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eticaeconomia

Dal successo al declino

Le piccole imprese e il paradosso dell’economia della conoscenza

di Ugo Pagano

Ugo Pagano, partendo da un’affermazione di Marcello De Cecco del 2013, riconduce il successo e il successivo declino del modello italiano di piccole imprese al mutamento intervenuto nel contesto in cui viene prodotto, tutelato e utilizzato quel particolare fattore produttivo che è la conoscenza e sostiene che il declino è iniziato quando, in seguito a iniziative del governo americano, la conoscenza da bene pubblico è divenuta, a livello globale, bene privato. Pagano indica anche le implicazioni di policy della sua analisi

Mondo sapiens PerezIn un’intervista a La Repubblica del 2013 Marcello De Cecco così rispondeva al giornalista che gli domandava cosa mancasse all’Italia per essere la Germania:

Intanto una politica industriale. E quindi, a monte, una classe politica in grado di concepirla. Noi siamo stati a lungo, e incomprensibilmente continuiamo ad essere, orgogliosi di un tessuto industriale parcellizzato, quello delle Pmi. Siamo stati così bravi a venderlo – il “capitalismo dal volto umano” e altre scemenze – che anche Clinton veniva a Modena per studiarlo. Salvo poi continuare, loro, a puntare sulla grande industria. Come si può competere nella globalizzazione con unità produttive da una dozzina di persone? Finché potevamo svalutare la lira ha funzionato…

 Per De Cecco svalutazioni della lira e deterioramento della qualità dell’industria italiana erano parte di un circolo vizioso per il quale egli non aveva alcuna nostalgia. Anche per questo, nonostante le sue pungenti critiche alle politiche tedesche, De Cecco rimase sempre dell’idea che l’Italia non dovesse uscire dall’euro e dovesse invece dotarsi di una struttura produttiva adeguata alle sfide globali superando i problemi posti dal nanismo delle sue imprese.

Ma cosa c’è alla radice del declino del  modello italiano  basato sulle piccole imprese? La tesi che sosterrò è che vi è  soprattutto il mutato contesto nel quale viene prodotto, tutelato e utilizzato quel particolare fattore produttivo che è la conoscenza.

La conoscenza differisce dalle macchine perché la stessa unità di conoscenza può essere usata un numero infinito di volte senza deteriorarsi. Si tratta, dunque, di  un bene non-rivale nel senso che una sua specifica utilizzazione non comporta che essa non sia disponibile per un altro uso come invece avviene per le macchine. La stessa formula chimica può essere usata da tanti produttori contemporaneamente. Questo carattere non-rivale della conoscenza implica che quando essa non è liberamente  disponibile come bene pubblico ha luogo uno spreco rappresentato dai mancati suoi ulteriori utilizzi, possibili senza  alcun costo aggiuntivo.

Il fattore produttivo conoscenza ha conseguenze antitetiche quando è fornito come bene pubblico e quando costituisce invece un bene privato, l’economia della conoscenza può favorire, a seconda di come è fornito,  sia imprese piccole sia grandi imprese monopolistiche.  Questo “paradosso della conoscenza” è  la chiave per comprendere la parabola del modello italiano.

Se la conoscenza è fornita come bene pubblico (per esempio da Stati nazionali o da comunità locali) allora l’economia ad alta intensità di conoscenza costituisce un ambiente ideale per le piccole imprese, che possono usare simultaneamente la conoscenza nella forma di bene pubblico e risparmiare gli alti costi fissi che si dovrebbero sostenere nel caso di un uso intensivo di capitali tangibili come gli impianti industriali. Invece, la sua appropriazione privata rende la conoscenza una fonte inesauribile di rendimenti di scala e di scopo. Una singola unità di conoscenza costituisce una forma di capitale intangibile che può essere usata, spesso in sinergia con altre unità di conoscenza, un numero infinito di volte senza deteriorarsi. Nemmeno l’impianto tangibile più grande e duraturo del mondo potrebbe avere queste caratteristiche. Le enormi economie di scala e di scopo, di cui le imprese usufruiscono grazie alla privatizzazione della conoscenza, aprono la strada a una nuova forma di capitalismo in cui il monopolio fondato sui diritti di proprietà intellettuale costituisce la parte più rilevante del capitale delle grandi imprese.

L’illusione dell’eccellenza del modello italiano prende corpo in una breve congiuntura favorevole,  negli anni  80,  quando il ruolo della conoscenza nei processi produttivi comincia a essere rilevante mentre la sua privatizzazione a livello globale è in uno stato ancora iniziale. In questa situazione la conoscenza sembra essere assorbita dalle piccole imprese italiane come un bene quasi-pubblico. Esse possono avvalersi di un nuovo capitale fisso di natura intangibile che sembra gratuito e che esse sfrutterebbero meglio di altre forme organizzative per via di una tradizione di distretti industriali, che esce rafforzata dal decentramento produttivo che costituì la principale risposta alla  crisi delle grandi imprese determinata dai violenti conflitti sociali degli anni 70. L’Italia diventa la terra promessa del post-fordismo perché nel nostro paese migliaia di microimprese sembrano in grado di assimilare  e sfruttare la flessibilità permessa dalla nuova economia della conoscenza che, grazie alle nuove macchine a controllo numerico, permette rapide innovazioni.

Negli Stati Uniti l’ammirazione per il modello italiano si congiunge al diffuso malcontento dovuto alle crescenti difficoltà a competere con le imprese del Giappone e della Germania Occidentale, favorite dalla costante acquisizione di nuove conoscenze maturate in processi produttivi organizzati in modi diversi dal fordismo americano.

A metà anni 90 tutto cambia. Gli Stati Uniti diventano la patria della New Economy della conoscenza mentre Giappone e Germania sono costrette a riformare i loro modelli organizzativi e l’Italia entra in una crisi profonda da cui non si è ancora ripresa. Quel cambiamento ha mille facce che includono la diffusione d’internet, dei computer e dei cellulari: tuttavia, l’aspetto più rilevante è costituito  da una forma di privatizzazione globale della conoscenza.  Il modello americano di economia della conoscenza che si  fonda proprio  sull’integrazione fra Stato e grandi imprese e sulla privatizzazione della conoscenza finirà per imporsi a livello mondiale.  Sin dal 1980 il Bayh Dole Act disciplina lo sfruttamento commerciale privato della ricerca pubblica. Contrariamente ai miti neo-liberisti, che sono una delle esportazioni americane di maggiore successo, gli USA hanno sempre avuto una politica industriale pubblica molto attiva. Essa è poco appariscente per il semplice motivo che non può essere messa in discussione da nessuna parte politica in quanto s’identifica con la politica di sicurezza nazionale e  vige l’unanime consenso patriottico che gli USA devono primeggiare in ogni settore strategico. Questa missione imperativa di superiorità strategica va realizzata senza occuparsi troppo dei suoi costi economici ed ha  importanti ricadute sul settore civile. Si pensi che quasi tutte le componenti di un moderno cellulare derivano da ricerche ritenute rilevanti per la sicurezza nazionale e oggi assistiamo alle ricadute dell’esperienza dei droni militari sulla automazione del trasporto civile.

Con il Bayh Dole Act 1980 la politica industriale degli USA inizia a favorire un intenso sfruttamento privato della conoscenza prodotta nel settore pubblico e militare che va a tutto vantaggio delle  imprese americane le quali, spesso con un minimo cofinanziamento della ricerca, acquisiscono cospicui pacchetti di diritti di proprietà intellettuale. Nel 1994, tre anni dopo la vittoria della “guerra fredda”, con la costituzione del WTO e gli annessi TRIPs, si dà la possibilità di applicare a livello internazionale sanzioni commerciali contro le violazioni dei diritti di proprietà intellettuale.

Negli anni 80 in USA, e poi a livello globale negli anni 90, avviene una grande mutazione delle istituzioni dell’economia e si afferma una nuova specie di capitalismo: il capitalismo dei monopoli intellettuali. L’aspetto più evidente di questa mutazione si coglie nel fatto che tra il 1982 e il 1999 i nuovi asset generati dalla massiccia privatizzazione della conoscenza diventano la parte più cospicua del patrimonio delle 500 più grandi imprese S&P. In soli 17 anni gli intangible asset, che includono questo tipo di beni (mentre escludono i beni capitali tradizionali), passano dal 38% allo 84% del valore complessivo delle 500 imprese più grandi del mondo.

L’economia della conoscenza, che negli anni 80 sembrava favorire le piccole imprese del modello italiano viene ora  a caratterizzarsi per un ambiente economico in cui prosperano imprese capitaliste di enormi dimensioni (anche se in molti casi lo sono più per l’elevato valore dei loro beni capitali intangibili che non per i lavoratori o le macchine impiegate).  Le economie di scala e di scopo associate all’economia della conoscenza favoriscono grandi aggregazioni. Nella New Knowledge Economy, oltre alla privatizzazione della conoscenza, le economie di rete danno un rapido vantaggio a chi si presenta per primo sul mercato e ciò fa sì che  in breve tempo alcune imprese accumulino un elevato capitale intangibile costituito da diritti di proprietà intellettuale. Si determina così  una biforcazione.

 Le imprese con un nutrito portafoglio di diritti di diritti di proprietà intellettuale, hanno un elevato livello di garanzia di appropriazione delle innovazioni,  che sono spesso prodotte proprio usando le conoscenze già  possedute (o ottenute in scambi in cui esse hanno un notevole potere contrattuale). Queste imprese  hanno un elevato incentivo a investire in capacità innovative e queste ultime, in un circolo virtuoso, permettono l’acquisizione di ulteriori diritti di proprietà intellettuale.

All’opposto, un circolo vizioso si determina per le imprese (e più in generale per le economie)  prive di diritti di proprietà intellettuale; la loro assenza, rendendo rischioso l’apprendimento di capacità innovative, ne limita lo sviluppo e porta a una bassa acquisizione di diritti di proprietà intellettuale,  riproducendo le sfavorevoli condizioni di partenza.

Dunque, se   agli albori dell’economia ad alta intensità conoscenza le piccole imprese italiane sembravano proporsi come un modello da imitare con il successivo rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale è stato favorito il successo di paesi che sono riusciti a coniugare l’intervento pubblico nella ricerca con un numero elevato di grandi imprese innovative. Le piccole imprese italiane si sono trovate in un circolo vizioso in cui l’assenza di proprietà intellettuale inibisce lo sviluppo di capacità innovative (e viceversa!). Così la nostra  economia è finita in un instabile limbo: non fa parte dei paesi caratterizzati da processi produttivi ad alta intensità di conoscenza e nemmeno rientra (ancora?) fra i paesi con bassi costi del lavoro, dove grazie ai diritti di proprietà intellettuali si possono decentrare alcune fasi del processo produttivo senza troppo timore di essere imitati.  In mancanza di un adeguato intervento pubblico rischia l’Italia di essere eliminata dal gruppo dei paesi che hanno acquisito le capacità, non solo innovative ma anche legali, di spostare la frontiera tecnologica.

La politica italiana deve favorire il superamento dei problemi legati alla bassa dimensione delle imprese italiane. Le imprese familiari italiane non mostrano alcuna tendenza a trasformarsi in grandi public companies. All’opposto, le public companies, nate come imprese statali ma poi privatizzate frequentemente si trasformano  in imprese familiari, controllate con una minima percentuale di azioni. In questa situazione, difficile da modificare, non vi sono molte alternative alle grandi imprese controllate dallo Stato.

Occorrerebbe, poi,  permettere alle medie e piccole imprese italiane di  accedere  a dotazioni sufficientemente ampie di diritti di proprietà intellettuale in modo da non bloccare i loro processi innovativi. L’Italia può imparare molto dall’esperienza tedesca che, per esempio con il Fraunhofer, ha messo in rete le piccole imprese permettendo loro di condividere  i diritti di proprietà intellettuale.  Come diceva De Cecco, all’Italia per essere la Germania, mancano grandi imprese e politica industriale. E queste sono tanto più necessarie quanto più la conoscenza diventa un bene privato.


* Una versione più estesa di questo articolo è pubblicata con il titolo “Intervento pubblico e privatizzazione della conoscenza” su Quaderni Rassegna Sindacale, n. 3, 2016

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