazioni sociali vengono concepite come esteriori rispetto a quegli individui, essi si sperimentano prevalentemente come “persone” al di fuori delle loro stesse manifestazioni produttive.  Ma la riflessione scientifica non può far affidamento sul modo di ragionare del senso comune.  Come abbiamo visto affrontando il rifiuto dei salariati di percepire se stessi come una merce, il considerare il mercato come un’entità meramente esteriore costituisce un’evidente distorsione.  Togliete ad un individuo moderno la capacità di vendere la sua forza-lavoro ed egli perderà ben presto la casa, non potrà più dormire nel suo letto, non potrà più sedersi al suo desco, non potrà più cominciare la giornata scoprendo dalla TV quello che accade nel mondo, non potrà più lavarsi comodamente, non potrà più ripararsi dal freddo e dal caldo …, come quella moltitudine di reietti che si sta raccogliendo negli spazi abbandonati delle città americane ed europee, in un’assurda ripetizione di quello che accadde all’indomani del 1929.  Senza potere di scambio un uomo non può oggi essere un uomo, visto che la sua “umanità” si concretizza in buona parte attraverso i suoi acquisti e le sue vendite.  Considerazioni che valgono anche per la natura dello stato.  Per Rifkin lo stato è, evidentemente, l’amministrazione centrale, il governo e i suoi uffici e, forse, anche il parlamento, la polizia e l’esercito.  Non vede che lo stato è in realtà quella complessa articolazione di istituzioni, strutture, organismi, apparati, formatisi in un lungo processo sulla spinta dei cittadini, e che operano a tutti i livelli, per imprimere un andamento coerente ai crescenti nessi che gli individui stabiliscono nel loro procedere privato.  Lo stato è cioè la rozza forma attraverso la quale i cittadini riconoscono indirettamente – cioè forzandola su se stessi – la loro stessa comunità, e si impongono nella prassi quello che sembra essere l’ordine necessario corrispondente.  Un banale semaforo è un perfetto emblema di ciò che, nella vita di milioni di persone che guidano e dei pedoni che li incrociano, costituisce “lo stato”.  Così come è facile riconoscere “lo stato”, per chi non ignora la storia delle misurazioni e degli standard44, anche nell’insignificante contatore elettrico del nostro  appartamento o nella bilancia con la quale il droghiere ci pesa i nostri acquisti.  Lo stato è rilevante perfino nel semplice calcolo della nostra età, visto che coloro che sono nati prima dell’istituzione dell’anagrafe spesso non sanno nemmeno quanti anni hanno.  Senza dimenticare che coloro che sono nati prima dell’istruzione generalizzata non sapevano nemmeno usare il sistema numerico decimale.

Rifkin ha tentato, del tutto comprensibilmente, di non restare intrappolato nella diatriba ideologica che ha dominato tutto il Novecento, se la soluzione del problema del mancato sviluppo andasse riconsegnata al soggetto privato, completamente libero di accrescere la propria ricchezza agendo in forma concorrenziale, o dovessero rinviare all’intervento pubblico, almeno sulle molte questioni nelle quali il coordinamento spontaneo del mercato aveva evidentemente fallito.  Ma invece di uscirne con una soluzione, si è limitato a scapparne con un’elusione o, se si preferisce, con un’illusione, quella del “terzo settore”.

Sia ben chiaro, noi condividiamo fino in fondo l’affermazione di Marx, che sia “volgare spregiare una cosa buona perché è solo un bene limitato invece che tutto il bene in una volta”45,  e dunque consideriamo il volontariato come una pratica che, sulla base sociale esistente, è positiva. Ma crediamo anche che la crisi che stiamo attraversando non conceda più lo stesso spazio di libertà che la crisi dello Stato sociale, iniziata sul finire degli anni Settanta, ancora concedeva.  Il processo distruttivo, che ha preso corpo all’inizio del nuovo secolo sta subendo un’accelerazione e impone tempi e modi, cioè un ordine gerarchico, nell’estrinsecazione delle azioni necessarie.  Andare a pregare là dove c’è una casa che brucia, ad esempio, può essere consolatorio per chi ci crede, ma è altamente offensivo per chi sa, oggi, che non esiste alcun nesso tra la preghiera e l’estinzione dell’incendio.   E dunque non sa che farsene di quella preghiera.  Per questo riteniamo che non sia vero che esiste un’alternativa già data, sulla quale si possa far leva, non tanto per consolare gli individui, ma per affrontare il problema della mancata riproducibilità del lavoro salariato. Per essere espliciti, proprio perché il volontariato conferma, in qualche modo, gli esseri umani nell’individualità di cui sono depositari, consente loro di sottrarsi al problema del rivoluzionamento necessario per far fronte alla contraddizione della disoccupazione e della precarietà di massa che fa soffrire un numero crescente di loro.

 

Uno spazio che è già stato esplorato

La differenza tra Keynes e Rifkin sta nel fatto che il primo esplora lo spazio che si apre al sopravvenire della “fine del lavoro” non idealisticamente, mentre il secondo, non segue il suggerimento di Bacone del Novum Organum e lascia che “il suo ingegno sia trasportato dal suo stesso movimento”.  Il primo accetta di gravare il suo pensiero “del piombo e del peso” che la dinamica sociale impone alla sua analisi, il secondo si affanna invece a dare “al suo pensiero penne e ali”, in modo da potersi librare senza forze contrastanti.  Vediamo di che cosa si tratta.

In molti hanno esaminato e hanno discusso della strategia keynesiana, secondo la quale, al sopravvenire di una disoccupazione strutturale, si sarebbe dovuto mettere in moto il lavoro a tutti i costi, impiegando salariati anche in attività inutili, come lo scavar buche e il riempirle.  In un primo momento, il significato di questa proposta, apparentemente paradossale, è stato accettato sul terreno economico, riconoscendo, seppur controvoglia, che quel lavoro inutile innescava il moltiplicatore, e quindi determinava un effetto positivo multiplo sul processo produttivo e sul reddito.  Ma il significato della strategia keynesiana trascendeva ampiamente quel limite, e investiva proprio alcune delle questioni che Rifkin elude.

Perché mai non dovrebbe essere possibile usare quel tempo che viene impiegato in un lavoro inutile in modo meno irrazionale?  Innanzi tutto perché il processo riproduttivo sociale si basa sul lavoro salariato.  Per questo si debbono inventare continuamente compiti aggiuntivi per chi non sa far altro che cercare un lavoro.  E lo si deve fare ad un tasso che compensi la celerità con la quale l’innovazione tecnica fa scomparire i vecchi compiti.  Rifkin muove dal riconoscimento della centralità di questo problema. Ma pensa che la crescita di quello che egli chiama “il terzo settore”, basato sul volontariato, permetta di non restare costretti nella “gabbia” descritta da Keynes.

Quando Keynes prospetta la necessità di lavori inutili, lo fa però perché è convinto che, sulla base dello sviluppo culturale intervenuto, non ci sia la possibilità di “fare46 immediatamente qualcosa di meglio”47.  Una convinzione il cui senso viene ampiamente esplicitato in Prospettive economiche per i nostri nipoti e che può essere riassunta nei seguenti termini.  Nonostante la società, attraverso lo sviluppo dei rapporti capitalistici, si sia spinta così avanti, da essere entrata in un’era di (relativa) abbondanza, gli individui procedono ancora inerzialmente sulla base delle capacità sociali ereditate da ere di penuria; cosicché non hanno ancora sviluppato le facoltà che consentirebbero loro di agire, sul piano produttivo, in modo coerente con la ricchezza acquisita.  Ciò che corrisponde all’incapacità di produrre per gli altri, e di chiedere agli altri di produrre per sé, anche quando si è liberi dal bisogno immediato.  In Rifkin, come abbiamo appena visto, questo problema sostanzialmente scompare, nel senso che viene puramente e semplicemente ignorato  Ma la sua visione ottimistica è determinata, come abbiamo appena rilevato, da una rappresentazione contraddittoria dei processi che dovrebbero favorire l’emergere dell’attività di volontariato, e dall’altro lato dalla negazione a priori della tesi fondamentale di Keynes, relativa ai limiti della cultura dei produttori che ha sin qui prevalso.

Per Rifkin ci troveremmo, pertanto, in una fase nella quale i rapporti capitalistici avrebbero non solo “creato gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni nel consumo”48, ma avrebbero creato anche le condizioni affinché “il lavoro di questa individualità non si presenti più come lavoro, ma come sviluppo integrale dell’attività stessa, nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata sarebbe scomparsa.”49   Ma a confutare questa tesi sta un fatto inoppugnabile:  l’ipotesi di Keynes, relativa alla distanza che avrebbe separato il mondo di noi suoi nipoti dal suo, in termini di ricchezza materiale, si è più che verificata.  Ma il mondo non si è affatto dimostrato pronto a convenire sulla crescente difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato, e tanto meno sta ragionando sulla necessità di forme superiori della produzione.  Tant’è vero che il testo di Rifkin, e i molti altri che hanno preso spunto dalla “fine del lavoro” non hanno affatto generato un dibattito culturale in grado di incidere sulle grandi scelte dei paesi sviluppati.  L’Unione Europea, che pure ha nominato Rifkin suo “consulente”, ha addirittura approvato dei provvedimenti che consentono, nei paesi membri, un significativo allungamento del tempo individuale di lavoro.  I due paesi che avevano fatto dei timidi passi avanti, la Francia e la Germania, hanno ben presto rimesso in discussione le scelte passate.   E tutti i governi, assolutamente tutti, hanno stabilito un drastico prolungamento della vita lavorativa, ritardando l’età di pensionamento.

Sebbene il peso relativo delle attività dirette a soddisfare i bisogni della riproduzione materiale delle società avanzate, l’agricoltura e l’industria, sia drasticamente diminuito fino a coinvolgere ormai solo tra un quarto e un quinto della forza lavoro complessiva, tutto il lavoro risparmiato è stato nuovamente impiegato in forma salariata, nonostante l’evidente contraddittorietà della natura salariata dell’attività là dove si tratta di servizi.50  Il mondo è diventato una gigantesca Las Vegas, un immenso Luna Park,51 e fino ad ora sta completamente ignorando il problema riproduttivo che lo sta investendo.

 

Il passaggio che manca

In Rifkin la “fine del lavoro” viene ricorrentemente dipinta in termini drammatici, come una questione epocale.  Scrive ad esempio che “la nuova composizione della società [dovrà essere tanto] diversa da quella che caratterizza l’era del mercato, quanto quest’ultima è diversa da quella del sistema feudale”52, prospettando la necessità di un radicale mutamento della stessa struttura della socialità.  Ma altrettanto spesso il problema viene affrontato come se, in realtà, non costituisse affatto una questione di quella portata. “La globalizzazione del settore privato e la diminuzione dell’importanza di quello pubblico”, scrive in un altro luogo, “significheranno che la gente sarà costretta ad organizzarsi in comunità di interesse per garantirsi un futuro.  Il successo della transizione verso l’era post-mercato dipenderà in larga misura dalla capacità di un elettorato nuovamente attivo, che agisce attraverso coalizioni e movimenti, di trasferire efficacemente quanta più parte possibile dei guadagni di produttività dal settore privato al terzo settore, in modo da rafforzare e approfondire i legami sociali e le infrastrutture locali”.53  Com’è noto, e com’è dato leggere in molti altri passaggi del testo di Rifkin, la gente si organizza però già oggi in “gruppi di interesse” e in forma volontaria.  Ci sono infatti associazioni di inquilini, di piccoli proprietari, di consumatori, di ambientalisti, di tutela degli animali, e un numero infinito di associazioni culturali, per non parlare delle innumerevoli associazioni che si costituiscono all’emergere di questo o di quel problema che va di moda.  Se questi organismi fossero effettivamente in grado di metabolizzare il problema della “fine del lavoro”, ampliando la loro influenza, è del tutto evidente che non ci sarebbe alcun bisogno di ricorrere ad una “nuova composizione della società”.54  L’istanza culturale e politica connessa a questa prospettiva avrebbe infatti già sue manifestazioni socialmente valide o almeno emergenti.

Il continuo oscillare di Rifkin tra la prospettiva di una dinamica già in atto e l’ipotesi di una realtà inesistente da produrre, senza coerenti mediazioni, deriva, probabilmente, dal desiderio di dare concretezza alla propria analisi e alla strategia proposta; cosicché mentre il lato confermatorio del dato prevale, quello relativo al rivolgimento epocale necessario viene invece evocato solo come elemento di sfondo.  C’è, evidentemente, un’incapacità di riferirsi a qualcosa che non sia immediatamente a portata di mano, per pensare il cambiamento.  In questo modo viene però a mancare proprio l’individuazione della componente energetica, senza la quale è impossibile affrontare adeguatamente il problema.  Se tutti coloro che si cimentano in un salto mortale volessero sapere prima com’è, nessuno potrebbe mai compierlo.  Le anticipazioni, i suggerimenti, necessari nella fase preparatoria, non garantiranno mai da soli la riuscita.  Questa scaturirà eventualmente solo dallo sviluppo della sensibilità che guida l’acrobata mentre procede al tentativo, e gli consente di acquisire un controllo sulle forze che  estrinseca.

Proprio perché le cose stanno in questi termini, Rifkin ha ragione nel percepire che i presupposti positivi per procedere già coerentemente sul piano generale a far fronte al problema della riproducibilità del lavoro salariato non sono stati ancora sufficientemente elaborati.  Ma nei periodi di transizione è sempre così.  In genere l’esistenza di quelle conoscenze e di quelle possibilità viene riconosciuta solo a posteriori, cioè solo quando il rovesciamento della base sociale, che è intervenuto, consente di individuare gli invisibili fili che collegano tra loro degli svolgimenti del sapere e della prassi che prima apparivano del tutto sconnessi e impraticabili, ma che dopo entreranno  nell’amalgama che ha contribuito alla formazione del nuovo mondo.

Pertanto, se la questione della “fine del lavoro” è realmente una questione epocale, non si può  rinunciare ad individuare il nucleo attorno al quale i diversi aspetti del problema gravitano, un po’ come fece Sieyés, quando compose Che cos’è il terzo stato?, immediatamente prima della Rivoluzione Francese.  Analizzando la condizione sociale nella quale si trovava la borghesia, si chiese:  “Che cos’è il terzo stato?”, e rispose “Tutto”.  Per aggiungere subito dopo:  “Che cos’è stato fino ad ora nell’ordinamento politico?” e rimarcare, “Nulla”.  In questa opposizione era chiaramente contenuto l’elemento dinamico, che poi sarebbe esploso con la rivoluzione e con l’emancipazione della borghesia.  La vita materiale di fine Settecento in Francia poggiava infatti sempre più sulla capacità produttiva della borghesia, ma nei rapporti sociali prevalenti non si era affatto sviluppato un potere corrispondente di quella classe sociale.  Per questo la borghesia poteva rivendicare coerentemente di voler “divenire qualcosa”, cioè di veder riconosciuto un potere corrispondente alla situazione reale.

E’ oggi sopravvenuta una situazione contraddittoria, come quella rappresentata così efficacemente da Sieyés nel 1788?  Se sì, ha ragione il Rifkin che sostiene che siamo alla vigilia di un rivolgimento epocale; se no, ha invece ragione l’altro Rifkin, che prospetta il cambiamento solo come questione di “scelta”, e dunque come un mutamento che può far leva sulla crescita del “terzo settore”, senza dover tentare un qualsiasi salto mortale.  Vediamo.

Che con l’esplodere del problema della riproducibilità del lavoro salariato quest’ultimo stia diventando “niente”, cioè veda sempre più ridimensionato il proprio potere contrattuale e politico, è di per sé evidente.55  Tant’è vero che Rifkin recita un vero e proprio “requiem” per la classe lavoratrice.56  Ma questa determinazione sociale negativa esaurisce realmente il significato della dinamica in corso?  Per chi sa cogliere la complessità dei processi sociali, la risposta è no.  Perché mai il lavoro tende a diventare sempre meno necessario e a contrarsi?  La risposta è semplice.  Perché il lavoro stesso è via via diventato sempre più produttivo, cioè ne basta sempre meno per creare una ricchezza sempre maggiore. Ed è diventato più produttivo perché, da un lato, utilizza i risultati del lavoro delle generazioni precedenti – cioè i mezzi di produzione che esse hanno creato – e, dall’altro, opera con le conoscenze che quelle generazioni hanno acquisito col loro lavoro.  Dunque se è vero che il lavoro sta diventando “niente”, è però altrettanto vero che questo passaggio è intervenuto su una base nella quale il lavoro era ed è ancora “tutto”.  Non a caso nei paesi sviluppati perfino la famiglia sta completamente perdendo qualsiasi funzione produttiva e la riproduzione individuale viene sempre più garantita dal lavoro salariato.

Per tornare alla metafora del salto mortale, il lavoro, che ha acquisito una capacità di accrescere il proprio potenziale produttivo, ha costituito il fattore di spinta, mentre, ora che la spinta è intervenuta, viene chiamata in causa la capacità di operare la capriola, cioè di imparare a muoversi senza la forza di gravità del capitale e senza il sostegno dello stato, nonostante entrambi siano alla base della creazione di quel potenziale produttivo.

Rifkin sottolinea il grande ruolo svolto dall’aumento della produttività del lavoro, ma stenta a porre in relazione questa determinazione con l’altra, polarmente opposta, che minando alla base il lavoro come forza produttiva del futuro, impone l’elaborazione di una capacità produttiva che vada al di là del lavoro salariato.  In tal modo egli continua a trattare la contrazione del lavoro come un evento esteriore, al quale bisognerebbe porre rimedio, senza salti mortali, con un espediente altrettanto esteriore come la crescita del “terzo settore”.   Un’ipotesi che poggia necessariamente sulla convinzione che l’individuo sia già più del mercato e dello stato.

Occorre essere consapevoli delle ragioni che, in questa lunga fase storica nella quale è sopravvenuta la crisi del keynesismo, hanno impedito di cogliere la seconda determinazione del lavoro, sulla quale Keynes si ostinava a richiamare l’attenzione proprio per educare la società ad affrontare il proprio futuro.  Come abbiamo visto, gli individui sono rimasti impigliati nei loro rapporti sociali,   risultando del tutto incapaci di instaurare una relazione problematica con il loro stesso modo di essere. Essi hanno agito sulla base del presupposto che la continua crescita del lavoro e l’aumento della sua produttività costituissero univocamente la via per lo sviluppo e l’arricchimento, rimuovendo l’eventualità che ciò potesse comportare, ad un certo punto, un vero e proprio balzo verso una condizione prima sconosciuta.  Col procedere stanno però scoprendo che più si va avanti su questa strada più essi si impoveriscono e si avviluppano.  Come sostiene giustamente Rifkin, se la tendenza attuale continuerà a prevalere, i lavoratori si troveranno ben presto a vivere nelle stesse condizioni di povertà del passato.

Se, nel 1789, Sieyés e gli altri che si riunirono alla Pallacorda, non avessero questionato l’intera struttura dei rapporti sociali, e si fossero accontentati degli accomodamenti che venivano loro proposti dagli ordini privilegiati, il mondo non sarebbe affatto cambiato e il feudalesimo non sarebbe stato superato.  I loro avversari, l’aristocrazia e il clero, contrastavano infatti l’idea stessa “di appartenere ad una medesima specie” degli ordini subordinati.57  Ma poiché per i borghesi il legame sociale adeguato alle relazioni umane era la compravendita, nella quale la manifestazione di  qualsiasi differenza personale è preclusa, non potevano non battersi per l’abolizione degli ordini e dei privilegi. La borghesia poté dunque conquistare il potere cui aspirava solo operando un salto mortale nella situazione umana – quello teso a instaurare un’assoluta novità della storia, come l’eguaglianza di tutti gli individui – e facendosi guidare da esso nella difficile e contrastata costruzione di una società completamente diversa da quella preesistente, con individui che impareranno a praticare relazioni ben diverse da quelle che avevano prevalso fino a quel momento.58

In altri termini, quando compare una contraddizione che investe la società nella sua interezza, perché scaturisce dal modo di produrre che dà l’impronta a quella società, il potere che consente di affrontarla e di superarla non è mai solo una questione di contenuto, ma anche di forma. Non si tratta di agire “contro alcune particolari condizioni della società esistente, ma contro la stessa ‘produzione della vita’ così com’è”.59 Per lungo tempo prima della rivoluzione, com’è noto, la borghesia ha fatto ciò che il lavoro salariato fa oggi, e cioè ha cercato di emanciparsi sulla base dei rapporti sociali esistenti, cercando di godere dei privilegi della nobiltà.  Ma, col procedere del tempo, i miseri risultati ottenuti l’hanno  portata a riconoscere che questo comportamento sfociava solo nel continuo riemergere della propria impotenza.

Da quando, con la crisi delle politiche keynesiane del pieno impiego, si è presentato nuovamente, dalla fine degli anni Settanta, il problema della riproducibilità o meno del rapporto di lavoro salariato, la classe lavoratrice ha accolto – perché convinta o costretta – l’idea che potesse esistere una soluzione sul terreno delle “riforme” dei rapporti prevalenti.  Poiché queste “riforme” sono andate nella direzione opposta rispetto al necessario, da esse è scaturito un progressivo svuotamento e impoverimento dei lavoratori.  Rifkin, pur avendo affrontato il problema in maniera chiara e quando questo processo di negazione si era ormai spinto molto avanti, ha preteso di poter ancora prospettare un cambiamento evirandolo della sua intrinseca radicalità.  Per questo le sue giuste intuizioni e il suo prezioso lavoro di ricostruzione storica hanno finito con l’essere inghiottiti dall’ideologia di un inconsistente riformismo60.


Note
1 Senza mai diventare una vera e propria scuola di pensiero.
2. Lo stesso Rifkin, che ha costruito buona parte della sua fortuna su questa teoria, ha poi dovuto riciclarsi con tutta una serie di ricerche nella quali l’argomento non costituiva più il fulcro della sua analisi.
3. E’ evidente che il “criterio di non-mercato” non può costituire un positivo reale, ma solo una negazione, e dunque non corrisponde a nulla di concreto.
4. Jeremy Rifkin, op. cit., p. 375.  (Corsivi nostri)
5. Vedi sopra.
6. Che sono notoriamente delle “organizzazioni” dei lavoratori, e che ad inizio Novecento erano addirittura vietati per legge.
7. Ma bisogna anche ricordare gli angusti limiti entro i quali quella vita si svolgeva.
8. L’ammortizzatore, com’è noto, non elimina le cause dell’urto, fa solo in modo che i suoi effetti possano essere assorbiti più facilmente.
9.  Dove, se non sul mercato non istituzionale del lavoro?  Con la conseguenza che, in questo caso, non si potrebbe affatto registrare una “fine del lavoro”.
10. Il fatto che sia lo stato dei neoliberisti a “stringere i cordoni  della borsa”, comportandosi in modo economicamente contraddittorio, non viene qui riconosciuto.  Lo stato ridurrebbe la spesa per un principio immanente. Un passaggio che comporta implicitamente il rifiuto della tesi keynesiana della necessità del deficit pubblico, e l’adesione, da parte di Rifkin, alle posizioni degli economisti antikeynesiani.
11. Ibidem, pp. 379-381.
12. La distanza che ci separa da quella situazione può essere facilmente compresa ad una qualsiasi riunione di condominio,  dove non c’è normalmente traccia di una qualsiasi comunità.
13. Ibidem, p. 381.  Da questo punto di vista l’argomentazione di Rifkin si svolge in modo contraddittorio perché, da un lato, richiama il nesso stringente tra individualità e lavoro (vedi p. 317), ma dall’altro concepisce l’individualità come se già fosse molto di più rispetto al lavoro, con la conseguenza di trattarla come se, invece di essere subordinata all’erogazione del lavoro, la sovrastasse.
14. Ibidem, p. 385.
15. Ibidem, p. 381.
16.Karl Marx, Lineamenti fondamentali … cit., vol.
17. Non è affatto vero che sia sempre stato così.  Solo in taluni frangenti la forza lavoro è riuscita ad appropriarsi di una quota degli aumenti di produttività, con una riduzione del tempo di lavoro o con un aumento del salario.  La “costanza” è solo un’illusione ottica di chi vede le cose a posteriori.  Se da qui a dieci anni riusciremo a ridurre la giornata lavorativa normale significativamente, qualche postero scriverà che ci si trova di fronte ad una “costante diminuzione”.  Ma chi vive oggi sa che non è così.
18.  Rifkin, op. cit. p. 355.
19. La mancata riduzione dell’offerta di lavoro non solo fa impoverire i lavoratori, ma determina anche un ristagno economico.
20.  Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 47.
21.  Ibidem, p. 52.
22.  Rifkin, op. cit. p. 381.
23.  Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi  Bonaparte,  Feltrinelli, Milano 1970, p. 19.
24.  Rifkin, op. cit., p. 391.
25.  Ibidem, p. 385.
26.  Nell’insieme ci sembra che l’appello al volontariato di Rifkin sia molto meno consistente del volontarismo di cui si fece paladino Amintore Fanfani negli anni Cinquanta in Italia.
27.  Karl Marx, Lineamenti fondamentali …, cit. vol. II, p. 11.
28.  Ibidem, vol. I, p. 32.
29.  Rifkin, op. cit., p. 384.
30.  Ci riferiamo a tutti quei comportamenti noti in psicoanalisi come dinamiche coattive.
31.  Ibidem, p. 402.
32.  Delle 460 pagine del testo ha dedicato all’argomento solo 10 righe.
33.  Che non ha nulla a vedere con il patriottismo, di cui gli statunitensi fanno invece ampio sfoggio.
34.  Michael E. Parrish, L’età dell’ansia.  Gli Stati Uniti dal 1920 al 1941.  Il Mulino, Bologna 1995, p. 278.
35.  “Quando c’è una disoccupazione non volontaria, la disutilità marginale del lavoro è necessariamente inferiore all’utilità marginale del prodotto.  Infatti può essere molto inferiore, perché per un uomo che è stato a lungo disoccupato il lavoro può comportare un’utilità positiva, invece di rappresentare una disutilità.  Da ciò consegue che eventuali spese inutili a debito possono, in fondo, arricchire comunque la società.  La costruzione di piramidi, i terremoti, perfino le guerre possono servire ad accrescere la ricchezza se la cultura dei nostri uomini di stato, basata sui principi nell’economica classica, preclude la possibilità di fare qualcosa di meglio” . (ivi p. 128)
36.  Un problema di cui soffriamo pesantemente anche nella lunga fase storica che stiamo attraversando.
37.  Sono le parole di Ronald Reagan, riportate a p. 398 del testo di Rifkin, che le condivide. Salvo poi rimproverare Reagan di non essere stato fedele ai suoi impegni.
38. Essendo il salario già la manifestazione di una relazione sociale, il salario sociale deve essere qualcosa che non media quello stesso rapporto, bensì una relazione diversa.
39.  Ivi, p. 422.
40.  Ivi, p. 407/408.
41.  Ivi, p. 413.
42.  John M. Keynes, Can Lloyd George do it? In  The Collected Writings, vol. IX, cit. p. 114.
43.  Karl Marx, Lineamenti fondamentali …, cit. vol. II, p. 402.
44.  Per una bella ricostruzione di come e perché queste misure hanno dovuto essere regolamentate si veda di Rexmond C. Cochrane, Measures for progress.  A history of the National Bureau of  Standards.  US Department of Commerce,   Washington D.C. 1966.
45.  Karl Marx, Dibattiti sulla libertà di stampa, O.C. I, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 140.
46. Non di immaginare, bensì fare!
47.  John M. Keynes, The general theory …, cit. p. 130.
48.  Karl Marx, Lineamenti fondamentali …, cit. vol. I, p. 317.
49.  Ibidem, p. 318.
50.  Ibidem, p. 318.
51. Vedi il bel libro di Leo Hickman, Ultima chiamata, Ponte Alle Grazie, Firenze 2007.
52.  Ivi, p. 350.
53.  Ivi, p. 395.
54. Anche se bisogna riconoscere che il concetto di “composizione” è piuttosto ambiguo.
55. Ciò che non si riproduce prima o poi si estingue.
56.  Ivi, pp. 295/320.
57.  Emmanuel-Joseph Sieyés, Saggio sui privilegi, in Che cos’è il terzo stato?, op. cit. p. 96.
58. Per questo, secondo noi, non c’è continuità tra le comunità locali preborghesi e quelle che sopravvivono nel mondo borghese.
59.  Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca,   cit. p. 40.ù
60.  Per valutare la misura di questa fagocitazione basta leggere l’intervista a Rifkin di Sara Gandolfi, Vera rivoluzione,  pubblicata sul Magazine del Corriere della Sera del 22 aprile 2009, p. 42 .

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