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Alienazione, reificazione e feticismo della merce

di Anselm Jappe

jappe25255b425255dAl tempo della Seconda Internazionale (1889-1914), la teoria di Marx venne trasformata in un'ideologia centrata sulla "lotta di classe" e sulla rivendicazione di una diversa redistribuzione del plusvalore. Da allora, si è continuato ad usare le analisi di Marx essenzialmente con quest'obiettivo: ottenere una maggiore giustizia sociale. Nella sua formulazione classica, il soggetto storico di queste rivendicazioni corrispondeva alla classe operaia, assimilata essenzialmente, in questo caso, al proletariato industriale.

Negli ultimi decenni, tale schema è stato frequentemente applicato in una nuova forma, facendo riferimento ad altre figure dello sfruttamento e del dominio (i poveri del "Terzo Mondo", i "subalterni", le donne). Tuttavia, si può osservare che, in tutti questi casi, non è il vero e proprio contenuto della riproduzione capitalista ad essere messo in discussione, ma piuttosto l'accesso ai suoi risultati. Il valore ed il denaro, il lavoro e la merce non vengono lì concepite in quanto categorie negative e distruttrici della vita sociali. Eppure, era questo che Marx aveva svolto nel nucleo della sua critica dell'economia politica, così come lo aveva sviluppata, soprattutto nella prima sezione del Capitale.

Per il movimento operaio, per i suoi portavoce ed i suoi intellettuali, il valore ed il denaro, il lavoro e la merce non costituiscono più categorie che devono essere abolite, ma elementi naturali di tutta la vita umana, dei quali bisogna appropriarsi per amministrarli "in modo diverso". Allo stesso modo, la produzione industriale, incluso il suo ritmo e le conseguenze per la vita umana e per la natura, non viene considerata un problema, ma una risorsa dalla quale trarre vantaggio. Un tale atteggiamento è arrivato fino al punto di elogiare il fordismo, con le sue catene di montaggio e con la sua ferrea disciplina, elogio pronunciato da Lenin e da Gramsci in alcuni dei loro testi. Per cui, si trattava essenzialmente di dare continuità al capitalismo industriale, basato sul lavoro astratto e sulla sua doppia natura di merce - astratta e concreta - modificando solamente la proprietà giuridica dei mezzi di produzione. Nel testo che segue, al contrario, ci proponiamo di esaminare il problema dell'alienazione e della reificazione, a partire dalle analisi marxiane del feticismo della merca e del lavoro astratto.

 

Alienazione e reificazione: storia, problemi e declino teorico

In questo contesto, i primi teorici a riprendere il concetto di alienazione hanno avuto anche il grande merito di porre nuovamente la questione del contenuto della produzione capitalista, e non solo quello della distribuzione dei suoi frutti. Sarebbe interessante fare uno studio statistico delle occorrenze del termine "alienazione" nella storia del marxismo. Sarebbe certamente possibile scoprire che il termine era sempre più o meno assente nei discorsi marxisti precedenti agli anni 1920; cosa che può essere spiegata anche a partire dalla rarità della sua occorrenza nelle opere di Marx fino ad allora conosciute (1) e con il fatto che il termine sembra far parte dei residui di una terminologia hegeliana. Il primo importante recupero del concetto di alienazione avviene con la pubblicazione di Storia e Coscienza di Classe, di Georg  Lukács, nel 1923; dove, però, il concetto di "alienazione" si trova ampliamente sostituito dal termine "reificazione". Il termine "alienazione", nel senso marxiano, era così poco presente nel dibattito generale che, negli anni 1930, Henri Lefebvre - ossia, l'autore, nel 1936, de "La coscienza mistificata", uno de primi libri che esamini un tale concetto in Francia - si viene a trovare, alla fine di una conferenza sulla "alienazione", nella situazione di dover rispondere alla seguente domanda: "Ma allora intende dire che siamo tutti matti?".

Il concetto di "alienazione" ha conosciuto ampia diffusione dopo la seconda guerra mondiale. Soprattutto, negli anni 1960-1970, si è propagato molto al di là dei media marxisti in senso stretto.Sembrava che si fosse presentata l'occasione per dare continuità alla critica del capitalismo, nonostante la fine della povertà di massa e di quella che allora veniva frequentemente chiamata "l'integrazione del proletariato" nella società capitalistica e il suo presunto assorbimento nella "classe media" (2). Se la società borghese era finalmente riuscita a dare a ciascuno un pezzo di pane, si diceva, non era per questo che era riuscita a creare le condizioni per una vita soddisfacente, nella quale gli individui potessero decidere sulla propria vita per sé stessi. Questo cambiamento nella critica sociale - in altre parole, il passaggio dal "paradigma dello sfruttamento" al "paradigma dell'alienazione" - si poteva riassumere in una frase ben nota, con la quale, nel 1967, il situazionista Raoul Vaneigem apriva il suo "Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni": "Non vogliamo un mondo nel quale la garanzia di non morire di fame, venga scambiata con il rischio di morire di noia". Si sa che questo libro ha simbolizzato, come pochi, l'esperienza della generazione che ben presto, nel maggio del 1968, sarebbe scesa nelle strade.

Il "successo" del concetto di alienazione comportava, evidentemente, un notevole ampliamento della critica del capitalismo, che mirava, ora, ben oltre la semplice denuncia dello sfruttamento economico. Un tale ampliamento era in pieno accordo con i nuovi dati sociali, economici e politici degli anni 1960, quando temi tradizionali come la "miseria operaia" sembravano sempre meno corrispondere alla realtà empirica. Quasi tutte le teorie sociali dell'epoca partivano dal presupposto per cui il capitalismo aveva risolto il suo problema di base, identificato con "l'anarchia del mercato" e con la povertà da esso generata. La sociologia ufficiale ed universitaria traeva la conclusione per cui il capitalismo - addomesticato come "economia democratica di mercato" - costituiva un orizzonte insuperabile, il quale poteva essere certamente migliorato, ma non abolito. Le teorie sociali che, al contrario, continuavano ad esporre l'esigenza di un cambiamento radicale, partivano dalla convinzione per cui il capitalismo non avrebbe più conosciuto gravi crisi economiche che potessero sfociare in rivoluzioni; concentrando tutta la loro attenzione sull'insoddisfazione degli individui, impossibilitati a controllare le loro condizioni di lavoro e la loro vita in generale. La speranza che si potesse produrre "nonostante tutto" un'azione rivoluzionaria dipendeva da questa insoddisfazione. La Scuola di Francoforte, la rivista Socialisme ou Barbarie, l'Internazionale Situazionista, ed alcune opere di Henri Lefebvre, sono state fra le espressioni più conosciute di un tale approccio. Il concetto di alienazione, però, straripava dal suo quadro marxista per diventare un luogo comune. Arrivando ad essere ripreso da Martin Heidegger (3) e dalla sua scuola, così come anche dai teologhi.

Tuttavia, il concetto di alienazione, così popolare, presentava almeno tre difficoltà le quali, per inciso, venivano sfruttate dai suoi avversari (4).

Innanzi tutto, il termine (in particolare nelle varianti diverse degli esistenzialisti e dei teologhi che se ne erano impossessati) veniva frequentemente impiegato in maniera abbastanza imprecisa, finendo per indicare soltanto il malessere prodotto dalla società industriale e dal fatto di sentirsi "straniero" nel mondo moderno.

In seguito, la parola stessa alienazione, così come il suo equivalente "estrusione" (Entäuβerung di cui parla Hegel) si trova, linguisticamente, nell'avversione per lo "straniero", o per il "di fuori". In tedesco,  Entfremdung (alienazione) suona quasi come Überfremdung (perdere il proprio carattere a causa della presenza massiccia di stranieri, ed in particolare di un popolo - è un termine tipico del discorso razzista in Germania). Dall'altro lato, nella critica della "reificazione" o "cosificazione" (Verdinglichung) sembra spuntare una forma di avversione per le cose (res) in quanto tali, per lo stesso mondo materiale, espressa nel nome di un puro soggettivismo. Così, la promozione di questi due termini avrebbe espresso – indirettamente, e per ciascuno a suo modo - una forma di narcisismo che tende a ridurre ogni cosa a sé stesso, assimilare gli altri, così come il mondo esterno, interamente. In questo si può anche leggere una sorta di vitalismo che identifica la vita con il movimento e con il divenire, opponendolo a tutti gli ancoraggi. Lo stesso  Lukács ha denunciato questo atteggiamento nella sua prefazione autocritica alla riedizione di Storia e Coscienza di Classe, nel 1967. Tracce di questa concezione vitalistica dell'alienazione si trovano anche nei situazionisti e negli operaisti.

Entrambi gli aspetti del concetto si alienazione, così come venne propagato negli anni 1960 - il suo carattere impreciso ed il desiderio implicito di salvaguardare l'identità del soggetto - vennero efficacemente criticati da  Teodor W. Adorno, segnatamente nel piccolo capitolo "Oggettività e reificazione", della Dialettica Negativa. Questo genere di obiezioni concerneva soprattutto l'uso improprio del concetto, così come le sue possibili derivazioni. Non si possono applicare al concetto originale, come lo si trova nel giovane Marx.

Quanto alla terza obiezione, essa è rivolta al concetto di alienazione in quanto tale: presuppone un'essenza originaria che l'uomo avrebbe perso. Nei Manoscritti del 1844, Marx avrebbe opposto il soggetto, in quanto Gattungswesen ("essenza generica"), alle sue oggettivazioni infedeli che non gli appartengono più, e nelle quali non può riconoscersi, ma che, al contrario, lo dominano. La prima teoria dell'alienazione in Marx sarebbe, pertanto, una "antropologia" che oppone una natura "vera" dell'essere umano ai suoi abbagli. In questo modo, tale teoria condividerebbe i difetti che caratterizzano tutta la teoria del soggetto, cosi come gli approcci "umanisti", e venne respinta dagli strutturalisti (N.d.T.: Louis Althusser. “Marxisme et humanisme”. In "Pour Marx").

Nella continuazione di queste critiche, il concetto di alienazione continuava a mettere in pericolo il postmodernismo teorico che, come si sa, si caratterizza soprattutto per il suo dichiarato anti-essenzialismo. Il progressivo abbandono viene descritto come segue, da uno dei suoi protagonisti, Jean Baudrillard:

"La virtualità è qualcosa di diverso dallo spettacolo, che riserva ancora un posto alla coscienza critica ed alla demistificazione. L'astrazione dello 'spettacolo', anche per i situazionisti, non è mai avvenuta senza appello. Mentre la stessa realizzazione condizionale era inappellabile [...]. Mentre possiamo affrontare l'irrealtà del mondo come spettacolo, siamo indifesi davanti all'estrema realtà di questo mondo, di fronte a questa perfezione virtuale. Siamo, di fatto, oltre ogni disalienazione." (J. Baudrillard. Le Crime parfait).

Baudrillard, da parte sua, definisce così il proprio percorso:

"Inizialmente, la simulazione, il passaggio generalizzato al codice ed al valore-segno, viene descritta in termini critici, alla luce (o all'ombra) di una problematica dell'alienazione. Per mezzo di argomenti semiologici, psicoanalitici e sociologici, è la società dello spettacolo che viene ancora messa in causa, così come la sua denuncia. La sovversione viene ancora ricercata nella trasgressione delle categorie dell'economia politica: valore d'uso, valore di scambio, utilità, equivalenza. I riferimenti di tale trasgressione saranno la nozione di dispendio in Georges Bataille e quella di scambio-dono in Marcel Mauss, il consumo ed il sacrificio, ossia, una versione ancora antropologica ed anti-economicista, dove la critica marxiana del capitale e della merce si generalizza in una critica antropologica radicale dei postulati di Marx. In "Lo scambio simbolico e la morte", tale critica va al di là dell'economia politica." (J. Baudrillard. "L’Autre par lui-même").

Baudrillard ha tutte le ragioni su questo punto: per poter denunciare "l'alienazione", bisogna indicare allo stesso tempo realtà che non sono alienate - realtà "autentiche" - in rapporto alle quali l'alienazione (o l'inautentico) possa essere definita come tale. Ed è vero che, a partire dagli anni 1970, in una società sempre più "unidimensionale" (Marcuse) e schiacciata da unn "eccesso di realtà" (Annie Le Brun), era difficile fare esperienza di qualcosa che potesse essere opposto all'alienazione. Il cerchio appariva, a partire da allora, ben chiuso: non esisteva altro che la circolazione fra diverse forme di alienazione, il che significava, così, lo status di condizione insuperabile della post-modernità.

Ma coloro che lo affermavano, come lo stesso Baudrillard, già non si proponevano più di liberare il pensiero critico dai limiti che potessero derivare dal suo radicamento in una filosofia non-superata del soggetto. Rimanevano solamente, troppo felici di poter dichiarare che la stessa distinzione fra alienazione e disalienazione era, d'ora in avanti, obsoleta.

 

La centralità del feticismo della merce

Si assiste, negli ultimi anni, ai tentativi di riconquista dei concetti di alienazione e di reificazione. Chiaramente, nel frattempo, il discorso sull'alienazione non è del tutto sparito. La sua eclissi, tuttavia, è stata accompagnata dalla diffusione dell'altro concetto di Marx che in una certa maniera si prolunga: il "feticismo della merce". Pure qui, un lavoro di statistica semantica si rivela interessante. Anche negli autori appartenenti al marxismo critico, tale concetto rimane ben raro prima degli anni 1970. Per esempio, nelle mille pagine della "Teoria dell'alienazione in Marx", del lukacsiano István Mészáros, pubblicato nel 1970 e considerato ancora un classico in materia, la parola "feticismo" praticamente non compare. Il sotto-capitolo su "Il feticismo della merce ed il suo segreto", che chiude il primo capitolo del Capitale, veniva considerato allora come una digressione tanto incomprensibile quanto inutile, una ricaduta nell'hegelismo, un capriccio metafisico. E' sempre bene ricordare che, nel 1969, Louis Althusser chiedeva che si proibisse ai lettori del Capitale di cominciare dal primo capitolo - nel quale si inscrive il passaggio sul feticismo della merce - giudicandolo troppo difficile. L'argomento di Althusser consisteva nell'affermazione per cui i lettori, per meglio comprendere il Capitale, avrebbero dovuto rendersi conto del conflitto visibile tra lavoro vivo e lavoro morto come punto di partenza e "pivot" della critica marxiana, e considerare l'analisi della forma valore, con la quale si apre il Capitale, solamente come una precisazione supplementare, da approfondire in un secondo momento. Quello che Althusser ha scritto nella sua prefazione ad un'edizione del Capitale merita di essere riportata:

"Le maggiori difficoltà teoriche, insieme alle tante altre, che costituiscono un ostacolo alla facile lettura del libro I del Capitale, sono, sfortunatamente (o fortunatamente) concentrate proprio all'inizio del libro I, più precisamente nella sua sezione I, la quale tratta de 'La merce e la moneta'. Dò quindi il secondo consiglio: mettere PROVVISORIAMENTE FRA PARENTESI TUTTA LA SEZIONE I e COMINCIARE LA LETTURA DALLA SEZIONE II: 'La trasformazione del denaro in capitale'. A mio avviso, è solo possibile cominciare (e solamente cominciare) a comprendere la sezione I, dopo aver letto e riletto tutto il libro I a partire dalla sezione II. Questo consiglio è più che un consiglio: è una raccomandazione che, con tutto il dovuto rispetto per i miei lettori, mi permetto di presentare come una raccomandazione imperativa. Ciascuno potrà fare esperienza pratica di questo. Se si comincia a leggere il libro I dal suo inizio, cioè, dalla sezione I, esso o non viene capito, o viene abbandonato; oppure si pensa di capirlo, e il che è ancora più grave, perché ci sono grandi possibilità che sia compresa una cosa diversa da quello che si dovrebbe comprendere."

"Raccomandazione imperativa" - si percepisce bene il dispetto del teorico, per non avere il potere di cui disponevano i suoi colleghi russi o cinesi: di mandare in Siberia, o in un campo di rieducazione, coloro che osavano leggere quello che pure era stato proibito di leggere.

Si sa che le proibizioni producono, generalmente, l'effetto opposto. Certo, per i marxisti che si volevano "ortodossi", un tale concetto descriverebbe solamente un epifenomeno. "Secondo Jacques Bidet, la nozione di feticismo della merce si accontenta di descrivere la discrepanza esistente fra la rappresentazione spontanea degli agenti e le relazioni reali", scrive Antoine Artous, che ricorda anche che il Dizionario Critico del Marxismo, pubblicato nel 1982, dedica solo pochissimo spazio alla nozione di feticismo. Nonostante quest'assedio, il termine conosce una diffusione crescente all'interno della critica del capitalismo, almeno nelle sue forme più riflessive.

Se attualmente i riferimenti al termine "feticismo" si trovano più di frequente, essi non sono tuttavia accompagnati da un approfondimento. Così come il termine "società dello spettacolo", il "feticismo della merce" sembra riassumere a basso costo le caratteristiche di un capitalismo post-moderno che si suppone rivolto essenzialmente al consumo, alla pubblicità e alla manipolazione dei desideri. Un certo uso della parola, influenzato principalmente dal suo utilizzo in psicoanalisi, vede solamente un amore eccessivo per le merci e un'adesione ai valori che esse rappresentano (velocità, successo, bellezza).

Naturalmente, gli intellettuali marxisti non cadono in questo genere di trappole. Ma quasi tutti condividono una concezione del feticismo della merce che è ugualmente molto riduttivo. Secondo l'opinione prevalente, Marx designava con questo termine una "ideologia spontanea" che essenzialmente aveva l'obiettivo di nascondere il fatto che il plusvalore abbia la sua origine esclusivamente nel lavoro non retribuito dell'operaio. In questo modo, il feticismo costituirebbe un'esca o una mistificazione e parteciperebbe dell'auto-giustificazione della società capitalistica. Ma, cos'è esattamente questo concetto in Marx?

A volte Marx ha effettivamente utilizzato il termine feticismo in quel senso. Ed in particolare nel caso di un frammento sulla "formula trinitaria" che Friedrich Engels ha collocato nella parte finale del libro III del Capitale (di cui ha fatto il montaggio), parte nella quale Marx evoca la "personificazione delle forze produttive" ed il "mondo incantato" dove passeggiano il "Signor Capitale" e la "Signora Terra". Tuttavia, il feticismo che è in discussione qui non è davvero la stesso feticismo analizzato nel primo capitolo del Capitale. Si tratta, più precisamente, di due diversi livelli di analisi, che non si contraddicono. L'itinerario seguito nel Capitale porta, in effetti, dall'essenza all'apparenza, dalla critica categoriale all'analisi della superficie empirica, dalle pure categorie alle forme concrete che tali categorie assumevano in quell'epoca. Il caso paradigmatico è il percorso che conduce dal "valore" - categoria non empirica -, attraverso numerose tappe intermedie, fino al "prezzo di mercato", che costituisce l'unico livello immediatamente percettibile da parte degli attori economici, ed è oggetto quasi esclusivo della scienza economica borghese. Allo stesso modo, i due maggiori sviluppi di Marx sul feticismo (5) corrispondono, uno all'essenza, e l'altro, alla forma fenomenica. Dopo la lunga e meticolosa descrizione delle relazioni che intercorrono fra il tessuto ed il cappotto, fra il caffè e l'oro - e che già contengono "in germe", come egli stesso dice, tutta la critica del capitalismo! -, prima di introdurre, all'inizio del secondo capitolo, gli esseri umani in quanto "guardie" delle merci che "non potrebbero andare da sé sole al mercato" (6), Marx intercala, facendo un'apparente digressione, il capitolo sul carattere feticista delle merci. Ma il posto stesso del feticismo della merce nell'ingegnosa architettura dell'opera di Marx, suggerisce che questo capitolo sia il cuore di tutta la sua critica del capitale: se l'analisi della doppia natura della merce e della doppia natura del lavoro costituisce, per dirlo con le parole di Marx, il "pivot" (Springpunkt) della sua analisi (7), il capitolo sul feticismo fa parte di quel nucleo. Il feticismo non è un fenomeno che appartiene solo alla sfera della coscienza, non è limitato all'idea di quello che gli attori sociali fanno delle loro proprie azioni - in questa fase iniziale della sua analisi, Marx non si preoccupa di sapere come i soggetti percepiscono le categorie di base, e come reagiscono ad esse. Il feticismo, perciò, fa parte della realtà di base del capitalismo; è la conseguenza diretta ed inevitabile dell'esistenza della merce e del valore, del lavoro astratto e del denaro. La teoria de feticismo è identica alla teoria del valore, perché il valore, così come la merce, il lavoro astratto ed il denaro sono, esse stesse, categorie feticiste.

Perché il feticismo è un fenomeno reale? La società nella quale i prodotti del lavoro assumono la forma mercantile è "una formazione sociale dov'è il processo sociale a dominare gli uomini, e non l'inverso". Come abbiamo finito di dire, il sotto-capitolo sul feticismo non è una semplice appendice: Marx tira le conclusioni della sua precedente analisi della forma valore. In esso, le categorie di base sono già descritte come feticci, anche se la parola "feticismo" lì non compare. Bisogna sempre ricordarlo: Marx non "definisce" tali categorie come presupposti neutri, come faceva Ricardo, e come faranno i marxisti posteriori (8). Egli denuncia, fin dall'inizio dell'analisi, il suo carattere negativo e distruttivo - non aggiungendo un giudizio "morale" ad uno sviluppo "scientifico, ma sottolineando la negatività della propria analisi. Pone in rilievo un'inversione costante tra quello che dovrebbe essere l'elemento primario e quello che dovrebbe essere il derivato, fra l'astratto e il concreto. La prima particolarità della "forma-equivalente", apparentemente tanto innocente ("20 braccia di tessuto valgono due cappotti"), è la seguente: in essa, il valore d'uso diventa la "forma fenomenica" del suo contrario, il valore. Lo stesso in seguito avviene con il lavoro: "C'è, dunque, una seconda caratteristica della forma-equivalente: il lavoro concreto diventa la forma fenomenica del suo contrario, del lavoro umano astratto". E infine "c'è, quindi, una terza caratteristica della forma-equivalente: il lavoro privato diventa la forma del suo contrario, diventa lavoro sotto una forma immediatamente sociale". In altri termini: la forma valore universale si "esprime così che, all'interno di questo mondo delle merci, è il carattere universalmente umano del lavoro che costituisce il suo carattere specificamente sociale".

Ci troviamo davanti al cuore del problema: laddove gli individui si incontrano solo in quanto produttori separati che devono ridurre i loro prodotti ad una misura comune - che li priva di ogni qualità intrinseca - per poterli scambiare e formare una società, il valore, il lavoro umano astratto ed il lavoro "universalmente umano" (cioè, non specifico, non sociale, il puro dispendio di energia senza relazione alcuna con i suoi contenuti e con le sue conseguenze) ammazzano il valore d'uso, il lavoro concreto ed il lavoro privato. Gli uomini, pur continuando ad eseguire lavori concreti e privati, devono constatare che l'altra "natura" di questi stessi lavori, il lavoro astratto, è l'unico che conti dal momento che hanno voluto scambiarlo contro qualcosa di diverso. Per esempio, i contadini che lavorano per un giorno intero per raccogliere il loro grano, come hanno sempre fatto, possono constatare sul mercato che la loro giornata di lavoro concreto e privato improvvisamente "vale" solo due ore di lavoro, perché l'importazione di grano, proveniente da paesi dove questo tipo di lavoro è più "produttivo", ha stabilito un nuovo standard - e, così, il lato "astratto" diviene terribilmente reale per quei contadini che cadono in miseria.

In questa fase della dimostrazione - pertanto, nell'analisi della forma valore -, ancora non sono in questione né il capitale ed il salario, né la forza lavoro e la proprietà dei mezzi di produzione. Assumendo implicitamente la loro esistenza (perché l'ordine logico dell'esposizione non coincide con l'ordine storico, ed il mercato, essendo la "cellula germinale" del capitale, esiste solo nella sua forma completa in un regime capitalista), Marx, sul piano logico, ha dedotto dalle categorie anonime merce e lavoro astratto, valore e denaro.

Al suo livello più profondo, il capitalismo non è, pertanto, il dominio di una classe sull'altra, ma il fatto, sottolineato dal concetto di feticismo della merce, per cui tutta la società è dominata dalle astrazioni reali anonime. Ci sono gruppi sociali che amministrano un tale processo, e da questo traggono benefici - tuttavia, chiamarli "classi dominanti" significherebbe prendere le apparenze per "denaro contante". Marx non dice una cosa diversa da questa, quando definisce il valore del "soggetto automatico" (9) del capitalismo.

 

Feticismo, alienazione e reificazione: ricostruire una continuità teorica

Nell'ambito del marxismo critico, la tematica del feticismo è stata a volte considerata come una sorta di alternativa a quella dell'alienazione. Due autori francesi che hanno lavorato con maggior serietà sul concetto di feticismo, Jean-Marie Vincent ed Antoine Artous, insistono su questo punto: mentre il concetto di alienazione rimarrebbe pietrificato nelle aporie che caratterizzano ogni filosofia del soggetto e cadrebbe nell'antropologizzazione e nell'ontologizzazione della dialettica del soggetto e dell'oggetto, il concetto di feticismo analizzerebbe le relazioni sociali che si creano effettivamente nella società capitalistica.

Entrambi gli autori sottolineano giustamente che il concetto marxiano di feticismo non è vincolato ad una dialettica del soggetto e dell'oggetto, né ad un occultamento delle "vere relazioni di produzione, ma, riflette piuttosto la realtà del lavoro astratto. Tuttavia, anche ammettendo che il feticismo non è una semplice illusione, Antoine Artous lo definisce come una delle "rappresentazioni" che accompagnano e strutturano la relazione sociale. Per comprendere che il feticismo è una "inversione reale" bisogna in primo luogo rendersi conto che il lavoro astratto non è un'astrazione nominale, né una convenzione che nasce (seppure inconsciamente) nello scambio: esso è la riduzione effettiva di tutte le attività ad un semplice dispendio di energie. Una tale riduzione è "effettiva" nella misura in cui le attività particolari - così come gli individui che le realizzano - diventano sociali solo in quanto ridotte a questa astrazione. Se l'attenzione verso il feticismo è andata incontro a qualche progresso negli ultimi anni, la tematica del lavoro astratto - il "cuore di tenebra" del modo di produzione capitalista - e la critica dell'ontologizzazione del lavoro sono al contrario rimaste come se fossero un continente tutto da scoprire. Quando la categoria del feticismo viene compresa solamente come una mistificazione delle "relazioni reali" di sfruttamento, la (pseudo)critica del feticismo arriva perfino ad essere espressa, in maniera assurda, in nome del "lavoro". che il feticismo "occulterebbe" - mentre, nella realtà, nessuna superazione del feticismo è possibile senza abolire praticamente il lavoro come principio di sintesi sociale.

Ma se il feticismo consistesse di fatto in questa inversione reale, non sarebbe così differente dall'alienazione di cui parlava Marx nei suoi primi testi. Inversamente, argomenti come quelli di Jean-Marie Vincent ed Antoine Artous reintroducono curiosamente la "cesura epistemologica" - che, tuttavia, tali autori giustamente rifiutano nella sua forma althusseriana - tra un giovane Marx, filosofo umanista, ed un Marx della maturità, convertito alla scienza. Nondimeno, essi tagliano quasi ogni legame tra il feticismo e la critica della religione nel giovane Marx - anche se, fin dall'origine il termine "feticismo", così come la sua presenza nella prima pubblicazione di Marx, testimonia di una tale continuità. Antoine Artous assicura che la merce, diversamente da un dio, è "reale". Nel dire questo, però, dimentica che la merce è "reale" solo in quanto valore d'uso. Il fatto di attribuirle un "valore", cioè, di considerarla secondo il lavoro (passato, assente) che è stato necessario per la sua produzione - sebbene il lavoro passato non ci sia più - e, soprattutto, di considerarla non secondo il lavoro che è stato speso realmente ed individualmente, ma in quanto parte del lavoro sociale globale (il lavoro socialmente necessario per la sua produzione), la fa risultare una "proiezione", non meno di quanto avviene nella religione. Il prodotto diventa merce solo perché vi si rappresenta una relazione sociale - e tale relazione sociale è altrettanto "fantasmagorica" (nel senso di non far parte della natura delle cose) del fatto religioso.

Naturalmente, la merce non occupa esattamente lo stesso posto di Dio, nella vita sociale. Ma Marx suggerisce - ed è per questo che si può parlare di una continuità propriamente concettuale fra la nozione di alienazione e quella di feticismo, in Marx - che il feticismo della merce è la continuazione sotto altre forme del feticismo sociale, come il feticismo religioso. Il "disincantamento del mondo", o la "secolarizzazione", non hanno avuto realmente luogo: la metafisica non è scomparsa con i Lumi, ma è discesa dal Cielo e si è mischiata alla realtà terrena. E' quello che dice Marx, quando definisce la merce come un "essere sensibile-sovrasensibile".

Le tre inversioni che Marx descrive nella sua analisi della forma valore sono inversioni tra il concreto e l'astratto. Quello che dovrebbe venire per primo, il lavoro concreto, il valore d'uso, diventa un derivato di quello che dovrebbe essere il derivato dal concreto: il lavoro astratto. In termini filosofici, sarebbe possibile parlare di un'inversione fra sostanza ed accidente. La descrizione dell'alienazione, che Marx ci offre nei Manoscritti del 1844, non appare, pertanto, come un approccio fondamentalmente differente dalla concettualizzazione del feticismo, ma come una sua prima approssimazione, un approccio ancora limitato, che già diceva, implicitamente, l'essenziale: lo spossessamento dell'uomo da parte del lavoro astratto che diventa il principio della sintesi sociale.

Malgrado l'importanza della tematica marxiana del "lavoro astratto" nella teoria lukacsiana della reificazione, bisogna sottolineare che la sua ripresa in Storia e Coscienza di Classe rappresenta dei seri problemi. Anche nel corso della sua prefazione, nella riedizione del 1967, nella quale evidenzia la debolezza della sua opera scritta quarantacinque anni prima, Lukács non si mostra cosciente del fatto che avesse confuso il lavoro astratto con il lavoro razionalizzato, parzializzato, standardizzato. L'importante sviluppo di quest'ultimo nell'epoca di Storia e Coscienza di Classe - frutto dell'applicazione della scienza e della tecnologia, nella produzione capitalista, di cui la catena di montaggio è stata l'espressione più spettacolare - costituiva effettivamente una conseguenza della penetrazione della logica mercantile nelle società. Ma il lavoro astratto di cui parla Marx, in quanto "forma sociale", non ha niente a che vedere con il contenuto del lavoro, né con i suoi procedimenti tecnici. Ogni lavoro produttore di merci è, allo stesso tempo, concreto ed astratto: il lavoro alla catena di montaggio non sarà "più astratto" del lavoro di un artigiano, se quest'ultimo viene inserito nella produzione capitalista. Sarebbe più chiaro, infatti, parlare di "lato" concreto e di "lato" astratto dello stesso lavoro, per evitare il malinteso secondo cui sarebbero due lavori differenti.

La fusione operata da Lukács, in Storia e Coscienza di Classe, fra il concetto marxiano di lavoro astratto, il concetto weberiano di razionalizzazione ed i dati empirici riguardanti la trasformazione della grande industria nella sua epoca, in un certo qual modo, è stata geniale. Permetteva di connettere differenti livelli di analisi, ed è nota l'influenza che un tale approccio ha esercitato, per quasi un secolo, con un picco negli anni 1960. Ma costatarne la sua importanza ed il suo ruolo innovativo non dovrebbe far dimenticare che, oggi, l'analisi del lavoro astratto deve liberarsi in parte di questa influenza, per poter distinguere rigorosamente tra la doppia natura di tutto il lavoro nel capitalismo (e che, in quanto tale, non è soggetto a mutamento a causa della nuova divisione del lavoro), da un lato, e, dall'altro lato, l'evoluzione concreta delle forme di lavoro. Tale evoluzione - l'industrializzazione del lavoro - deriva, in ultima analisi, dalla doppia natura del lavoro, ma non è immediatamente identica ad essa.

La "critica del valore" (Wertkritik) ha situato la critica del feticismo delle merci al centro del suo approccio teorico. Essa è, anche, una critica dell'alienazione, sebbene questa parola sia praticamente assente negli scritti di Robert Kurz. Moishe Postone, in compenso, scrive che il suo "approccio reinterpreta il concetto di alienazione di Marx in relazione alla sua critica del lavoro sotto il capitalismo - pone questo concetto reinterpretato dell'alienazione nel cuore della sua critica del capitalismo". Egli rifiuta, tuttavia, una lettura del superamento dell'alienazione come auto-realizzazione di un soggetto del quale si presuppone l'esistenza e che, per la sua essenza, si pone fuori dal capitalismo; considerando che, in realtà, tale soggetto non è altro che il "soggetto automatico" sostituito dal lavoro astratto. Nella sua prospettiva, bisogna innanzitutto: "abolire il Soggetto che si muove e che fonda sé stesso (il capitale) e la forma di lavoro che costituisce ed è costituita dalle strutture di alienazione; questo permetterebbe all'umanità di appropriarsi di quello che è stato creato sotto forma alienata" (Postone, 2009). Per Postone, è evidente che, "in Marx, il concetto di feticismo è legato in maniera centrale alla sua teoria dell'alienazione, in quanto costituzione sociale" (id.). E' essenziale, per Postone, che Marx abbia superato la sua concezione iniziale di alienazione come alienazione di un soggetto presupposto che esisterebbe indipendentemente dalla sua costituzione capitalista, che sarebbe costituito dal lavoro - in quanto categoria a-temporale - e che dovrebbe riappropriarsi delle oggettività delle quali avrebbe perso il controllo. Il Marx della maturità, al contrario, sarebbe arrivato alla conclusione che, nel capitalismo, il soggetto e l'oggetto, fin dall'inizio, si sviluppano in forme alienate. Non vi è essenza originaria da riconquistare, o da far trionfare, e, soprattutto non vi è essenza costituita da un lavoro trans-storico. La vera "cesura" nell'evoluzione delle idee di Marx avviene, piuttosto, nel riconoscere un'alienazione nello stesso lavoro astratto, e non solo nello sfruttamento del lavoro vivo. Quest'ultima cosa costituisce, piuttosto, una conseguenza:

"Se il punto di partenza è un concetto trans-storico di 'lavoro', la differenza tra alienazione ed oggettivazione si fonda necessariamente su fattori esterni all'attività oggettivante - per esempio, nelle relazioni di proprietà [...]. Negli scritti di Marx della maturità, al contrario, l'alienazione si radica nel doppio carattere del lavoro determinato dalla merce e, in quanto tale, è inerente alla stessa natura di questo lavoro [...]. Marx mostra, in primo luogo, che l'oggettivazione è effettivamente l'alienazione - poiché ciò che il lavoro oggettivizza, sono le relazioni sociali" (Postone, id.).

Così, Postone inverte la distinzione stabilita da Lukács nella sua autocritica, già menzionata, del 1967. In questa, il filosofo ungherese afferma che non avrebbe senso criticare l'oggettivazione in quanto tale, poiché anche così si evocherebbe un soggetto-oggetto identico, ponendo l'ideale di un soggetto che dovrebbe contenere in sé tutti gli oggetti, come nell'idealismo hegeliano. AL contrario, la distinzione fra oggettivazione ed alienazione che mancava nel suo libro del 1923, continua Lukács, era ben presente nei Manoscritti del 1844. In u certo senso, Postone dà ragione al Lukács del 1923: in un regime capitalista, dove il lavoro svolge il ruolo di mediazione sociale universale, ogni oggettivazione dell'attività umana nel lavoro, costituisce effettivamente un'alienazione. Forme di oggettivazione non alienanti, pertanto, possono costituirsi, ma solamente in una società post-capitalista, dove il lavoro non sarebbe più una mediazione sociale. Moishe Postone arriva a questa conclusione perché rifiuta lo statuto ontologico e trans-storico del lavoro. Lukács, dal canto suo, non avrebbe mai accettato quest'analisi del lavoro, né nel 1923, né nel 1967. Un'ulteriore prova è data dal fatto che anche i marxisti più critici e più dialettici di questo periodo rimanevano prigionieri di un'ontologia del lavoro, e, di conseguenza, non era per loro possibile cogliere il nocciolo delle categorie di feticismo e di alienazione. C'è stato bisogno di aspettare la crisi reale e visibile della società del lavoro - una crisi che si è sviluppata in maniera durevole a partire dagli anni 1970 - per poter arrivare ad una comprensione teorica del lavoro astratto, e, quindi, in ultima analisi, del feticismo della merce.


(1) - E' bene ricordare che i Manoscritti del 1844 e l'Ideologia Tedesca vennero pubblicati nel 1932, e i Grundrisse nel 1939.

(2) - Permettendo di criticare, ugualmente, la realtà sociale in Unione Sovietica: al di là della questione di sapere se si trattasse di uno "Stato operaio" o meno, e in ogni caso, era facile dimostrare che la società sovietica non fosse sprovvista di "alienazioni".
(3) - Nel 1947, nella sua "Lettera sull'umanismo", Heidegger (non opportunista, in quel momento) affermava che la filosofia marxiana della storia è la "più profonda", perché basata sul concetto di alienazione, che a lui piaceva legare al suo concetto di "oblio dell'essere". E' così che Lucien Goldmann ed altri cercarono di dimostrare che l'autore di Essere e Tempo avrebbe sofferto l'influenza di Storia e Coscienza di Classe. Ammesso che sia vero, si può tranquillamente dubitare dell'interesse della cosa.
(4) - Inoltre, non c'era unanimità intorno al concetto di alienazione. I marxisti più "ortodossi" ci vedevano solo un diversivo rispetto alla lotta di classe, un problema piccolo borghese, un chiacchierio o un pretesto per distogliersi dalla lotta sociale e limitarsi a lamentare il "dominio delle cose sugli uomini". Altri continuavano a non capire il termine: nell'opera di un marxista italiano - che, per colmo d'ironia, si chiamava Armando Plebe e che in seguito passò all'estrema destra - l'affermazione secondo cui il problema principale sarebbe "l'alienazione del proletariato" era stata alterata - il tipografo, senza dubbio, aveva accreditato un errore - rispetto all'affermazione per cui il problema principale era la "alimentazione del proletariato".
(5) - Bisogna aggiungere altre occorrenze della parola feticismo in quasi tutte le opere di critica dell'economia politica di Marx, senza contare i passaggi nei quali il feticismo è in questione senza che la parola compaia esplicitamente. E' giocoforza ammettere che tutte le considerazioni marxiane sul feticismo sono frammentarie e difficili da comprendere, tanto a causa del ricorso alle metafore quanto dovuto alla difficoltà effettiva a descrivere un fenomeno che, prima di Marx, nessuno si era avventurato ad esplorare.
(6) - Sarebbe possibile affermare che tutta la problematica del feticismo si ritrova in quella frase ironica sul fatto che gli uomini entrano in scena solo per servire le merci, le quali sono i veri attori di questo processo.
(7) - "Sono stato il primo a sottolineare, in maniera critica, questa natura bifida del lavoro contenuto nella merce. Dato che è intorno a questo punto che gira tutta la comprensione dell'economia politica, conviene, qui, chiarirlo un po' di più" (Karl Mark).
(8) - Sovente, sono qualificati, giustamente, come "socialisti ricardiani": accettando, in effetti, la concezione ricardiana del "valore-lavoro" e di un'eterna "legge del valore", che si tratterebbe semplicemente di "applicare", secondo principi di giustizia sociale.
(9) - "Il valore si presenta come soggetto" (Marx, Grundrisse).

 

fonte: Limiar

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