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Contro la disuguaglianza, ripensando il futuro

Luciano Gallino, la responsabilità e la speranza

di Lelio Demichelis

bansky 600x335Un onore, come si dice. Parlare di Luciano Gallino, a quasi un anno dalla sua scomparsa (8 novembre 2015) è un onore per me che l’ho conosciuto, anche se tardi, il mio primo incontro con lui è avvenuto circa vent’anni fa. Non sono quindi un suo allievo nel senso classico e universitario del termine, ma sicuramente lo sono stato – e tale mi considero - per le molte cose che ho imparato da lui e che Gallino mi ha insegnato; lui che, quindi, è stato per me sicuramente un maestro, e uso deliberatamente questo termine ormai diventato fuori moda. Maestro nel senso di colui che parla, dialoga, suggerisce, propone, critica anche e corregge, a sua volta apprezzando e incoraggiando le strade, magari in parte diverse, intraprese poi dall’allievo. Maestro nel senso di avere indicato un percorso divenuto poi in gran parte comune (pur con alcune differenze), per avere condiviso riflessioni, analisi e interpretazioni della realtà. Per me, Luciano Gallino è stato questo – come maestri per me sono stati, in modi e con intensità e con forme diverse, Michel Foucault per quanto riguarda le forme del potere moderno, Günther Anders per le sue riflessioni sulla tecnica, e la Scuola di Francoforte per l’analisi dell’industria culturale, ancora della tecnica come apparato e delle nuove forme di alienazione e di omologazione.

Ma c’è anche altro, che mi lega a Gallino: la sua formazione sociologica era iniziata alla Olivetti, come tutti saprete, all’Ufficio studi e relazioni sociali. Dunque, in un mondo d’impresa. La mia formazione sociologica è avvenuta in modo simile, all’Ufficio studi di un’Associazione imprenditoriale, che poi ho abbandonato quando le mie analisi e le mie riflessioni sono venute a confliggere con gli obiettivi di quel mondo. Avendo, poi la fortuna di iniziare a insegnare, appunto all’Università, quella dell’Insubria.

Voglio iniziare mettendo in luce alcuni fattori che ritengo fondamentali per definire la figura e il ruolo di Luciano Gallino. Di cui non farò la biografia personale – quella culturale sì - e in rete trovate tutto quello che serve in proposito. Il primo elemento è la sua volontà, il suo impegno – soprattutto negli ultimi vent’anni della sua vita, quelli che mi sono più vicini – di fare pensiero critico: quel tipo di pensiero che oggi è drammaticamente passato di moda. Un tempo, anche in Italia e non solo c’erano gli intellettuali impegnati, per non parlare degli intellettuali organici a certe forme di partito e di cultura.

Luciano Gallino era impegnato a modo suo – anche facendo opera di divulgazione sui media, esponendosi anche politicamente - ma soprattutto era disorganico rispetto alla cultura dominante di oggi, cioè alla sommatoria di neoliberismo e di ordoliberalismo. Il suo era appunto un pensiero critico, l’unica forma possibile e autentica di pensiero – ma dire pensiero critico è quasi una tautologia, il pensiero è critico o non è pensiero -, perché pensare, ragionare, riflettere possono esserlo solo in senso critico, problematico, riflessivo, di approfondimento. Il pensiero critico è l’unica forma di pensiero che Gallino – e io con lui – ammetteva. Dove l’aggettivo appunto rafforza semplicemente il sostantivo. Un pensiero difficile in tempi di semplificazione, di velocità, di brevità, dove appunto raramente si fa approfondimento e più spesso o quasi sempre si fa surf sui problemi e sulle questioni.

Critica, dunque, ma non per il gusto – autoreferenziale e improduttivo - di criticare; critica – invece - per andare a scavare sotto la superficie del senso comune e dei luoghi comuni e delle nuove ideologie come appunto il neoliberismo/ordoliberalismo; o per svelare l’apparenza delle ombre della nostra caverna di Platone, ombre (o mondo virtuale) che scambiamo sempre più per realtà. Critica, infine come modalità per smascherare il potere, le ideologie, ma anche il nostro conformismo, l’opportunismo dell’indifferenza, e soprattutto la rassegnazione che ci prende come unica forma di reazione all’azione pedagogica dell’ideologia neoliberale; e quindi, critica contro quella stupidità che Gallino vedeva nelle politiche europee di austerità e di Fiscal compact, nei neoliberisti e negli ordoliberali al potere nell’eurocrazia di Bruxelles e di Francoforte, oltre che di Berlino. Ma al potere soprattutto nella società, perché il neoliberismo vuole creare un uomo nuovo, vuole pervadere l’intera società e trasformarla in mercato e la vita in competizione, si propone come un tutto – io dico, come una religione - e vuole essere soprattutto una biopolitica (come ha sostenuto Michel Foucault) governando la vita intera delle persone e delle società.

Luciano Gallino era un intellettuale che amava dunque il pensiero critico (quel pensiero, cito, “inteso quale capacità di esercitare un giudizio cercando quali alternative esistono, anche in situazioni dove non sembrano essercene, e di scegliere tra di esse guardando a quelle che vanno in direzione dei fini ultimi piuttosto che alla massimizzazione dell’utile”) e non smetteva di praticarlo e di insegnarlo. Perché era importante (è sempre importante, anche se faticoso) dire il vero, fare parresia direbbe ancora Foucault, smascherare le menzogne del potere perché, come recita la frase di Rosa Luxemburg citata da Gallino nel suo ultimo libro (uscito pochi giorni prima della morte), Il denaro, il debito e la doppia crisi, spiegati ai nostri nipoti: Dire ciò che è, rimane l’atto più rivoluzionario. Perché, appunto dire ciò che è - e non ripetere ciò che il potere dice, questa sì è cosa davvero rivoluzionaria in una società – la nostra – conformista pur negando di esserlo e manipolata incessantemente da una pedagogia neoliberista (che per molti aspetti è “una perversione della vecchia dottrina liberale”, secondo Gallino) ma che è pervasiva e invasiva.

Pensiero critico anche contro la rassegnazione, dicevo: perché Gallino – secondo elemento della sua personalità da mettere in luce, lui piemontese austero ma aperto al nuovo e al cambiamento - ha sempre affiancato la critica alla proposta. Era sociologo che studiava la società, ma dallo studio e dall’analisi traeva poi spunto per passare alla proposta. Perché convinto, come detto, che c’è sempre almeno una alternativa rispetto a ciò che si fa e a ciò che si pensa – e anche in questo suo voler proporre sempre almeno un’alternativa vi era la critica del neoliberismo e dell’ordoliberalismo (tema del nostro ultimo scambio di mail) per i quali invece non esisterebbero alternative al mercato e al capitalismo. Capitalismo che Gallino non voleva distinguere dall’economia di mercato (come cercano di fare ad esempio gli ordoliberali) - il primo problematico, la seconda sempre virtuosa - perché capitalismo ed economia di mercato sono la stessa cosa. Distinguerli - perché dire sistema di mercato sarebbe più tranquillizzante rispetto a capitalismo - è solo “una frode linguistica e concettuale”. E tuttavia - mi aveva detto in un’intervista uscita sulla rivista Alfabeta2, nel 2014 - “il superamento del capitalismo mi sembra ancora un obiettivo lontano. Ma disciplinarlo, il capitalismo, questo si può. E si deve. E subito”.

Anche perché il capitalismo – scriveva Gallino - avrà a che fare con una probabilità e con una certezza: la probabilità è che il futuro del capitalismo sia una stagnazione senza fine; la certezza è invece la crisi del sistema ecologico, “per contrastare il quale occorrerebbe rivedere a fondo il funzionamento dell’economia e il modo di ragionare su di essa”. Ma di questo torneremo a parlare alla fine.

E procediamo con ordine. Mi avete invitato a ricordare Gallino e lo faccio attraverso alcuni suoi libri. Procedendo per argomenti, assumendomi la responsabilità delle omissioni e della scelta delle citazioni. E gli argomenti sono: il lavoro e le sue trasformazioni, con cenni sulla disuguaglianza crescente; la tecnica e/o la democrazia; la finanza e la crisi (la doppia crisi) di questi anni.

Partiamo dal lavoro, tema centrale nelle riflessioni di Gallino. Anche qui, la Olivetti era stata una scuola speciale. Lo ricordava - nel libro sotto forma di intervista a Paolo Ceri intitolato L’impresa responsabile (il modello Olivetti, appunto) - citando il padre di Adriano Olivetti, Camillo che ricordava al figlio: “tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi di lavoro, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia" – e viene subito da pensare a oggi, quando si parla nuovamente di morte di milioni di posti di lavoro per effetto di quella che chiamiamo già quarta rivoluzione industriale, quella del digitale e del capitalismo di piattaforma, che porta a nuove tecniche di lavoro via rete e nuovi modi di organizzazione del lavoro. O quando, sempre nel testo citato ma anche ne Il lavoro non è una merce, Gallino ricordava come la Olivetti avesse vissuto una crisi di sovra-produzione nel 1953 e di come Adriano Olivetti la risolse non licenziando 500 operai, come suggerito dal management di allora - che in parte licenziò e in parte trasferì, ma assumendo 700 nuovi impiegati commerciali, ribassando i prezzi della macchine e così rilanciando le vendite. Un’autentica eresia, per i modelli imprenditoriali e capitalistici di oggi.

Dunque, il lavoro. Che era un diritto, come è scritto nella nostra Costituzione – Costituzione che forse, ed è una considerazione personale ma che Gallino sicuramente condividerebbe - dovremmo applicare davvero, prima di modificarla malamente e in senso oligarchico, come si cerca di fare il prossimo 4 dicembre.

Lavoro che è diventato o è ridiventato – come se il vecchio Progresso si tramutasse in Regresso, per una ennesima eterogenesi dei fini della storia - ciò che non doveva mai più essere, cioè una merce. Mercificando, reificando non solo il lavoro ma anche i lavoratori. E quindi, ecco il suo libro del 2007, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità. Che aggiornava il saggio del 2001, intitolato: Il costo umano della flessibilità. Libro del 2007 dove subito ammetteva: “mentre in quel saggio del 2001 intravedevo alcuni modi per rendere sostenibile la flessibilità senza intervenire più che tanto sulle sue cause, reputo oggi che sia su queste” – cioè appunto sulle cause della flessibilità – “che occorre porre la maggiore attenzione”, perché la tempesta che sta travolgendo le forme novecentesche del lavoro e la considerazione del lavoro come diritto sociale, “deriva dall’aver messo in competizione tra loro, deliberatamente il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni di buoni salari e buone condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende, con salari miserandi. La richiesta di accrescere i lavori flessibili, è un aspetto di tale competizione”.

Competizione che punta alla riduzione del costo del lavoro e del prezzo dei lavoratori, ormai semplici merci del mercato.

Aggiungendo subito dopo: “Il problema che la politica dovrebbe affrontare sta nel far sì che l’incontro, che prima o poi avverrà, tra queste due parti della popolazione mondiale, avvenga verso l’alto della scala dei salari e dei diritti, piuttosto che verso il basso”. L’auspicio, come sappiamo, si è risolto nel suo contrario – il benchmark è sempre il lavoratore sfruttato dell’Asia o il lavoratore sempre più precarizzato e uberizzato dell’Occidente - e da qui i successivi interventi di Gallino sul tema, e penso al suo La lotta di classe dopo la lotta di classe, del 2012, uscito nel pieno della crisi causata dal capitalismo finanziario oltre che dalla diffusione delle nuove tecnologie.

Per vedere come la tempesta non sia passata, ma si aggravi sempre più – pensiamo al caso di Apple. Azienda leader delle nuove tecnologie ma anche dell’immaginario collettivo, della tecnica come forma o come esperienza religiosa-quasi misticheggiante (per noi feticisti tecnologici), ma che sfrutta i lavoratori cinesi che producono gli iPhone con turni di 12 ore al giorno per sei giorni alla settimana.

O agli effetti del JobsAct italiano, per il quale gli ultimi dati evidenziano, ancora una volta che la flessibilizzazione del lavoro non produce occupazione (come vorrebbe il non-pensiero dominante; ancora: neoliberismo & ordoliberalismo) ma disoccupazione e altra flessibilizzazione - e soprattutto precarizzazione del lavoro e quindi delle vite di tutti. Ecco i dati: i licenziamenti, in due anni sono aumentati del 31%, grazie alla modificazione, sempre in nome della flessibilità, dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; la disoccupazione, che doveva diminuire, è ferma all’11,4%; le assunzioni a tempo indeterminato sono calate dell’8,5% nei primi otto mesi del 2016. Mentre i voucher sono saliti a 97 milioni, con un +36% rispetto allo stesso periodo del 2015 e del 71% rispetto al 2014. E pensiamo ai ragazzi di Foodora, saliti alle cronache di questi ultimi giorni per le loro proteste contro i tagli salariali e la loro precarizzazione lavorativa (l’essere lavoratori dipendenti di fatto, ma essere considerati formalmente come lavoratori autonomi della gig economy, l’economia dei lavoretti, o meglio, come preferisco chiamarla: economia della sopravvivenza in tempi di crisi).

Gallino definiva la flessibilità in questo modo: “si usano definire flessibili, in generale, o così si sottintendono, i lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria esistenza – nell’arco della vita, dell’anno, sovente del mese o della settimana – alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano. Tali modi di lavorare, o di essere occupati impongono alla gran maggioranza di coloro che vi sono esposti per lunghi periodi un rilevante costo umano, poiché sono capaci di modificare o sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alle condizioni della prestazione lavorativa, anche il mondo della vita, il complesso dell’esistenza personale e familiare”.

E per definire meglio il processo in atto allora - e ancora di più oggi - distingueva tra flessibilità dell’occupazione e flessibilità della prestazione. La prima consiste “nella possibilità, da parte di un’impresa, di far variare in più o in meno la quantità di forza lavoro (…) quanto maggiore è la facilità di licenziare o di occupare salariati con contratti atipici e di breve durata”. La flessibilità della prestazione si riferisce invece “all’eventuale modulazione, da parte dell’impresa, di vari parametri” quali “l’articolazione differenziale dei salari per ancorarli ai meriti individuali o alla produttività di reparto o di impresa, la modificazione degli orari, il lavoro a turni, gli orari slittanti, quelli annualizzati, l’uso degli straordinari”. A questi esempi potremmo aggiungere oggi, e ancora, il lavoro uberizzato, una certa sharing economy, la gig economy.

E dalla flessibilità/flessibilizzazione del lavoro alla precarietà il passo era ed è breve. Scriveva Gallino: “Il termine precarietà non connota la natura del singolo contratto atipico, bensì la condizione umana e sociale che deriva da una sequenza di essi, nonché la probabilità, progressivamente più elevata a mano a mano che la sequenza si allunga, di non arrivare mai a uscirne. (…) La precarietà oggi è dappertutto, scriveva già tempo addietro Pierre Bourdieu. Il lavoro precario ha provveduto a riportare indietro di generazioni” il mondo del lavoro. Deliberatamente, ancora una volta, perché questo serviva e serve a garantire competitività e produttività al nuovo capitalismo che si stava sviluppando con e grazie alla rete; e perché serve a trasformare il mercato del lavoro – orrendo concetto, visto che sottintende un mercato di individui/persone - e a piegarlo alle esigenze economiche ma soprattutto ideologiche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo.

Una precarietà, scriveva Gallino, che da una parte toglie il futuro e la capacità di immaginare un futuro personale; e dall’altro alimenta – e dovremmo ricordarlo, oggi che vediamo nascere o consolidarsi movimenti populisti in molte parti del mondo – l’antipolitica, l’astensionismo, l’indifferenza verso le cose comuni; e dall’altro ancora toglie identità al lavoratore, lo de-soggettivizza (non è più un soggetto, ma un oggetto del mercato) e insieme lo de-socializza, lo aliena dagli altri e da una società dove, in nome della competizione, sono state rottamate l’uguaglianza, la solidarietà e quindi, conseguentemente, la libertà.

Gallino aveva anche distinto (come in Financapitalismo) tra produzione di valore ed estrazione di valore. La prima produce e crea valore ad esempio costruendo una casa, una scuola, producendo un farmaco utile a debellare malattie; la seconda estrae valore e pensiamo alla speculazione finanziaria o immobiliare o al Big Data, con imprese che producono profitto estraendo valore – con il data mining - dai dati che lasciamo gratuitamente in rete. Ma il processo di estrazione del valore, scriveva Gallino è qualcosa che riguarda in parallelo anche l’organizzazione del lavoro, come: “pagare il meno possibile il tempo di lavoro effettivo; far sì che le persone lavorino, in modo consapevole o no, senza doverle retribuire; minimizzare, e laddove possibile azzerare, qualsiasi onere addizionale che gravi sul tempo di lavoro, quali imposte, contributi previdenziali, assicurazione sanitaria e simili” –- e mi piace ricordare gli scritti di Gallino a proposito dell’introduzione, alla Fiat, del Wcm, il world class manufacturing, la nuova organizzazione del lavoro e che fu anche oggetto del referendum tra i lavoratori di Pomigliano nel 2010: Wcm iper-moderno secondo la Fiat, iper-taylorista, cioè vecchio - o peggio che vecchio, anche se 2.0 - secondo Gallino, producendo un’ulteriore intensificazione dei ritmi e dei tempi di lavoro, tanto che ben 19 pagine su 36 del documento allora presentato dalla Fiat ai sindacati erano dedicate alla metrica del lavoro; e la flessibilità è anche, ad esempio, in 80 ore di straordinari a testa che l’azienda può imporre ai lavoratori, a sua discrezione e senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso di soli due o tre giorni. L’obiettivo – commentava Gallino - è sempre aumentare la produttività, riducendo anche i tempi morti, come le pause; il modello o l’ideale è invece il robot che non rallenta mai il ritmo, non si distrae e soprattutto non protesta.

Ma perché questa flessibilizzazione del lavoro? Tutto nasce - provo a riassumere brevemente qualcosa che è ancora in corso – con la supposta crisi del modello fordista (fatto di grandi fabbriche, molti lavoratori, produzione di massa di beni standardizzati, lavoro disciplinare e disciplinato secondo l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, quella che Zygmunt Bauman ha definito la modernità pesante - ma anche il matrimonio di interesse tra capitale e lavoro ovvero più cresce la produzione più crescono i salari, più è possibile redistribuire parte dei profitti) e quindi, poi – nel momento in cui il fordismo sembra entrare in crisi - il passaggio dal fordismo a quello che in troppi hanno definito come post-fordismo.

Post-fordismo dominato dalla produzione snella secondo il modello Toyota; dal just-in-time; dalla esternalizzazione di fasi di produzione ma oggi anche dei lavoratori perché questo è l’uberizzazione del lavoro; dalla auto-attivazione e dalla motivazione dei lavoratori al diffondersi della psicologia del lavoro (che porta a far fare senza quasi avere più l’ordine di dover fare); il passaggio dal lavoro come prestazione in cambio di un salario al lavoro come collaborazione con l’impresa (o con la rete), oggi come condivisione anche in cambio di un salario/compenso decrescente; e poi la personalizzazione dei consumi (vera o meglio: presunta) e dei messaggi pubblicitari; il passaggio dalla modernità pesante alla modernità liquida (ancora Bauman), dove niente ha più forma stabile e durevole (relazioni e amore compresi), mentre il consumatore è libero di muoversi in rete, come pure le stesse imprese e la rete è ovviamente de-territorializzata e de-materializzata.

Ovvero, scriveva Gallino: “La generalizzazione del modello organizzativo fondato sul criterio per cui tutto deve avvenire giusto in tempo conduce all’interiorizzazione da parte del lavoratore d’una sorta di catena invisibile che costringe a lavorare a ritmi frenetici, pur in assenza di controlli ravvicinati da parte dei capi”. Il post-fordismo ha fatto cioè introiettare a ciascuno cosa deve fare e come nonché il principio dell’accelerazione continua e dell’intensificazione crescente della propria prestazione. Al confronto, Tempi moderni di Chaplin è la preistoria dell’organizzazione del lavoro in rete, ma la rete – aggiungiamo – è solo la vecchia catena di montaggio con altri mezzi o in altra forma.

Aggiungeva Gallino: la richiesta delle imprese di aumentare la flessibilità perseguiva e persegue due scopi: il primo è quello di ridurre in questo modo i costi diretti e indiretti del lavoro (tanto più necessario se le stesse imprese preferiscono astenersi dall’investire in ricerca e sviluppo e in formazione) e così cercare di sopravvivere (più che di vivere) nella competizione globale; il secondo, è quello di ridurre il rischio d’impresa, perché queste imprese post-fordiste e flessibili sono sempre più spesso integrate in una catena globale del valore e quindi sfuma il vecchio concetto di responsabilità sociale e di rischio che l’impresa si assumeva in proprio verso lavoratori e comunità di riferimento.

La vecchia idea di Adriano Olivetti di una comunità virtuosa e di una relazione stretta tra società, territorio e impresa responsabile verso società e territorio è svanito da tempo. Nella globalizzazione, il just-in-time si è evoluto nel tempo reale e la fabbrica si è fatta fabbrica globalizzata e soprattutto fabbrica integrata (perché al crescere della esternalizzazione e della individualizzazione del lavoro deve crescere anche il meccanismo di integrazione e di connessione, oltre che di velocizzazione e di sincronizzazione – e oggi basta un algoritmo) tra tutte le parti della fabbrica integrata (fabbrica integrata che però era già il sogno di Taylor) e in mobilitazione competitiva permanente. Impresa che tuttavia, e proprio per questo diventa del tutto irresponsabile verso territorio, lavoro e società. E ambiente (anche se oggi siamo sommersi dalle retoriche della green economy). Mentre il rischio che era in capo all’impresa è stato abilmente e deliberatamente trasferito sui singoli lavoratori, ciascuno deve pensare a se stesso e provvedere ai mezzi per farlo senza più contare sulla solidarietà e sulla responsabilità dell’impresa: un trasferimento del rischio dall’impresa e dalla società a un singolo sempre più debole, presentando però questa forma di nuovo asservimento al mercato come individualizzazione, responsabilità personale, auto-imprenditorialità.

Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’arrivo delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Oltre che della globalizzazione. E dal rovesciamento del rapporto tra produzione/offerta e domanda, per cui – in verità dagli anni ’70 del secolo scorso - oggi sarebbe la domanda a generare la produzione e non viceversa, come ai tempi del fordismo. E se è la domanda a comandare nel mercato – in realtà è sempre l’offerta a produrre la domanda che le serve, via marketing, immaginari collettivi e beni-feticci – allora, continuava Gallino, si è fatta strada tra le imprese l’idea che questi processi di ristrutturazione del fordismo potessero essere utilizzati anche per la gestione del personale. Per cui, il problema era quello di fare in modo che anche il lavoratore fosse disponibile e utilizzabile, cioè messo al lavoro, solo quando necessario e quindi a costi decrescenti: “non prima, non dopo, non altrove”.

Il punto di arrivo – e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto - è avere anche un lavoratore che sia flessibile. Just-in-time. Idea apparentemente geniale e apparentemente nuova (in verità l’industria automobilistica americana aveva cominciato a introdurre flessibilità nei suoi stabilimenti fin dagli anni ’30, arrivando a presentare un nuovo modello o un modello aggiornato ogni anno, attivando quelle tecniche di invecchiamento psicologico dei prodotti che tanta parte hanno anche oggi nella motivazione a consumare e nello spingere a innovare sempre e comunque). Se non fosse che in questo modo – flessibilizzando il lavoro e impoverendo i lavoratori, invece di raddoppiargli il salario, come aveva fatto Ford nel 1914 – si impoverisce anche la domanda, generando il circolo vizioso in cui siamo sprofondati non tanto dalla crisi del 2008, ma da almeno trent’anni, quelli appunto dell’egemonia dell’ideologia neoliberista, della globalizzazione e delle nuove tecnologie.

Circolo vizioso nato appunto da un’ideologia che prometteva come solo attraverso la flessibilizzazione del lavoro si sarebbe creata più occupazione. Non è accaduto perché non poteva accadere. Eppure siamo ancora dentro a questa favola della flessibilizzazione del lavoro. E nelle mitizzate riforme strutturali chieste e imposte dall’Europa, la flessibilizzazione del lavoro (e la riduzione dei diritti sociali, del welfare e dei contratti collettivi di lavoro) è una delle più categoriche, un autentico dogma religioso (ancora poche settimane fa, verso la Grecia). Che produce coazione a ripetere, verrebbe da dire, e di questa coazione siamo ancora prigionieri.

Flessibilizazione del lavoro e dei lavoratori, per la flessibilizzazione - o meglio la riduzione progressiva - dei diritti del lavoro, del diritto al lavoro e del lavoro come diritto. Un altro degli obiettivi del capitalismo e del mondo dell’impresa, che non hanno perso l’occasione offerta dalle nuove tecnologie individualizzanti per indebolire non solo il sindacato e per ridurre quel poco di democrazia che era riuscita, negli anni ’70, a varcare i cancelli delle fabbriche e degli uffici, ma gli stessi lavoratori. Facile, riducendo nuovamente il lavoro a merce, nonostante il lavoro e una giusta retribuzione siano diritti universali e quindi inalienabili dell’uomo (oltre che secondo la Costituzione italiana); e nonostante il fatto che la Dichiarazione di Filadelfia del 1944, concernente le finalità dell’Organizzazione internazionale del lavoro – ricordata appunto da Gallino – affermi solennemente che il lavoro non è una merce. E invece sì. Perché questo voleva il neoliberismo – il mercato come unico valore e come unica forma di organizzazione anche sociale. Per una società che deve essere anch’essa flessibile (richiamando Richard Sennett), quindi perennemente attiva, perennemente al lavoro o alla ricerca di un lavoro quale che sia, alzando sempre più l’asticella della produttività e insieme della flessibilità.

Dove individualizzazione e flessibilizzazione sono determinate soprattutto dalle nuove tecnologie, che abbiamo già incontrato nelle riflessioni precedenti. ”Senza Itc”, scriveva infatti Gallino, “non sarebbe possibile coordinare unità produttive che non si arrestano mai e che debbono essere collegate in tempo reale con mille altre unità produttive e distributive nel mondo . (…) Esiste dunque una relazione speciale tra le nozioni di lavoro flessibile, società flessibile e società dell’informazione”. E quindi, “all’organizzazione sociale si chiede di assomigliare sempre di più all’organizzazione di un’impresa. Come sappiamo le imprese decentrano, si frammentano in unità sempre più piccole e mutevoli, coordinate da reti globali di comunicazione sempre più efficienti e capillari. L’organizzazione aziendale si appiattisce, diminuendo e fluidificando i livelli gerarchici, generalizzando il lavoro di squadra, puntando a esternalizzare tutte le attività che non attengono alla sua missione primaria”. E questo appunto inseguono sia il neoliberismo che l’ordoliberalismo, la corrente neoliberale tedesca secondo la quale la società deve modellizzarsi sull’ impresa e gli individui devono farsi imprenditori di se stessi, in un’economia di mercato dove la concorrenza e la competizione (e non solo lo scambio) siano la regola d’oro che costituisce e continuamente legittima l’ordine economico di tale società.

Una flessibilità cresciuta sempre più dall’anno (il 2007) di pubblicazione di Il lavoro non è una merce. I processi di flessibilizzazione, outsourcing, sharing e di individualizzazione dei rapporti di lavoro sono cresciuti a dismisura fino a diventare la norma e insieme la normalità del lavoro e della vita di oggi.

Perché singolarizzazione contrattuale, individualizzazione pseudo-imprenditoriale, retoriche dell’autonomia e della libertà, flessibilità e adattamento come nuova condizione esistenziale (come vocazione-beruf individuale) sono, appunto parte essenziale e insieme premessa (la biopolitica, direbbe Michel Foucault) dell’esplosione, frantumazione e impoverimento del lavoro di questi decenni. Grazie a questo, oggi il capitalismo delle piattaforme e gran parte di quella che si è autodefinita sharing economy (ma non lo è) – così come ieri il capitalismo cognitivo, il mito post-operaista dell’intelligenza collettiva, l’economia della conoscenza - mettono al lavoro e sfruttano (estraendo appunto valore invece di produrre valore da redistribuire) il lavoro dei singoli singolarizzati e isolati e quindi più flessibili e disciplinati, più utili e docili (ancora Foucault) e quindi meglio integrabili nell’apparato.

Grazie (anche) al passaggio – come sosteniamo, usando ed estendendo le riflessioni di Luciano Gallino – non dal fordismo a un virtuoso (per gli ordoliberali) post-fordismo, ma dal fordismo concentrato delle grandi fabbriche di ieri al fordismo individualizzato di oggi, con una rete (e i suoi algoritmi) che è sempre più mezzo di connessione eteronoma di ciascuno nella grande fabbrica globale digitale.

E l’uberizzazione diffusa del lavoro, si dice, consentirà di comprare lavoro e competenze in caso di bisogno (è il lavoro on demand) e a prezzo decrescente, scomporrà ancora di più le organizzazioni d’impresa, flessibilizzerà ancora di più il mercato del lavoro, produrrà migliaia di falsi imprenditori di se stessi – ma questo non è davvero niente di nuovo, se non l’estremizzazione del vecchio just in time applicato alle risorse umane. Ed è lavoro quasi-servile, quindi peggio che fordista. Riverniciato di modernità e di ineluttabilità, dove vince chi è più veloce ad adattarsi.

Ma questo è stato appunto un altro degli effetti deliberatamente prodotti dal nuovo capitalismo o da quello che io preferisco definire tecno-capitalismo, perché isolamento e falsa individualizzazione hanno prodotto e non potevano non produrre desocializzazione, disarticolazione dei corpi intermedi e della rappresentanza politica e sociale, e allo stesso tempo la connessione di tutti con tutti ma senza coscienza di classe, senza un discorso sui fini, senza coscienza di sé. Nel segno di Margaret Thatcher e dei neoliberisti per i quali la società (e l’uguaglianza e la fraternità) non deve esistere ma devono esistere solo gli individui, o meglio i falsi individui, appunto sempre meno soggetti (individui, persone con dei diritti) e sempre più oggetti del mercato, compreso quello del lavoro. Ovvero, come ha detto Gallino e molti altri, la lotta di classe l’ha vinta la classe che doveva perdere e quella che doveva vincere – essendo stato disarticolato, individualizzato, uberizzato, auto-imprenditorializzato – ha perso clamorosamente, facendo però perdere (reddito, potere politico, centralità sociale, ruolo politico) non solo al proletariato ma anche al ceto medio.

E’ il grande tema delle disuguaglianze crescenti, affrontato in più occasioni da Gallino e, già nel 2000, nel volume Globalizzazione e disuguaglianze. Dichiarando, con un ampio corredo di dati, che la globalizzazione, per come era stata gestita fino ad allora – e cioè “lasciando mano libera agli automatismi della tecnologia e all’autoreferenzialità dei mercati finanziari – ha acuito le disuguaglianze, ha aumentato la povertà e non ha creato, come sostengono invece i suoi cantori, sviluppo, discesa della disoccupazione e aumento della produttività”. E ricordava questo dato: nel 1960 il 20% della popolazione mondiale si prendeva il 70% del pil del mondo, mentre il 20% più povero si divideva il 2,3% del pil globale. A fine anni ’90, il 20% più ricco si prende l’86% del pil /più sedici punti percentuali), mentre la quota del 20% più povero è scesa all’1%. E ancora: negli anni Ottanta il top management delle grandi imprese percepiva mediamente compensi 40 volte superiori al salario medio di un operaio o di un impiegato, oggi questo rapporto è salito a 3-400 volte, con punte di mille volte il salario di un lavoratore dipendente.

Ma vi è un aspetto importante sul tema delle nuove tecnologie che vorrei sottolineare. Ricordando che gli anni ’90 del ‘900 sono stati gli anni della new o net economy, della esplosione della rete e del tecno-entusiasmo, tutti allora convinti che i vecchi e fastidiosi cicli economici fossero finalmente finiti e che, proprio grazie alle nuove tecnologie fosse iniziata una nuova era di benessere crescente per tutti e che – soprattutto – queste nuove tecnologie avrebbero permesso di lavorare meno, di avere più tempo libero, di fare meno fatica, portandoci nella società della conoscenza e del lavoro immateriale se non alla realizzazione del general intellect marxiano.

Riconosceva invece Gallino, smentendo il tecno-entusiasmo dei molti se non dei più: le ricerche condotte in diversi paesi europei, “descrivono, al contrario, situazioni diffuse di intensificazione (che vuol dire fare più cose nel medesimo tempo) e densificazione del lavoro (che significa, invece, soppressione di ogni tipo di pausa nel calcolo dell’orario)”. Il processo è inarrestabile, e oggi siamo arrivati nella società del 24x7, l’intensificazione e la densificazione del lavoro sono cresciute ancora, è caduta la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, siamo oggetti economici (lavoratori, consumatori, innovatori) in servizio permanente effettivo e siamo felici di esserlo (se non opponiamo resistenza e opposizione vuol dire che accettiamo questo meccanismo), autonomamente o con l’aiuto di un coach o della nuova figura del chief happiness officer, traducibile come capo del servizio felicità di un’impresa. Ovvero, la realtà prodotta dalla terza rivoluzione industriale è stata ben diversa dalle promesse, e tale rischia di essere la situazione prodotta dalla nuova, quarta rivoluzione industriale.

Ancora un piccolo passo indietro, dal 2001 de Il costo umano della flessibilità, al 1998 e a un altro libro importante di Gallino: Se tre milioni vi sembran pochi. Sottotitolo: Sui modi per combattere la disoccupazione. Un libro che, ancora una volta coniuga riflessione e analisi e una parte propositiva, nel capitolo dedicato appunto alle nuove possibili politiche per l’occupazione. Lo considero, personalmente, un libro di passaggio nel pensiero e nello stile di scrittura di Gallino, con l’avvio di una riflessione che pochi anni dopo avrebbe appunto portato ai libri richiamati sopra. Un libro che si schiera apertamente contro il pensiero unico neoliberista trionfante in quel decennio – ridefinito come Pec, pensiero economicamente corretto, oggi diremmo mainstream – e contro le ricette di moda allora, anche nell’Università e sui mass media. Quelle per cui: ci sarà ripresa economica se ci sarà più flessibilità per le imprese di licenziare, i giovani devono adattarsi a questa flessibilità e abbandonare l’idea del posto fisso, le innovazioni tecnologiche creano sul lungo termine più occupazione di quanta ne distruggano nel breve termine e anche questa volta non sarà diverso dalle grandi innovazioni del passato, lo stato sociale è la causa di tutti i mali dell’economia. Un libro dove il caso Italia si integra sulla grande scena della globalizzazione. E dove si parla anche e necessariamente di nuove tecnologie, che secondo Gallino hanno spezzato il circolo virtuoso tra tecnologia e occupazione del passato e la rottura ha un carattere strutturale e non solo congiunturale.

Tecnologie che uccidono o modificano radicalmente il lavoro. Arrivando all’automazione ricorsiva – “robot che fabbricano robot, computer che controllano la fabbricazione di computer, computer che controllano le attività di computer e di reti di computer, software che controllano la produzione e la riproduzione industriale di software”, e oggi, aggiornando quel testo di venti anni fa diremmo: gli algoritmi e il Big Data – alle imprese virtuali alla incessante re-ingegnerizzazione organizzativa, alla esternalizzazione/outsourcing dei processi, alla lean production, all’impresa a rete e alla delocalizzazione. Tutte trasformazioni indotte, prodotte, permesse, facilitate dall’innovazione tecnologica della rete.

E poi, la terza parte del libro, quella appunto propositiva per uscire dall’impasse occupazionale e che riprenderà poi nei suoi ultimi saggi e articoli sui media. Partendo dal fatto che in Italia esiste una autentica miniera di lavoro ancora non sfrutatta, dalla difesa del suolo alla tutela ambientale, dai beni culturali alla formazione e ricerca. Un lavoro da creare non tanto per “moltiplicare gli oggetti da avere in casa” (traducibile in ‘più consumismo’), bensì per migliorare la qualità della vita. Per questo, scriveva - denunciando un problema che da allora si è semmai drammaticamente aggravato - è però indispensabile “allungare l’orizzonte temporale della politica”, uscendo dalla logica del breve termine, che la politica ha appreso purtroppo dal mondo dell’impresa, su cui sta rimodellando se stessa, uccidendo se stessa.

Serve invece avere una visione di lungo termine, per produrre politiche (industriali, dell’occupazione, dell’innovazione) di lungo periodo. Anche rinnegando le ideologie della destra e della sinistra allora dominanti: la sinistra ad esempio dovrebbe ripensare al ruolo della grande industria (da sviluppare e da difendere dagli assalti internazionali) e al dovere di far crescere le piccole e le medie imprese; la destra invece abbandonando lo slogan di meno stato nell’economia, perché ciò che manca è proprio una politica industriale – “e chi, se non lo stato” – domandava Gallino – “è in grado di concepire e di attuare una simile politica?”, sviluppando soprattutto infrastrutture e settori avanzati tecnologicamente.

E invece, scriveva poi nel 2003 sulla Scomparsa dell’Italia industriale, è accaduto proprio quello che non doveva accadere, cioè che l’Italia ha perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stata tra i primi del mondo, come nella chimica e nell’informatica. Come è stato possibile questo cupio dissolvi politico e industriale, questo nichilismo economico? Soprattutto per la mancanza di una visione del futuro, diceva Gallino. E dunque, e ancora di più, serve una politica economica orientata a uno sviluppo ad alta intensità di lavoro e di conoscenza.

Ma torniamo a Se tre milioni vi sembran pochi. Nel libro ci sono anche una serie di riflessioni che condividevo poco allora e che condivido ancora meno oggi, rileggendolo. Ad esempio, la necessità, per Gallino, di valorizzare il ruolo dell’impresa, soprattutto di quella grande, come soggetto sociale; o la famiglia, da considerare come un’impresa e non solo come un fattore di risparmio e di consumo, producendo anzi, “con criteri industriali, servizi alle famiglie”; o il mercato del lavoro, che in Italia non è un vero mercato e che di fatto, non essendolo, impedisce un reale incontro tra domanda e offerta di lavoro, anche per la sua incapacità di creare “un bilancio dei bisogni di competenza delle imprese”; oppure, ancora, il concetto di occupabilità (definito da Gallino “un neologismo bruttino, ma ha fatto bene Tony Blair a imporne l’uso a livello europeo”).

Ancora un breve passo indietro, questa volta al 1983 e a un libro, Informatica e qualità del lavoro. Un libro che mi piace citare non solo perché affronta nuovamente il tema delle tecnologie dell’informazione, allora agli inizi, Gallino osservandole con grande chiarezza nei loro possibili effetti; non solo perché lo stile è tutto diverso dai libri citati in precedenza, qui frasi più complesse con ricca dotazione di tabelle e di schemi; quanto perché pone all’attenzione del lettore un tema che mi è caro, quello del rapporto tra impresa e democrazia e tra nuove tecnologie (la tecnica) e democrazia.

Il 1983 seguiva ad anni in cui si era cercato di portare la democrazia oltre i cancelli delle fabbriche, partendo dal principio che in una democrazia non possano esserci spazi e tempi privi di democrazia. Anche l’impresa, anche quando è privata, non può esimersi dal riconoscere, praticare e far esercitare, al proprio interno forme di democrazia. Perché, appunto, in democrazia non possono esistere spazi e tempi senza democrazia.

Lavoro e democrazia e fabbrica. Con tutti i problemi che questo intreccio tra doveri e diritti produce in termini di autonomia e di eteronomia, di riconoscimento di diritti e di coinvolgimento dei lavoratori nei processi di lavoro e decisionali, in termini di costruzione dell’organizzazione stessa del lavoro. Dove quindi la distinzione tra autonomia ed eteronomia, tra persuasione e manipolazione si fa sempre più labile, tanto più quando, come oggi, si chiede al lavoratore di interiorizzare e di introiettare i valori dell’impresa per cui lavora - a prescindere dal come questo lavoratore è occupato.

E’ quella che io chiamo alienazione ben mascherata, perché l’alienazione non scompare, ma è ben occultata da meccanismi di coinvolgimento, empatia, auto-attivazione dei dipendenti nella logica d’impresa. Teniamo poi presente che se allora la democrazia in fabbrica era un tema di discussione e non si metteva in dubbio il fatto che nell’impresa dovesse esserci almeno un po’ di democrazia, oggi è condiviso (anche dai miei studenti ed è difficile smontare questa certezza) che nell’impresa non possa e non debba esserci democrazia, perché l’impresa è dell’imprenditore e può farci ciò che vuole. Tornare a questo testo di Gallino è allora importante per ripensare a questo sempre difficile ma necessario rapporto tra impresa e democrazia.

Le tecnologie dell’informazione, scriveva Gallino nel 1983, stanno cambiando le nostre vite, individuali e collettive e il nostro modo di lavorare, soprattutto per la velocità con cui avvengono. Se in meglio o in peggio, si domandava, non dipenderà dalle loro caratteristiche oggettive, quanto dai criteri che guideranno il loro sviluppo. E qui mi permetto subito – molto brevemente - di dissentire, considerando invece la tecnica non come qualcosa di neutro e di neutrale, potendo noi decidere cosa farne nel bene e nel male, quanto un sistema autopoietico, che tende cioè a funzionare in automatico e in modi autoreferenziali, producendo esso stesso le regole e le norme del proprio funzionamento e della propria continua auto-riproduzione e legittimazione. Non solo, la tecnica ha il potere ulteriore di trasformare le forme tecniche in forme sociali (come sosteneva Günther Anders), ovvero le forme tecniche con cui si sviluppa e si organizza la tecnica come apparato (non come singola macchina ma come apparato di macchine) diventano le forme sociali con cui anche la società si organizza, ciascuno divenendo sempre più funzionale al funzionamento dell’apparato. E basta pensare a come le nuove tecnologie hanno trasformato i nostri modi di comunicare, scrivere, amare, essere informati, eccetera.

Gallino scriveva: le tecnologie dell’informazione possono fare molto per migliorare la qualità del lavoro umano, ma le stesse potenzialità della tecnica possono anche asservirlo ulteriormente o impoverirlo in misura mai vista prima; o addirittura per eliminarlo. “Per il momento”, scriveva, “varie scelte sono ancora possibili”. Oggi, in tempi di algoritmi che tutto sanno di noi e tutto determinano in noi, algoritmi che addirittura sono il nuovo imprenditore o il nostro nuovo responsabile del personale (penso ancora a Uber e a Foodora), tutto si è fatto ancora più complicato e difficile.

Scriveva Gallino, e sono riflessioni che dovremmo riportare di attualità proprio oggi che l’impresa (e il lavoro, interno all’impresa o esternalizzato ma comunque connesso), si fa sempre meno democratica (ed anzi, come detto, rivendica questo suo diritto di non essere democratica) e insieme inventa sempre nuove tecniche per integrare sempre più il lavoratore, motivandolo e riconoscendogli una (apparente) autonomia, chiamata creatività, co-working, motivazione, responsabilizzazione: “Quale che sia la struttura dell’azienda, permane il conflitto tra individuo e organizzazione. Esso non è altro che una versione del conflitto tra affettività e norma, tra interessi privati e interessi collettivi e come tale è insopprimibile”. E lo vediamo appunto oggi, nelle nuove forme di organizzazione, molto motivanti ma molto fondate su una eteronomia d’impresa o una biopolitica d’impresa che ciascuno deve condividere.

Conflitto insopprimibile, ma la democratizzazione può limitarlo. Anche o soprattutto mediante e mediata dalle nuove tecnologie, scriveva Gallino, “eliminando per quanto possibile, l’accesso differenziale alle risorse, soprattutto l’informazione”, e allo stesso tempo riducendo “i tempi di consultazione delle preferenze, l’onerosità e infine i costi del sistema democratico, il che significa, anzitutto, accelerare i tempi di consultazione delle preferenze, di formazione di una volontà generale e di esplorazione di azioni alternative”.

Democrazia e nuove tecnologie, un matrimonio possibile dunque. Ma perché questo accada, aggiungeva Gallino, occorre “una effettiva volontà di democratizzazione”. Che è appunto ciò che sempre più manca, portandoci lentamente verso quella che chiamo l’autocrazia degli algoritmi).

Concludeva tuttavia Gallino: “Il più alto dei costi, e il più urgente dei problemi, andrebbero visti piuttosto, a mio sommesso avviso, nel degrado o nel mancato sviluppo delle menti di milioni di persone, conseguente a un grado medio di qualità del lavoro, assai più basso di quanto la presente situazione economica, culturale e tecnologica possano giustificare”. Se a questo aggiungiamo che oggi si parla di taylorismo digitale, di sfruttamento del lavoro e io parlo di fordismo individualizzato, ne deriva che le nuove tecnologie sono state una grande promessa e una grande illusione di autonomia e di libertà, tradottasi nel suo contrario. Eterogenesi dei fini anche della tecnologia. O forse, come io credo, esito inevitabile del sistema tecnico e delle sue modalità di funzionamento (e della sua tentazione autopoietica).

Ma Luciano Gallino si era occupato magistralmente di tecnica e di democrazia anche in un libro successivo, anch’esso del 2007 (come Il lavoro non è una merce) e intitolato Tecnologia e democrazia. Dove discuteva di critica della ragione tecnologica, di potere della tecnica e degli scienziati, di ogm e di data mining e dove metteva in evidenza una distinzione che considero fondamentale (e che qui ripropongo), quella tra approccio comunicativo e approccio partecipativo. “L’approccio comunicativo si fonda sul presupposto che gli unici depositari del sapere utilizzabile per valutare una tecnologia siano gli esperti o i politici da essi informati. Dato che il pubblico è considerato per definizione ignorante, non sotto il profilo epistemologico bensì nel senso ordinario del termine, e motivato da tale ignoranza può opporre resistenza alla diffusione di una tecnologia… gli esperti e i politici debbono sobbarcarsi l’onere di comunicare a esso con maggior chiarezza i termini reali della questione”. E sembra essere l’approccio, aggiungo, di questi ultimi trent’anni, dove gli esperti e le tecnocrazie e i signori del silicio hanno preso il posto della democrazia e dove la diffusione delle nuove tecnologie è avvenuta grazie a (o purtroppo con) un immaginario collettivo irrazionale o pre-razionale, ma molto efficace (il tecno-entusiasmo per produrre tecno-integrati).

“Per contro, l’approccio partecipativo”, scriveva Gallino, “si fonda sul presupposto che il pubblico, qualora gli sia dato modo di discutere ed esprimersi in forme e luoghi appropriati, sia atto a orientare gli esperti verso ciò che non sanno (…). La partecipazione contribuisce ad arricchire, complessificare e rendere cognitivamente più robusta la valutazione oltre che socialmente legittimata”. E allora, concludeva Gallino, se intende diventare un oggetto culturale, un bene pubblico, la società della conoscenza – se non vuole ridursi a dire solo che va accresciuta la competitività economica – dove far crescere la democrazia della conoscenza scientifica e tecnologica. Per poter esser noi, il demos, a governare la tecnica – sintetizzo e attualizzo il pensiero di Gallino che spero mi perdonerà se eccedo in semplificazione - e non essere, noi degli oggetti tecnologici capaci solo (e felici di poter di dire solo) mi piace come unica o quasi unica libertà tecnologica.

E veniamo, allora agli ultimi anni. Quelli di riflessione sui processi di finanziarizzazione dell’economia, del colpo di stato di banche e governi, di fine delle classi sociali e della lotta di classe perché vinta dai ricchi invece che dal proletariato, delle disuguaglianze crescenti e poi la doppia crisi in cui siamo immersi.

Anni spesi a difesa dell’intelligenza, della democrazia vera contro le perversioni della tecnocrazia europea e contro quell’ assolutismo esercitato dal mercato - anzi, dal capitalismo. Contro l’egemonia del neoliberismo e dell’ordoliberalismo, contro la trasformazione della società in puro mercato, contro la de-sovranizzazione del demos ad opera delle oligarchie e degli oligopoli economici e finanziari. Contro la stupidità, appunto, di politiche incapaci di correggere i propri errori (l’austerità europea, il Fiscal compact).

La finanziarizzazione dell’economia, allora, ovvero il passaggio alla produzione di denaro a mezzo di denaro, invece di produzione che genera ricchezza e lavoro. Quella finanziarizzazione che estrae ricchezza per sé, non la produce per l’insieme della società. Che è quindi autoreferenziale, è fine di se stessa. A-sociale e anti-sociale.

E il colpo di stato di banche e governi. Un titolo forte, per un libro. Preso – riassumeva Gallino nell’intervista per Alfabeta2 – “dalla scienza politica e applicato alla nostra realtà economica di questi ultimi anni. Scienza politica che parla appunto di colpo di stato quando una parte della società si appropria con la forza di poteri che altrimenti non le spetterebbero. Le Costituzioni democratiche ovviamente escludono l’ammissibilità del colpo di stato (che cancella libertà, democrazia e società in nome di un presunto stato di eccezione). Quello che è successo in Europa in questi ultimi sei anni è appunto un colpo di stato. Contro le Costituzioni dei singoli Stati ma anche contro gli stessi trattati dell’Unione europea. Trattati che insistono molto sui temi economici e sulla libera concorrenza nel mercato, ma che certo non prevedono che le istituzioni finanziarie possano appropriarsi del potere politico e dettare le politiche economiche degli Stati membri. E invece è successo. Lo hanno fatto le istituzioni finanziarie e i governi, piegando alle logiche neoliberiste le norme dei trattati, esasperandole o violandole senza opposizione, interpretandole a senso unico. Non sarebbe successo se alcuni governi si fossero opposti a questa lettura distorta, ideologica nel senso del neoliberismo, dei trattati. Per tutti era prioritario salvare le banche e a questo obiettivo hanno sacrificato la società”.

E ancora: “Un golpe strisciante, in un certo senso. Perché tutto ciò che è accaduto, era già scritto, era stato iniziato dalla Thatcher e poi sviluppato da Reagan negli Stati Uniti, ma il loro era il neoliberismo di Milton Friedman e prima ancora di Friedrich von Hayek, poi applicato un po’ ovunque nel mondo dal Fondo monetario, dall’Ocse, poi dall’Unione europea e dalla Bce. Per anni il neoliberismo è stato davvero il pensiero unico economico dell’Occidente e delle sue istituzioni economiche. E sembra che nessuna correzione sia possibile (…). L’Europa è vittima sacrificale di un’autentica teologia economica, di una teologia neoliberale. Secondo la quale il mercato è sempre efficiente, lo Stato è sempre spreco e inefficienza, la competizione è una pratica virtuosa. Sono clamorosi errori. Ma questa teologia è ancora vincente nell’opinione pubblica, soprattutto nelle università, nell’accademia, nei mass media”.

Era, questo di Gallino, un esplicito atto di accusa. E insieme, un invito forte a cambiare strada, a cercare, come si diceva, un’alternativa. E insieme riproponeva il tema della democrazia e del suo piegarsi, oggi, alle logiche dell’economia, della finanza, della grande impresa, industriale o finanziaria che sia. Smettendo di essere democrazia, trasformandosi in oligarchia che è appunto la negazione della democrazia. Ma il fatto nuovo, scriveva, “è che il potere della grande impresa non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti così negativi, sulla società e sulla stessa economia”. E richiamava F. D. Roosevelt che nel 1938 aveva detto: la libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e non distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile, evitando che al suo interno cresca una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia.

Oggi, in Europa, continuava, si sta verificando “un pericoloso arretramento dell’intero processo democratico, di una portata tale da essersi verificato, finora solo quando un sistema democratico è stato sostituito da una dittatura”. Perché questa Unione europea non è una democrazia, almeno a giudicare dagli ultimi anni, se è persino capace di violare non solo gli stessi trattati che la istituiscono ma i diritti umani – e la Grecia era il caso paradigmatico di questa non-democrazia. E aggiungeva: “Sin dal 2010 la Commissione e il Consiglio europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli stati membri alle istituzioni europee che, per la sua ampiezza e il grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista neppure dei trattati, della sovranità degli stessi stati”.

Che fare? Gallino immaginava un nuovo New Deal. Perché il New Deal “non è cosa del passato. Certo, la realtà di oggi è in parte diversa. Ma l’idea resta validissima. Soprattutto davanti allo scandalo della disoccupazione (…). Ed essere senza lavoro è una condizione ancora peggiore del non avere un reddito, perché mina la stima di sé, minaccia la coesione sociale e non si crea valore perché senza lavoro non c’è crescita, mentre non vale il contrario (come invece si crede oggi). Lo stato allora deve intervenire direttamente per creare occupazione (e Roosevelt, in pochi mesi, diede un lavoro, quindi stima sociale e autostima, a oltre 4 milioni di disoccupati americani). Oggi serve qualcosa di simile. L’ostacolo non è la mancanza di risorse finanziarie, l’ostacolo è ideologico. Oggi l’egemonia neoliberista fa credere a tutti e a ciascuno che la disoccupazione sia una colpa individuale del lavoratore. Che non si adatta, che non abbassa le sue pretese, che non è flessibile. Questo ostacolo ideologico va superato. Perché appunto ostacolo non sono le risorse, ma i dogmi neoliberisti”.

D’altra parte” – continuava Gallino - “questa condizione non è stata prodotta dal caso, ma appunto da una scelta anche della politica: basti pensare alla deregolamentazione dei mercati finanziari e all’abolizione, negli Stati Uniti di Clinton, del Glass-Steagall Act, oppure alla deregolamentazione dei mercati del lavoro, alla Thatcher, appunto, ma anche a Blair e a Schroeder e al patto di ferro tra socialdemocratici e democristiani tedeschi per fare della Germania una grande piazza finanziaria. Per cambiare le cose bisogna passare anche dai Parlamenti – in primo luogo dal Parlamento europeo. Altrimenti tutto rimarrà come prima”.

E veniamo al suo ultimo libro, quello sulla doppia crisi, recuperando alcune parti di questo suo testamento politico e intellettuale – non saprei come altrimenti chiamarlo – che lui aveva appunto dedicato ai nipoti, ma in fondo tutti siamo oggi in qualche modo suoi nipoti. Un libro amaro, perché, scrive, “quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale e morale. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza, e quella di pensiero critico”. Con l’inevitabile conseguenza che “ad aggravare queste due perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della stupidità”, quella stupidità che richiamavo all’inizio e che Gallino attribuiva al neoliberismo.

L’uguaglianza, allora: che oggi è dimenticata, come la fraternità/solidarietà e conseguentemente la libertà, pensando che basti avere molte merci, molti like e molti followers per credere di essere liberi. Eppure, l’uguaglianza era stata un’idea forte del secolo scorso, soprattutto negli anni ’30 del ‘900 con Roosevelt negli Usa e in Europa, nei (gloriosi) trent’anni dopo il 1945, con la nascita, sul modello di Beveridge, dei sistemi di welfare, e poi le politiche keynesiane, la redistribuzione dei redditi dall’alto verso il basso e la quasi eutanasia del rentier. Poi, sul finire degli anni ’70 è iniziato un attacco ideologico (ancora la stupidità) all’idea di uguaglianza. E così sono stati organicamente effettuati, scrive Gallino, “tagli micidiali all’istruzione, all’università, alle pensioni, alla sanità, in base all’assunto (del tutto falso) che eravamo tutti vissuti al di sopra dei nostri mezzi”, facendoci dimenticare che invece proprio il nostro dover vivere al di sopra dei nostri mezzi era stata la strada obbligata (facendoci indebitare) per garantire la sopravvivenza al sistema capitalista.

Ma c’è di più: le riforme economico-sociali imposte dall’Europa, “lasciano chiaramente intendere che in gioco non c’era soltanto la demolizione dello stato sociale, ma la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio di una sua variante: l’ordoliberalismo”. Una mutazione antropologica ed esistenziale mediante la socializzazione del capitalismo, potremmo dire.

E ancora: “Causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata, dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico, quest’ultima strettamente collegata con la prima”. Perché alla sua crisi a molte facce, il capitalismo (“che pare davvero si stia avviando verso la sua fine” – ha scritto Gallino, anche se non sappiamo ancora quando ciò avverrà) ha reagito “accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita, nonché ostacolando in tutti i modi gli interventi che sarebbe necessario adottare prima che sia troppo tardi. Il tutto con il ferreo sostegno di un’ideologia, il neoliberalesimo, che riducendo tutto e tutti a mere macchine contabili dà corpo a una povertà del pensiero e dell’azione politica quale non si era forse mai vista nella storia”.

L’ideologia neoliberale appunto. “E’ l’impalcatura delle teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo dell’economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt’altre cause – cioè la stagnazione inarrestabile dell’economia capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un accrescimento patologico della finanza, la volontà di riconquista del potere da parte delle classi dominanti. Oltre alla crisi ecologica, che potrebbe essere arrivata a un punto di non ritorno”.

E quindi, la crisi del capitalismo e la crisi ecologica “non sono due eventi che si possano affrontare separatamente”.

“La concezione dell’essere umano teorizzata e perseguita ai giorni nostri con drammatica efficacia dal pensiero neoliberale” – continua Gallino – “ha lo spessore morale e intellettuale di un orologio a cucù. In alternativa” - dice sempre rivolgendosi ai nipoti - nei vostri libri di scuola potete trovare quanto di meglio il pensiero occidentale ha espresso in venticinque secoli. Si tratta di metterlo in pratica. Fondamentale, in esso è la distinzione tra ragione soggettiva o strumentale e ragione oggettiva. La prima vede nell’essere umano principalmente una macchina da calcolo, che pondera senza tregua il rapporto tra mezzi e fini: è l’idea alla base dell’ideologia neoliberale. Per contro, stando alla seconda definizione di ragione, questa esiste anche nel mondo oggettivo. Come ha scritto Max Horkheimer, essa esiste nei rapporti fra gli esseri umani e fra le classi sociali, nelle istituzioni sociali, nella natura e nelle sue manifestazioni. In questa concezione, quel che più conta sono i fini, non i mezzi”.

Invece, oggi il mezzo, l’economia - ma io aggiungo: anche la tecnica - è diventato il fine, mentre l’uomo, quello che doveva essere il fine, è divenuto un semplice mezzo, se non una merce. Capovolgendo la ragione, negando l’uomo e divinizzando il capitalismo (che, come diceva Benjamin nel 1921, è appunto una religione). Il capitalismo e la tecnica, quello che io chiamo tecno-capitalismo e che, sviluppando il pensiero di Benjamin, chiamo religione tecno-capitalista. In un libro che purtroppo Gallino ha forse solo potuto sfogliare, senza dirmi cosa ne pensasse.

Gallino chiude il suo libro-testamento con un capitolo quinto – scendendo nuovamente molto nel concreto – dedicato alla ricerca di alternative. Proposte che vanno nella direzione di attuare mutamenti profondi nel modo di produzione, di lavorare e di consumare; nel sistema finanziario; nell’organizzazione dei processi politici, nella distribuzione delle risorse e delle ricchezze, nella rivalutazione della società civile e dei corpi sociali intermedi.

E allora, occorre controllare democraticamente il sistema finanziario o meglio l’intero capitalismo; rilanciare il ruolo dello stato, anche nel senso di orientare e indirizzare, anticipare, sostenere e collegare tra loro le iniziative – e qui si sente l’eco di Keynes – che le imprese private faticano a realizzare; togliere alle banche il potere di creare denaro dal nulla; trasformare in senso socio-ecologico il sistema economico; ridurre al minimo l’estrazione di valore, quindi le rendite e la sua industria, cioè le grandi banche; spezzare la perversa spirale del debito; democratizzare l’Unione europea dove invece, oggi, la politica la fa il capitale.

Negli ultimi mesi della sua vita, Gallino aveva lavorato anche all’ipotesi, per l’Italia, di uscire dall’euro senza uscire dall’Unione europea. Analizzando il se e il come poterlo fare. Un’ipotesi estrema, davanti alla coazione a ripetere di questa Europa. Un’ipotesi che ha affascinato molti, ma che ha trovato il mio totale dissenso.

Per cambiare l’Europa e per realizzare l’ambizioso programma di Gallino, serve però anche un nuovo soggetto politico e sociale capace almeno di ri-democratizzare il capitalismo e di riprendersi la sovranità su economia e, aggiungo, sulle tecnologie. E allora arriviamo al tema delle classi sociali, che sembrano scomparse ma che invece esistono, sosteneva Gallino, solo che – utilizzando la distinzione marxiana – sono tornate ad essere classi in sé (il proletariato, come detto, non è mai stato così numeroso come oggi) ma non classi per sé (sono incapaci di agire collettivamente e progettualmente), hanno perduto ogni possibile coscienza di classe, sono incapaci di diventare soggetto collettivo. Hanno cioè incorporato l’ideologia neoliberista e ordoliberale, sono stati isolati e de-socializzati sulla base di una falsa promessa di individualizzazione e di responsabilizzazione affinché potesse avvenire la loro ri-socializzazione nel mercato e nell’impresa (e siamo passati dai falsi bisogni di Marcuse prodotti dal sistema per la propria riproducibilità infinita, alla falsa imprenditorializzazione di sé di oggi e all’impresa come comunità di lavoro e al lavoro come collaborazione).

Ma alle molte cause che hanno prodotto questo effetto perverso – e frutto appunto di tutte le politiche e le pedagogie neoliberiste e ordoliberali – a cui mi preme aggiungere quello delle nuove tecnologie, individualizzanti come nessun altra. Che hanno permesso che si dispiegasse in pieno la logica del divide et impera neoliberista e ordoliberale. Gallino scriveva (in La lotta di classe dopo la lotta di classe) che occorre rilanciare la dialettica all’interno della società, tra capitale e lavoro, tra culture politiche differenti. Perché coloro che stanno alla base della piramide sociale possano finalmente dimostrare, ai politici di destra ma soprattutto di sinistra, che esistono, che sono stanchi di essere sconfitti e che si stanno ri-attrezzando per cambiare il corso della storia.

Cosa non facile – questo capitalismo esercita una vera e propria egemonia e il partito di Davos (e di Cernobbio) è al potere ovunque e comunque è sempre riverito – ma forse ancora possibile e necessaria. Servono, dettagliava Gallino ne La doppia crisi, una massa adeguata di elettori e “un gruppo di dirigenti capaci di diffondere le idee per una svolta politica”. Qualcosa forse si muove, scriveva.

E tuttavia, se una vera forza di opposizione non si formasse neppure ora, “quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale”. E quindi, ecco ancora l’invito ai nipoti, cioè a tutti noi: “Se riuscirete a costruirvi un’immagine dell’essere umano da creare in voi, ispirata da fini ultimi piuttosto che dai precetti della finanza, vi verrà naturale pensare a quale sarebbe il genere di società in cui quel tipo umano vorrebbe vivere e che vorreste impegnarvi a realizzare. (…) Nessuno è veramente sconfitto se riesce a tenere viva in se stesso l’idea che tutto ciò che è, può essere diversamente e si adopera per essere fedele a tale ideale”.

E poi l’invito conclusivo: “Considerate questo piccolo libro come un modesto tentativo volto ad aiutarvi a coltivare una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa”.

E a mia volta concludo dicendo: considerate anche voi questo mio ricordo di Luciano Gallino come un modesto tentativo per coltivare un po’ di pensiero critico nell’età, appunto, della sua scomparsa

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