Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Europa. Competizione globale e lavoratori poveri

di Lucia Pradella*

"Generazione Erasmus o Working Poor Generation? Ce lo chiedevamo a fine giugno qui, in seguito al risultato della Brexit e del dato del voto giovanile (ben diverso da quanto emergeva dai mega titoloni di certa stampa). Ce lo chiediamo di nuovo oggi dopo la vittoria di Trump, continuando a cercare di capire la nostra pancia per conoscere le risposte di cui abbiamo realmente bisogno." [Noi Restiamo]

working poor 1La disoccupazione ha raggiunto livelli senza precedenti in Europa occidentale. I salari sono in discesa e si intensificano gli attacchi all’organizzazione dei lavoratori. Nel 2013 quasi un quarto della popolazione europea, circa 92 milioni di persone, era a rischio povertà o di esclusione sociale. Si tratta di quasi 8,5 milioni di persone in più rispetto al periodo precedente la crisi.

La povertà, la deprivazione materiale e il super-sfruttamento tradizionalmente associati al Sud del mondo stanno ritornando anche nei paesi ricchi d’Europa.

La crisi sta minando il “modello sociale europeo”, e con esso l’assunto che l’impiego protegge dalla povertà. Il numero di lavoratori poveri – lavoratori occupati in famiglie con un reddito annuo al di sotto della soglia di povertà – è oggi in aumento, e l’austerità peggiorerà di molto la situazione in futuro.

Alcuni critici sostengono che l’austerità è assurda e contro-producente, ma i leader europei non sono d’accordo. Durante l’ultima tornata di negoziati con la Grecia l’estate scorsa, Angela Merkel ha dichiarato: “Il punto non sono alcuni miliardi di euro – la questione di fondo è come l’Europa può restare competitiva nel mondo.” C’è del vero in tutto questo. Quello che la Merkel non dice è che i lavoratori in Europa, nel Sud dell’Europa in particolare, competono sempre di più con i lavoratori del Sud del mondo. L’impoverimento e l’austerità in Europa sono le due facce della stessa medaglia, e riflettono una tendenza strutturale all’impoverimento e profondi cambiamenti dell’economia globale.

In una società capitalista i profitti provengono dal lavoro-vivo. L’aumento della produttività non è finalizzato a migliorare i livelli di vita, ma ad abbassare il salario relativo, ossia la differenza tra il valore prodotto e il valore appropriato dai lavoratori. L’accumulazione di capitale tende perciò a una crescente polarizzazione tra povertà e ricchezza, una polarizzazione che può coesistere con un aumento dei livelli di vita per alcune sezioni della classe lavoratrice.

Questa dinamica e il rapporto sociale tra lavoratori e capitalisti su cui essa si basa, però, non sono confinati all’interno dei confini nazionali. Per Marx l’impoverimento non è solo una questione di salari reali della classe lavoratrice nel Nord del mondo: l’impoverimento riguarda aspetti quantitativi e qualitativi delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori alla scala globale piuttosto che nazionale.

L’espansionismo economico e militare è parte integrante dell’accumulazione capitalistica. Mediante gli investimenti esteri e le migrazioni esso permette di espandere a livello globale l’esercito industriale di riserva e la forza-lavoro sfruttabile. L’espansione dell’esercito industriale di riserva permette al capitale di abbassare i salari e di prolungare la giornata lavorativa, riducendo così la domanda di forza-lavoro ed ingrossando ulteriormente la riserva di forza-lavoro, in un circolo vizioso di super-sfruttamento e disoccupazione/sotto-occupazione dispiegato alla scala globale.

 

Integrazione europea e globalizzazione

Queste dinamiche aiutano a spiegare perché da metà anni Settanta, durante una delle più grandi rivoluzioni nelle tecnologie della comunicazione e del trasporto, il mondo ha conosciuto un rapido aumento della povertà globale.

Perfino la Banca mondiale ammette che, se si esclude la Cina, tra il 1981 e il 2004 la povertà estrema (persone che vivono con meno di 1,25$) è aumentata in ogni “regione in via di sviluppo”. Una recente ricerca del Pew Research Center ha concluso che, a dispetto delle radiose visioni di un’emergente classe-media mondiale, se prendiamo come metro di riferimento la soglia di povertà negli Stati Uniti, nel 2011 era povero l’84% della popolazione mondiale (che viveva con meno di 20$ al giorno).

Negli ultimi trent’anni la quota dei salari sul PIL è diminuita nella maggior parte dei paesi del mondo: questo indica un peggioramento della condizione del lavoro di fronte al capitale, un peggioramento che ha avuto luogo perfino in aree dove recentemente la povertà estrema è diminuita, come Cina, America Latina ed Est Europa.

Questi processi d’impoverimento vanno visti nel contesto dell’affermazione del neo-liberismo a partire da metà anni Settanta, coi relativi programmi di aggiustamento strutturale imposti da istituzioni finanziarie controllate dai paesi del Nord del mondo, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale. Insieme alle guerre imperialiste e alle catastrofi ecologiche che hanno avuto luogo in alcuni paesi, il neoliberismo ha causato un’accelerazione nei processi di espropriazione rurale, privatizzazione e ristrutturazione della produzione, andando ad aumentare il numero di lavoratori “vulnerabili” e disoccupati. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro questo esercito industriale di riserva comprende oggi circa 2,4 miliardi di persone.

Nel 2010, circa 942 milioni di lavoratori poveri – uno su tre lavoratori a livello mondiale – viveva sotto la soglia di povertà di 2$ al giorno. Era solo una questione di tempo prima che questo processo di impoverimento iniziasse a farsi sentire seriamente anche in Europa occidentale.

C’è un certo numero di fattori da tener presente in questo processo. In risposta alla crisi di profittabilità del capitale, il rilancio del processo d’integrazione europea iniziato a metà anni Ottanta e l’allargamento dell’UE verso Est negli anni 2000 hanno contribuito all’internazionalizzazione del capitale europeo. Un’altra grande spinta è venuta dall’apertura della Cina al mercato mondiale e dal suo ingresso nel WTO nel 2000. L’introduzione dell’euro non ha solo impedito agli stati membri del Sud Europa di ricorrere alla svalutazione competitiva per favorire le esportazioni; ha anche abbassato il costo delle transazioni ed eliminato le incertezze nei tassi di cambio, accelerando così i flussi di capitali verso gli stati membri dell’Europa centrale e orientale e, in misura crescente, verso l’Asia. Nel contempo, l’immigrazione netta verso l’UE-15 è aumentata, e con essa è aumentata l’offerta di forza-lavoro.

Il conseguente aumento della disoccupazione in Europa occidentale è stato compensato solo in parte e solo inizialmente dalla tanto celebrata espansione del lavoro atipico e del settore dei servizi. Deregulation, privatizzazioni e riforme del lavoro e delle pensioni hanno tutte contribuito ad aumentare l’offerta di forza-lavoro, e questo è avvenuto mentre le varie riforme riducevano la capacità d’azione sindacale ed erodevano il tasso di sindacalizzazione e la copertura della contrattazione collettiva, producendo crescenti disparità salariali e bassi salari.

Le politiche migratorie restrittive e razziste dell’epoca neoliberista non hanno mai avuto lo scopo di bloccare l’immigrazione verso la “Fortezza Europa”; hanno invece prodotto illegalità e un sistema differenziale di diritti finalizzato a stratificare e dividere la classe operaia.

L’Inghilterra della Thatcher ha aperto la strada al resto dell’Europa. In seguito ad una radicale deindustrializzazione e riconversione economica verso i servizi, in Gran Bretagna sono quasi raddoppiati i tassi di povertà e del lavoro a basso salario (lavoratori dipendenti che guadagnano due terzi o meno della retribuzione media nazionale). A differenza del resto d’Europa, in Gran Bretagna la condizione di povertà dei lavoratori ha cominciato a crescere già negli anni Ottanta, e gli orari di lavoro si sono fortemente polarizzati – in Gran Bretagna i lavoratori a tempo pieno hanno tuttora l’orario di lavoro effettivo settimanale più lungo di tutta l’Europa occidentale (nel 2008: 42,4 ore alla settimana contro le 37,3 previste dalla contrattazione collettiva).

Dopo la riunificazione, la Germania ha seguito un percorso analogo. Anche se ha conservato la quota relativamente più alta di occupati nell’industria in Europa occidentale, dalla fine degli anni Novanta l’internazionalizzazione del capitale ha avuto un importante ruolo nella crescita dell’export della Germania, e lo stesso ruolo ha avuto l’immigrazione. Nel 2003-2005, con le “riforme” Hartz I-IV è cominciata una politica sul lavoro che costringe i disoccupati ad accettare qualunque lavoro a qualunque condizione.

Il risultato di queste trasformazioni è stato che in Germania il settore del lavoro a basso salario è cresciuto dal 13% di metà anni Novanta al 20% del 2005, e con esso è aumentata la quota di lavoratori poveri. La precedente tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro si è invertita: tra il 2003 e il 2008 l’orario di lavoro effettivo dei lavoratori a tempo pieno è cresciuto mediamente di 0,8 ore.

L’Italia ha conosciuto analoghe tendenze alla ristrutturazione della produzione, all’immigrazione e all’aumento del lavoro atipico, e da fine anni Ottanta anche in Italia si è polarizzato l’orario di lavoro; nel 2008 i lavoratori a tempo pieno lavoravano in media 39,2 ore alla settimana, 0,7 ore più che nel 1995. Fino a tempi recenti, diversamente che in Gran Bretagna e in Germania, l’Italia non aveva conosciuto una profonda deregolamentazione del lavoro. La quota di lavoro a basso salario nel settore formale (9,5%) era più bassa che in Germania, che nel 2008 esibiva la seconda quota più alta di lavoro a basso salario nell’UE-15 (20,2%), subito dopo la Gran Bretagna (20,6%). L’Italia, però, aveva una delle quote più elevate e stabili di lavoratori poveri in Europa occidentale – stimata intorno al 10% dei lavoratori ed concentrata soprattutto nel Sud.

La stabilità e le dimensioni del fenomeno dei lavoratori poveri in Italia sono il risultato dell’imposizione di politiche di precarizzazione e privatizzazione del lavoro senza alcuna compensazione in termini di welfare, e riflettono la specializzazione internazionale del sistema produttivo italiano.

 

Conseguenze involontarie?

La riorganizzazione e il riorientamento verso Est dell’industria europea, dell’industria tedesca in particolare, hanno ridirezionato le attività produttive e gli scambi dal Sud all’Est dell’Europa. Gli stati del Sud hanno continuato a importare dai paesi del Nord e dell’Est Europa senza trovare degli sbocchi alternativi per il loro export. Di conseguenza, la produzione e i servizi ad alta densità di capitale si sono sempre più concentrati nel Nord dell’Europa, mentre la produzione degli stati del Sud è andata incontro a un processo di downgrading.

La globalizzazione produttiva e l’unione monetaria hanno acuito, piuttosto che alleviare, le diseguaglianze tra i modelli di specializzazione delle regioni del Nord e del Sud Europa, aumentando gli squilibri tra i paesi con un surplus nell’export e quelli in deficit.

Molti studiosi , anche a sinistra, interpretano questi squilibri come il segno di una mancanza di competitività delle economie del Sud Europa rispetto a quelle del Nord. Quest’analisi, però, restringe il proprio orizzonte alla sola Europa, e trascura che ciò che un paese produce ed esporta è importante. Il punto è che, a causa della specializzazione internazionale delle loro strutture produttive, gli stati membri del Sud come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e in parte l’Italia sono sempre più in competizione con i paesi in via di sviluppo, non con quelli del Nord Europa.

Di fronte a una pressione crescente nella produzione a basso e alto contenuto tecnologico, dai primi anni 2000 l’UE ha perso quote di mercato in favore dei BRICS, della Cina in particolare, che è diventata il più grande esportatore di merci e sta salendo la catena del valore. Anche se la delocalizzazione produttiva verso i paesi con bassi salari è fondamentale per la competitività delle aziende europee, la crescita della Cina e di altri paesi asiatici sta creando crescenti difficoltà per le economie più deboli dell’UE.

Ciò aiuta a comprendere le conseguenze acute, ma estremamente diversificate, della recente crisi finanziaria ed economica sui vari settori e paesi dell’UE-15. Il settore manifatturiero europeo è uno dei più duramente colpiti, con 4,5 milioni di posti di lavoro persi tra il 2008 e il 2012 (corrispondenti al 12% dell’occupazione industriale). I livelli di de-industrializzazione variano notevolmente all’interno e tra i vari paesi, e secondo l’UNCTAD i flussi di investimenti diretti esteri si rivolgono sempre più verso i mercati emergenti dell’Asia. Mentre nelle economie avanzate gli investimenti produttivi sono ridotti, i mercati emergenti sono diventati la principale destinazione a livello mondiale dei flussi di investimenti diretti all’estero, e nel 2013 hanno assorbito il 54% dei flussi globali.

Per conservare la propria competitività e i profitti in questo clima, dal 2011 l’UE ha aumentato la sorveglianza sulle politiche di bilancio degli stati membri e ha iniziato a intervenire direttamente su nuovi ambiti, come le politiche salariali. Questo interventismo economico è strettamente connesso con l’imposizione di politiche di austerità e di riforme strutturali in Europa occidentale. L’attacco al settore pubblico, il taglio della spesa pubblica, lo smantellamento del sistema di contrattazione collettiva e la crescente polarizzazione dell’orario lavorativo sono tutti finalizzati a rafforzare il capitale europeo davanti alla crescente competitività internazionale.

Questi fattori strutturali e politici aiutano a spiegare le differenze senza precedenti nei livelli di disoccupazione e dei salari reali in Europa occidentale a partire dallo scoppio della crisi economica. Nel primo quadrimestre del 2015 la disoccupazione variava dal 4,7% della Germania al 5,4% della Gran Bretagna, il 12,4% dell’Italia e il 25,6% della Grecia (Eurostat). La Germania è l’unico paese dell’UE-15 [Stati dell’Europa occidentale, che già erano nell’UE tra il 1995 e il 2004, prima della sua espansione ad Est] dove i salari reali medi sono diminuiti tra il 2000 e il 2009. Ma dal 2010 la situazione si è praticamente rovesciata: i salari medi reali sono aumentati del 4,4% in Germania, mentre sono scesi del 2,3% in Italia, del 4,1% in Gran Bretagna e del 23,6% in Grecia.

Il caso dell’Italia è particolarmente significativo. Con la Cina come suo secondo principale concorrente dopo la Germania, in Italia la profittabilità ha iniziato a cadere molto prima della Grande recessione. Dal 2008 la produzione industriale è scesa di almeno il 25% e la capacità produttiva del 13%. Il sistema occupazionale italiano sta declinando, con una forte crescita del lavoro atipico e a basso salario e la diminuzione delle occupazioni ad alta retribuzione.

In Italia gli interventi dell’UE nel 2011 hanno eroso ulteriormente il sistema della contrattazione collettiva e hanno favorito l’implementazione di politiche di riforma del lavoro. Rilanciando gli attacchi portati da Berlusconi al lavoro organizzato, i governi Monti e Renzi hanno abolito il diritto dei lavoratori a venire riassunti in caso di licenziamenti senza giusta causa, ed hanno generalizzato la precarizzazione del lavoro.

In Gran Bretagna, la produzione industriale è ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, e la crisi e l’austerità hanno esaurito la capacità del settore pubblico di compensare la perdita di impiego nel settore privato. Gli aumenti di occupazione nel settore privato si sono concentrati in lavori part-time, temporanei e autonomi – mentre l’austerità ha colpito salari, condizioni di lavoro e spesa sociale.

In Germania, l’evoluzione relativamente positiva dell’occupazione e dei salari reali è soprattutto dovuta alla specializzazione della sua industria in settori ad alto valore aggiunto, il cui mercato si sta espandendo nei BRICS. Ma anche in Germania i salari crescono ad un tasso inferiore alla produttività, e il lavoro temporaneo e a basso salario è in aumento. Questa compressione salariale spiega come mai in Germania i lavoratori poveri siano quasi raddoppiati tra il 2005 e il 2013, passando dal 4,8 al 8,6%.

In Gran Bretagna il tasso di povertà dei lavoratori è più alto, ma relativamente più stabile che in Germania. Questo trend, però, dipende dal fatto che in Europa i tassi di povertà sono calcolati rispetto al reddito medio nazionale, che è in calo in molti paesi – e il calo del reddito medio riduce anche la soglia di povertà. Se guardiamo ai livelli di grave deprivazione materiale, la tendenza in Gran Bretagna è peggiore. Tra il 2007 e il 2013 la percentuale di lavoratori occupati in condizioni di grave deprivazione materiale è aumentata del 250%, passando dall’1,9 al 4,8%. In Italia i tassi di grave deprivazione materiale sono raddoppiati tra il 2007 e il 2013, passando dal 4,3 al 8,6%, e la percentuale di lavoratori poveri era dell’11%: una percentuale più alta della media dell’Europa occidentale e in aumento malgrado il declino della soglia di povertà.

A questo processo d’impoverimento – unitario ma differenziato – si accompagna una chiara tendenza all’allungamento dell’orario di lavoro dei lavoratori a tempo pieno. In Germania l’orario di lavoro è tornato al livello pre-crisi appena al di sotto di 41ore alla settimana, e la Gran Bretagna vede oggi un ritorno della “cultura dei tempi di lavoro lunghi”: mentre quasi un occupato su cinque è a basso salario, un quinto degli occupati a tempo pieno lavora regolarmente più di 45 ore alla settimana.

In Italia la percentuale di lavoratori occupati a tempo pieno che lavorano più di 45 ore alla settimana (16,3% nel 2011) è quasi raddoppiata rispetto al 2002.

 

La nostra risposta

Per il capitale dell’Europa occidentale l’impoverimento e lo sfruttamento crescenti dei lavoratori sono fattori essenziali per incrementare la profittabilità e mantenere la propria posizione nella divisione internazionale del lavoro. Per questo le politiche di austerità devono proseguire indiscusse e indisturbate, e per questo la Troika si è dimostrata così implacabile con il primo governo Syriza.

L’Unione Europea ha voluto dare una lezione esemplare ai lavoratori greci, colpevoli d’aver alzato la testa e detto no all’austerità; e questo è stato tanto più necessario alla luce della crescita della opposizione all’austerità in Spagna e, in qualche misura, anche in Germania e Gran Bretagna. Quello che le classi dominanti europee più temono, in fatti, è la radicalizzazione delle lotte dei lavoratori e la loro unificazione in Europa e a livello internazionale. Nel contempo, l’assenza di un programma di rottura radicale col capitalismo ha spinto il governo di Tsipras verso moderazione e arretramenti, dissipando così il potenziale di lotta presente tra i lavoratori.

I movimenti emersi in paesi come la Grecia e la Spagna, però, hanno dimostrato di poter abbattere le divisioni interne alla classe lavoratrice e sviluppare forme di potere alternative alla politica istituzionale. Questi movimenti sono però rimasti isolati e hanno ricevuto scarso sostegno dai lavoratori nel resto d’Europa.

La solidarietà alla Grecia ha avuto una portata limitata e non è diventata parte di vere mobilitazioni sindacali nel resto d’Europa. Gli scarsi tentativi di sviluppare un movimento sindacale a scala europea (come lo sciopero generale del novembre 2012) sono rimasti confinati nel Sud dell’Europa, e le poche iniziative fatte per organizzare un coordinamento nelle trattative sindacali sono state largamente inefficaci.

Ma la solidarietà internazionale non è qualcosa di secondario, che può essere rinviato a uno stadio “più avanzato” di lotta. Siamo di fronte a una crisi internazionale e strutturale, e tale dev’essere anche la nostra risposta. In Europa i lavoratori si trovano davanti ad un processo d’impoverimento unitario, ma estremamente differenziato, che riguarda anche paesi apparentemente in ripresa come la Germania e la Gran Bretagna. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è fondamentale per combattere alla radice la povertà crescente, e per costruire una solidarietà tra occupati e disoccupati, tra lavoratori più e meno precari, tra uomini e donne, tra lavoratori immigrati e non.

La riduzione dell’orario di lavoro non è una rivendicazione meramente economica. Per realizzarla il movimento operaio deve rigettare la logica della competitività e affrontare di petto le proprie stratificazioni e divisioni. La condizione dei lavoratori dell’Europa occidentale è direttamente legata a quella dei lavoratori e delle classi popolari dell’Europa dell’Est e del Sud del mondo. L’opposizione all’imperialismo europeo e occidentale è quindi fondamentale per rafforzare la resistenza della classe lavoratrice in Europa. Lo stesso vale per la lotta contro l’escalation del razzismo di stato e dell’Islamofobia, e per l’abrogazione della legislazione razzista che facilita il super-sfruttamento dei lavoratori immigrati.

Queste rivendicazioni possono realizzare il potenziale di classi lavoratrici sempre più multi-nazionali, unificando il movimento dei lavoratori a livello nazionale e internazionale. 


* Lecturer in International Political Economy presso King's College London

Comments

Search Reset
0
Francesco Zucconi
Monday, 14 November 2016 15:58
Sono completamente d'accordo se gli operai cinesi guidati dal partito comunista sono i capofila della lotta per la riduzione del l'orario di lavoro a parità di salario.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit