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contraddizione

Polarizzazione e disuguaglianza*

Rapporti di produzione e distribuzione del reddito

Francesco Schettino

09984L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria,  tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.
Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale.
[K.Marx, Il Capitale, i, 23]

Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata.
Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive,  capacità produttiva e sviluppo dei loro fattori dall’altro.
Subentra allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale.
[K.Marx, Il Capitale, iii, 51]

Se si potessero elencare i fenomeni maggiormente percepiti dall’intera popolazione lavoratrice come emblematici della crisi esplosa alla fine del 2007 – e i cui effetti sono ben lungi dall’essere assorbiti – di certo in testa a tale speciale graduatoria verrebbe posta la disoccupazione, a cui seguirebbe, come conseguenza più immediata, l’indigenza (assoluta o relativa).

Che immense masse di lavoratori siano state “liberate”, ossia poste sul lastrico in tutto il mondo, con poche eccezioni, è ormai una realtà talmente lampante che solo pochi – ancorati alle pie illusioni vendute da economisti/giornalisti/opinionisti, tutti a servizio della classe dominante – hanno la indecenza di negare o, al più, addebitarla a fattori contingenti e non strutturali e di lunga durata. Alla stessa maniera, che quantità crescenti di individui e famiglie residenti in nazioni a capitalismo avanzato stiano scivolando al di sotto della soglia di povertà non è più un fenomeno che riguarda solo sinistri ricercatori socio-economici e i loro periodici bollettini, ma è un aspetto emerso con una veemenza tale da essere ormai entrato nel calcolo delle probabilità di ogni appartenente alla classe lavoratrice, assumendo un valore sempre più prossimo a quello unitario.

Pertanto, al sesto anno compiuto, a partire dal crollo pilotato di Lehman Brothers, si può sostenere, senza alcun timore di venir smentiti, che i fatti continuano ad avere la testa drammaticamente più dura delle parole dei venditori di fumo; e, pertanto, quelli che statisticamente vengono ricondotti in maniera sintetica in termini numerici – i cosiddetti dati – mostrano senza esito come lo stato di salute del capitale mondiale sia peggiorato in maniera drastica e come l’impas­se generalizzata di certo non possa venir smossa dalle pratiche illusionistiche [cfr. altrove in questo numero] poste in atto dai governanti di turno. Le intermittenti apparenze di timida crescita statunitense restano pesantemente ancorate alle generose iniezioni di liquidità della federal reserve [fed], peraltro in via di esaurimento (questione che, secondo molti analisti, potrebbe aggiungere tensione alla debole economia Usa); inoltre, i primi segnali di rallentamento, per quanto relativo, del gigante cinese, il default argentino [si veda altrove più avanti], insieme alla dimensione sempre più esplosiva della bolla speculativa, di certo non permettono di scorgere in fondo al tunnel altro se non un buio non meno livido di quello già osservato dalla fine del 2008 in poi. Non da ultimi, i dati macroeconomici tedeschi mostrano come anche lo stato-locomotiva dell’intero continente europeo sia entrato in fase recessiva smentendo, così in maniera inoppugnabile, chi reputava che i successi germanici e le débacle dei piigs fossero figli della semplice adozione della valuta unica [cfr. no.147], trascurando così del tutto la natura e l’estensione della crisi del capitale.

L’applicazione alla lettera – praticamente a livello planetario – di una politica industriale che, in un paradosso solo apparente, sembra aver seguito pedissequamente le indicazioni di Marx per stimolare le “influenze antagonistiche che contrastano o neutralizzano l’azione della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza” [C, iii.14], ha dimostrato ancora una volta, come se purtroppo ce ne fosse bisogno, che la classe dominante ha sviluppato in maniera definitiva la coscienza per sé, cosa del tutto latitante in quella subordinata. Ha compreso, purtroppo, con puntualità di dover tentare, nonostante la conflittualità interna alla classe, di attutire gli effetti della crisi agendo compatta, come classe, su quella subalterna: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro ottenuto attraverso la destrutturazione normativa dei contratti di lavoro [si veda anche altrove in questo numero], incrementando l’intensità dell’attività, o prolungando la giornata lavorativa – senza ovviamente provvedere a innalzamento salariale almeno proporzionale – è di gran lunga l’arma più utilizzata a livello mondiale. A essa è corrisposta anche la riduzione del salario al di sotto del proprio valore, dovuta principalmente alla aspra concorrenza tra i lavoratori divenuti più precari e meno occupati e per questo costretti a una guerra al ribasso sui livelli retributivi diretti ed indiretti.

Poi, la riduzione del prezzo degli elementi del capitale costante, attraverso l’evoluzione tecnologica dovuta anche alla rapida e violenta emersione di paesi precedentemente esclusi dalla produzione di massa, e soprattutto l’incremento della sovrappopolazione relativa, stimolata ed accelerata dallo sviluppo della produttività del lavoro, che “assume manifestazioni tanto più evidenti quanto più sviluppato è il modo capitalistico di produzione di un paese”, e determina una “diminuzione di costo e dell’aumento di massa degli operai disponibili o licenziati” [ibid.] acquisiscono un ruolo cruciale: conclude l’opera l’incremento del commercio estero – individuabile nell’incalzante processo di mondializzazione – che, riducendo al contempo il prezzo dei macchinari ma, soprattutto, il valore della forza-lavoro, ossia “il prezzo dei mezzi di sussistenza necessari nei quali si converte il capitale variabile”, ha permesso che la caduta del saggio di profitto fosse meno violenta donandole, appunto, un andamento tendenziale.

Tuttavia, sebbene questi artifizi siano stati, almeno parzialmente, in grado di arginare una crisi che, tra la fine del 2008 ed i primi mesi del 2009 appariva, anche a molti cosiddetti “addetti ai lavori”, definitiva per il modo di produzione, essi non hanno potuto evitare l’inevitabile, ossia che tra il proletariato, anche nei paesi a capitalismo più avanzato, si verificassero condizioni di disagio diffuso che hanno riportato molte statistiche indietro di almeno 60 anni, o in taluni casi anche di più. La disoccupazione è ormai divenuta un fenomeno di massa in molti paesi del sud europeo – l’Italia ha raggiunto per quella giovanile un valore prossimo al 45% con punte del 60% nel meridione –, mentre la povertà, come ricordavamo già al principio, è emersa in tutta la sua drammaticità, facendo piombare molte famiglie, o pure individui, in una condizione non molto dissimile da quella sopportata nei periodi precedenti e successivi agli episodi bellici del secolo passato. Ma, dunque, se disoccupazione e povertà hanno delineato in maniera evidente una gran parte dei decenni del secolo scorso – e quasi la totalità del secolo xix –, ciò che appare come relativa novità è l’incremento della disuguaglianza anche nei paesi occidentali storicamente abituati a una distribuzione di reddito e proprietà meno sbilanciata. È divenuto un fenomeno ormai evidente che la polarizzazione di classe, ossia la distanza incrementale tra la gran parte dei salariati (lavoratori e non) e la classe che percepisce i profitti (e tra essi vanno aggiunti anche alcuni supersalariati, come i manager à la Moretti o Marchionne), a seguito dell’esplo­sione dell’ultima grande crisi, ha raggiunto livelli particolarmente significativi anche in quei paesi in cui dal secondo dopoguerra non si erano verificati fenomeni di estrema disparità come altrove.

 

Disuguaglianza e polarizzazione

È un periodo, questo che viviamo, in cui – principalmente a causa del perdurare della stagnazione che fa molta paura alla classe dominante – anche nei rotocalchi più nazionalpopolari proposti dalla televisione di stato e, ovviamente, da quella privata, si ammette con infida innocenza – addebitando la cosa a un’entità esterna e ingestibile – che la cosiddetta classe media sta lentamente scomparendo lì dove si era formata dopo il secondo conflitto mondiale, generando così fenomeni di disuguaglianza sempre meno occultabili. Se il concetto classe media è tecnicamente privo di senso, poiché quella media è una caratteristica quantitativa di una qualsiasi distribuzione (anche delle patate in un carretto del mercato), mentre il concetto di classe non può che essere di natura qualitativa, l’ossimoro apparente può essere facilmente risolto adeguando la traslitterazione anglofona di middle class con la più corretta definizione, molto cara a Engels, di aristocrazia proletaria. Da questo punto di vista va sottolineato come l’abuso, improprio, di tale terminologia avviene in ovvia e strumentale opposizione all’unica distinzione scientifica che presupporrebbe di suddividere la popolazione in base alla funzione, o alla fonte del proprio reddito (profitti, salari e rendite fondiarie).

Pertanto, declinando nuovamente il ragionamento, il fenomeno a cui si assiste e di cui si discute, ormai anche a livello colloquiale in qualsiasi bar di periferia, è che, quella parte della classe proletaria, spesso animata da ambizioni piccolo-borghe­si, che fino alla fine del secolo scorso riusciva a strappare, senza troppa fatica, salari in grado di garantire una vita pressoché agiata – a scapito del proletariato meno specializzato che, seppur indirettamente, era costretto a sostenerne vizi e comodità (non a caso Engels, riferendosi al caso inglese, parlava di costoro come di quelli a cui lo stato regalava le briciole estorte dal proletariato indiano) – si è improvvisamente destata dal sogno di avvicinarsi al sole del potere del capitale e, in quanto non proprietaria delle condizioni di produzione, come Icaro, ha iniziato un precipitoso ammaraggio nelle torbide acque del proletariato, classe a cui ha sempre appartenuto al di là delle artificiose apparenze.

Senza entrare troppo in dettagli metodologici, per cui si rimanda ai consueti testi universitari di statistica, o anche a dispense disponibili in maniera meno or­ganica sul web, ci sembra però opportuno almeno fornire qualche informazione sugli indici che vengono spesso e volentieri utilizzati anche su quotidiani e riviste non accademiche e che hanno l’ambizione di voler cogliere l’entità dei fenomeni di disuguaglianza o pure della polarizzazione. Per quanto riguarda il primo dei due, senza alcun dubbio, quello di Gini è l’indicatore più diffuso ed utilizzato per descrivere il livello di disparità nella distribuzione del reddito in una determinata nazione, in un certo periodo storico (normalmente un anno). In sintesi, utilizzando i dati sui redditi delle singole famiglie (o degli individui) che vengono raccolti più o meno periodicamente – a seconda della serietà e delle capacità economiche dell’ufficio di statistica governativo – si procede a verificare quale è il livello di disuguaglianza complessivo delle stesse. Il valore del­l’indice varia tra lo zero e l’unità, casi limite che indicano rispettivamente che tutti nuclei familiari hanno un reddito identico e che tutto il reddito è nelle mani di una sola persona con gli altri del tutto nullatenenti.

Ovviamente, trattandosi di casi limite, questi ci occorrono per comprendere in quale ambito ci muoviamo: le nazioni con un indice di Gini più prossimo al­l’unità descrivono società più diseguali rispetto a quelle che mostrano un dato più prossimo allo zero. Chiaramente il confronto può essere declinato anche a livello dinamico nella stessa nazione in maniera tale per cui, se da un anno a un altro – per la verità si cerca di fare confronti su periodi più lunghi per conferire significatività sia statistica che concettuale ai mutamenti della misura – il valore cresce, ciò indica che la cosiddetta distribuzione dei redditi in quel determinato territorio è “peggiorata” ossia è aumentata la disparità tra gli abitanti della nazione presa in considerazione. A livello esemplificativo si può pensare che i paesi con una distribuzione del reddito particolarmente nefasta, come quelli latino americani, per buona parte degli anni ottanta e dei novanta, presentano indici prossimi allo 0,50/0,60, mentre economie più “egualitarie” come quelle del nord Europa (o anche quelle appartenenti all’area di influenza sovietica) superavano di poco lo 0,30 nello stesso periodo {per avere un’idea più ampia, http://en.wi­kipedia.org/wiki/Gini_coef­ficient, oppure si può consultare il datasethttp:// http://www.wider.unu.edu/research­/Data­base­/en_GB/database/}.

Nonostante il coefficiente di Gini venga utilizzato in maniera diffusa sia nelle relazioni governative ufficiali, che dalle istituzioni sovranazionali, a livello accademico e scientifico non sono pochi i ricercatori che a esso preferiscono indici per molti versi più raffinati e in grado di cogliere con superiore precisione gli aspetti della realtà che si tenta di analizzare. Tuttavia, in questa sede, non ci sembra utile discorrere della disputa, quanto, al contrario, è opportuno sottolineare come sia logicamente possibile che il coefficiente di Gini, proprio per come è costruito a livello algebrico, possa avere una dinamica divergente rispetto agli indici di polarizzazione. Questi ultimi riportano la tendenza a disporsi su diversi poli della distribuzione: e più le medie del reddito di singoli gruppi – ipotizziamo, per semplificare, che essi siano due, composti rispettivamente da salariati e capitalisti – sono distanti, tanto più il fenomeno della polarizzazione è elevato; e tale valore può essere anche alimentato (ridotto) da quanta più concentrazione (dispersione) di tali redditi c’è attorno alle rispettive medie. Anche in questo caso, più è alto il valore di questi indici, maggiore è la polarizzazione.

La potenziale divergenza dei due indici (disuguaglianza e polarizzazione) per quanto controintuitiva è un caso plausibile e mostra come affidarsi al solo indice di Gini può indurre ad analisi parziali e potenzialmente errate puntando l’atten­zione unicamente su una parte del problema: ciò è avvenuto per il caso brasiliano dove gli entusiastici encomi alle politiche economiche dei due mandati di Lula, sostenuti da un Gini in evidente riduzione, sono stati posti però in discussione dalla emersione di un fenomeno di potenziale polarizzazione dei redditi (e presumibilmente di classe) sin ora celato da una crescita sostenuta del pil. Sebbene sia giusto chiedersi fino a che punto possano essere rappresentativi indicatori calcolati su dati reddituali ammassati indistintamente, senza tener conto di quei profitti (che sono la gran parte) che si riconvertono in capitale monetario, e poi in quello produttivo, e non nel reddito dell’impren­ditore, tali misure, al pari di quelle più note presentate dagli organi ufficiali (come a esempio il tasso di crescita del pil) sembrano poter fornire un quadro almeno indicativo della situazione.

 

Qualche numero

In contemporanea con l’uscita di questo numero della rivista, sarà finalmente disponibile nelle librerie, edito da Bompiani, il testo di Thomas Piketty – accademico e a lungo consigliere economico di Ségolène Royal – “Il capitale, nel xxi secolo”, volume uscito in lingua originale, francese, quasi un anno fa e divenuto best seller anche nella sua edizione più recente in inglese. In pochi dubitano del fatto che, considerata la centralità che le tesi esposte nel testo hanno assunto nel dibattito economico e politico in giro per il mondo, anche in Italia la sua disseminazione sarà imponente e ciò potrebbe indurre molti militanti del­l’(a)sinistra – dopo le recenti esperienze con i descrescisti di Latouche e gli anti-euro del sedicente social-nazionalista Bagnai, non a caso in campagna elettorale per le europee con Giorgia Meloni [http://y2u.be/­yBhX1­Vn5xLw] – a trovare negli scritti dell’econo­mista francese una nuova bandiera da sventolare per guidare le proprie scelte politiche.

Il titolo del testo, evidentemente molto ambizioso evoca provocatoriamente, in maniera esplicita, l’opera più importante di Marx: la grafica della copertina della versione anglofona – copiata esattamente nell’edizione italiana e in quella portoghese –, a differenza di quella francese in cui il titolo è continuo, non fa altro che affermare tale legame, presentando “il capitale” scritto con caratteri maiuscoli, di colore rosso, mentre “nel xxi secolo” è inserito in corsivo, con un corpo del font estremamente più contenuto, alla stregua di un vero e proprio sottotitolo. Dunque, almeno in apparenza, sembrerebbe di trovarsi dinanzi a un migliaio di pagine che dovrebbero rappresentare un presunto aggiornamento dell’omo­nima opera di Marx per il secolo corrente, ammesso – ma non concesso – che ce ne fosse stata la necessità. Tuttavia, sebbene anche l’autore, ammetta una relazionalità, per quanto indiretta, con il capolavoro del barbuto di Treviri, analizzando attentamente il testo, viene da pensare che, tutto sommato, la scelta della denominazione sia stata ispirata prevalentemente da una strategia di marketing, peraltro ben riuscita. Senza volere, in questa sede, proporre una recensione (in rete se ne trovano a centinaia in numerose lingue), è opportuno però mettere in guardia chi volesse approcciarvici, premettendo che si tratta di un testo non marxista (o non marxesco che dir si voglia). Per quanto la tematica della disuguaglianza e della polarizzazione – come spiegato in questo stesso articolo – sia di centrale importanza nell’analisi di Marx e nello sviluppo del modo di produzione attuale, sembra che il legame che l’autore identifica con il tedesco sia spesso forzato, presumibilmente spinto più da un’apparte­nenza politica “sentimentale” che non da un’analisi scientifica che effettivamente li accomuna. Il fatto stesso che con capitale non venga individuato altro che una “sem­plice” somma tra patrimoni e redditi – e dunque men che mai un rapporto sociale – e che sia proposta una concezione del profitto del tutto slegata dal plusvalore, ossia dallo sfruttamento capitalistico, e neppure facendo mai riferimento – in quasi mille pagine – al concetto di valore, ciò inevitabilmente spinge l’economi­sta francese a una dissertazione teorica nei fatti estranea a quella di Marx.

Tuttavia, sebbene dal punto di vista teorico, il testo presenti numerose falle, oltre a quelle a cui si è fatto appena accenno, tipiche del keynesismo, il lavoro di elaborazione dei dati presentato è effettivamente di rilievo e, in quanto tale, permette alcune riflessioni di innegabile importanza. Ciò che lui considera come il cuore della propria analisi, in quanto evidenza emersa inconfutabilmente, è che il sistema tende a creare condizioni di disuguaglianza crescente e di divergenza, senza che sia in grado di sviluppare spontaneamente delle forze capaci di invertire questa tendenza. Il fatto, poi che lui proponga l’intervento dello stato come necessità per agire in questo senso, è cosa del tutto coerente con l’impian­to teorico keynesiano di cui si discuteva in precedenza. Ma, tralasciando, per ora, le considerazioni di natura politica, è significativo mostrare come i suoi risultati siano del tutto coerenti con quanto indicato da Marx nel i libro del Capitale, ossia che lo sviluppo del capitalismo avrebbe condotto naturalmente a una “accumulazione di miseria proporzionale all’accumulazione di capitale”.

I fenomeni distributivi, come già accennato in precedenza, possono essere osservati sotto diversi punti di vista. Normalmente si utilizza una documentazione proveniente da un numero limitato – ma statisticamente significativo – di famiglie, o singoli individui, che l’ufficio statistico invita a indicare il proprio reddito lordo (di norma mensile o annuale) o anche – specie in luoghi in cui l’e­conomia informale è più diffusa – il consumo complessivo suddiviso per tipologia (alimentare, farmaceutica, scolastica ecc.). Se a livello quantitativo il problema rimane quello della veridicità e dell’omogeneità delle dichiarazioni rilasciate dalle singole unità statistiche intervistate, dal punto di vista qualitativo, emerge la difficoltà di riuscire a dare una chiara evidenza dei profitti, in tutte le proprie declinazioni. Se è vero che alcune di queste raccolte dati sono così raffinate da riportare se il reddito indicato è da lavoro o da capitale, ciò non supera l’impos­sibilità di aver contezza dei profitti d’impresa, che per definizione si trasformano nuovamente in capitale, e che quindi sono cosa distinta sia dal reddito dell’imprendi­tore che dai dividendi che provengono dal “semplice” possesso di quote azionarie (che invece possono esser tenuti in considerazione). Questo insolubile problema statistico, derivato appunto dalla natura stessa dei dati, deve essere tenuto sempre a mente perché, inevitabilmente, va a inficiare i risultati che si ottengono in termini di “distribuzione funzionale” per cui i livelli di disuguaglianza e polarizzazione vengono di fatto sottostimati. Il testo di Piketty ha comunque l’intui­zione di cogliere questa inevitabile distorsione e, probabilmente anche per questa ragione, propone una tripartizione nella lettura della disuguaglianza complessiva in modo da osservare il fenomeno da prospettive differenti: disuguaglianza nei redditi da lavoro (salari diretti e differiti), nella proprietà del “capital” – per lui sinonimo di wealth e che comprende oltre alle macchine, anche infrastrutture, costruzioni, terra e risorse naturali; ed infine le interazioni tra i due.

Come è prevedibile, i processi di concentrazione e di centralizzazione del capitale, cresciuti sensibilmente dal 1970, hanno traghettato la disuguaglianza in termini di proprietà patrimoniale (e dunque non solamente delle condizioni oggettive di produzione) a livelli superiori rispetto a quelli individuabili nella distribuzione dei redditi da lavoro, nonostante la crescita e l’affermazione dei mostruosi salari dei supermanagers in stile Marchionne. Al 2010, infatti, se il 10% dei salariati più ricchi ottiene il 25% della massa salariale corrisposta in Europa, lo stesso decile della distribuzione ottiene il 35% del totale negli Usa, valore che dovrebbe giungere al 45% nel giro di meno di un ventennio. E tutto ciò viene calcolato non comprendendo chi viene liberato dal lavoro che, percependo salario nullo, non viene incluso nelle elaborazioni numeriche. Quindi, esprimendo il tutto in termini dell’indice di Gini, si osserva come nel 2010 la disuguaglianza tra i lavoratori europei fosse sufficientemente bassa (0,26), mentre quella statunitense già raggiungeva livelli più sostenuti (0,36) puntando per il 2030 a un pesantissimo 0,46, qualora non ci sia una decisa inversione di rotta.

Per quanto riguarda, invece la distribuzione della proprietà patrimoniale (e dei redditi che ne derivano) che, appunto, oltre alle condizioni oggettive della produzione include immobili, terra ecc., la situazione è ben diversa. Se nei paesi storicamente con un basso livello di disparità, come quelli scandinavi degli anni 70-80, il 10% dei proprietari più ricchi detiene il 50% del patrimonio complessivo, in Europa tale coefficiente sale a 60%, mentre negli Usa addirittura al 70%. I corrispondenti indici di Gini raggiungono lo 0,58 (+0,29 rispetto all’in­dice calcolato sui soli redditi da lavoro), 0,67 (+0,41) e 0,73 (+0,37). È chiaro che incrociando dunque i dati, ossia effettuando il calcolo della disuguaglianza sui redditi complessivi, ossia di lavoro e “capitale” i risultati mostrano una disparità nettamente più pronunciata rispetto a quella dei soli redditi da lavoro, mostrando così come la struttura delle condizioni di proprietà (produzione) siano fondamentali nella determinazione della disuguaglianza complessiva.

L’analisi statistica, che è estremamente più ricca di evidenze che siamo necessari costretti a tralasciare per ragioni di spazio, trascina l’autore su un altro piano estremamente scivoloso ossia quello di dare una definizione di “classe” da un punto di vista quantitativo e non, come dovrebbe altrimenti essere, qualitativo in quanto rispecchia una funzionalità sociale. Ad esempio, che l’1% dei proprietari più ricchi apparterrà probabilmente alla classe capitalista è abbastanza ovvio: ma definire questa parte della popolazione come “dominante” senza esplicitare il vincolo di dominio sulla classe subalterna in base alla proprietà dei mezzi di produzione è un errore insanabile. Ancor più insensato sembra definire così anche l’1% più ricco tra i lavoratori in quanto non è affatto chiaro su chi e come esercitino il loro potere di dominio. La conseguenza più ovvia di un discorso del genere è porre, dunque, come fa Piketty, il discorso della conflittualità su un piano della “lotta di percentile” (centile struggle) come aggiornamento della più nota “lotta di classe” (class strugle): ma ciò, a differenza di quello che sostiene l’economista francese, non determina unicamente una “perdita di fascino” della stessa ma semplicemente un errore macroscopico che non è solo di natura statistica ma assume rilevanti connotati economici e politici.

 

Come centrare la questione

Come abbiamo già tentato di mostrare nel paragrafo precedente, dunque, è importante scindere in maniera netta ciò che è il legame – come visto, pressoché inesistente, nonostante il roboante titolo – tra l’impianto teorico e le conclusioni adottati nel testo di Piketty con il marxismo e la mole di dati che viene riportata nel testo che, invece, sono di estrema precisione e di innegabile rilievo statistico (e di conseguenza politico). Da questo punto di vista va rilevato come gli attacchi provenienti sia dai settori più reazionari dell’accademia mondiale che dalla stampa statunitense, incentrati quasi esclusivamente su errori numerici sia del tutto pretestuosa giacché sarebbe impensabile non commettere qualche refuso quando si lavora con una quantità di dati straordinariamente ampia come quella utilizzata nel testo. Ma i problemi, da punto di vista marxesco, sono concettuali e, pertanto, di ben altra natura e portata. Al di là dell’errata definizione stessa di capitale, che viene confuso con un’indistinta somma di patrimonio e reddito cosa che, inficia non poco molti aspetti dell’analisi e delle considerazioni conclusive, ciò che è completamente fuori luogo è l’idea, molto keynesiana, che la distribuzione sia un momento successivo e pertanto indipendente dalla produzione, ossia dai rapporti di proprietà. Semplificando, l’idea consiste nel fatto che in un determinato anno venga prodotta una quantità di ricchezza (men che mai valore); questa “torta” viene poi suddivisa in fette che vengono distribuite a seconda dei diversi rapporti (di forza? di produttività marginale?) dei gruppi che partecipano all’ipotetico banchetto con la mediazione dello stato che, per questa ragione assume un ruolo centrale. In sostanza ciò che viene negato nell’analisi di Piketty, così come dalla totalità degli economisti, è la natura del profitto in quanto forma monetaria del plusvalore, entità che, al pari del salario – ossia il valore complessivo della forza-lavoro – viene determinato nella fase, distinta solo logicamente, della produzione di merce. Poi, il ruolo della concorrenza, e di altri fattori attribuibili alla sfera della circolazione, contribuiscono a far sì che plusvalore e profitto della singola impresa o della singola branca non corrispondano sistematicamente innanzitutto per la differente composizione tecnica ed in valore di ogni singolo capitale. Ciò, inevitabilmente, esclude ogni indipendenza concettuale delle due fasi, ridimensionando così in maniera significativa il potenziale ruolo di una entità terza – lo stato per esempio – nell’intervenire in maniera del tutto discrezionale nella presunta fase distributiva senza alterare i rapporti di proprietà e, dunque, di produzione.

Marx, del resto, in uno degli ultimi capitoli del iii libro del Capitale, mette bene in evidenza la questione, che del resto è diretta conseguenza di quanto già scritto nei precedenti volumi: “il valore aggiunto annualmente ex novo, dal lavoro aggiunto ex novo – e quindi anche quella parte del prodotto annuo, in cui questo valore è rappresentato e che può essere estratta dalla produzione complessiva e da essa separata – si suddivide quindi in tre parti. Si tratta quindi di rapporti o forme della distribuzione, poiché esprimono i rapporti in cui il valore complessivo prodotto ex novo è ripartito fra i possessori dei diversi fattori della produzione. Nello studio dei rapporti di distribuzione, si prendono le mosse dalla pretesa constatazione di fatto secondo cui il prodotto annuo si distribuisce come salario, profitto e rendita fondiaria. Ma in tali termini, la constatazione è falsa. Il prodotto si ripartisce da un lato, in capitale, dall’altro in redditi. Uno dei questi redditi, il salario, non assume mai la forma di un reddito, il reddito del lavoratore, se non dopo essersi contrapposto al lavoratore stesso nella forma di capitale. Il contrapporsi delle condizioni di lavoro prodotte e dei prodotti di lavoro in generale, in quanto capitale, ai produttori diretti, include a priori un carattere sociale definito delle condizioni di lavoro materiali rispetto ai lavoratori e con ciò un rapporto determinato, in cui essi entrano nella produzione stessa con i possessori delle condizioni di lavoro e fra loro stessi. Se una parte del prodotto non si trasformasse in capitale, l’altra non assumerebbe le forme di salario, profitto e rendita.

D’altro lato, se il modo di produzione capitalistico presuppone questa forma sociale determinata delle condizioni di produzione, le riproduce anche continuamente. Non riproduce solamente i prodotti materiali, ma riproduce continuamente i rapporti di produzione, nell’ambito dei quali quelli vengono prodotti, e con essi anche i rapporti di distribuzione corrispondenti. Possiamo dire, è vero, che il capitale (e la proprietà fondiaria che esso implica come sua antitesi) presuppone a sua volta una ripartizione, precisamente l’espropriazione degli operai dalle condizioni di lavoro, la concentrazione di queste condizioni in mano di una minoranza di individui, l’esclusiva proprietà della terra da parte di altri individui, in breve tutti quei rapporti che sono stati descritti nella sezione riguardante l’accumulazione originaria.  Ma questa distribuzione è completamente distinta da quella che si intende per rapporti di distribuzione, quando si rivendica a questi, in contrasto con i rapporti di produzione, un carattere storico. Questi vengono intesi come l’insieme dei vari titoli che si riferiscono a quella parte del prodotto che è destinata al consumo individuale. I rapporti di distribuzione, ai quali abbiamo accennato sopra, costituiscono invece fondamenti di specifiche funzioni sociali che nell’ambito dello stesso rapporto di produzione spettano a determinati agenti dello stesso in contrasto ai produttori diretti. Essi danno alle condizioni di produzione stesse ed ai loro rappresentanti una qualità sociale specifica. Essi determinano tutto il carattere e tutto il movimento della produzione.

Il salario presuppone il lavoro salariato, il profitto presuppone il capitale. Queste forme determinate di distribuzione presuppongono quindi determinate caratteristiche sociali delle condizioni della produzione e determinati rapporti sociali fra gli agenti della produzione. Un determinato rapporto di distribuzione è, di conseguenza, solo l’espressione di un rapporto di produzione storicamente determinato [corsivo nostro – ndr]. Prendiamo ora il profitto. Questa forma determinata del plusvalore è il presupposto necessario perché la nuova creazione dei mezzi di produzione si svolga nella forma della produzione capitalistica; quindi un rapporto che domina la riproduzione, quantunque il singolo capitalista abbia l’impressione di potere in fondo consumare il suo intero profitto come rendita. Ma egli trova dei limiti, che si ergono dinanzi a lui già nella forma di fondo di assicurazione e di riserva, di legge della concorrenza ecc., e gli dimostrano praticamente che il profitto non è una semplice categoria di distribuzione del prodotto per il consumo individuale. Tutto il processo di produzione capitalistico è inoltre regolato dai prezzi dei prodotti. Ma i prezzi di produzione regolatori sono a loro volta regolati dal livellamento del saggio del profitto e dalla distribuzione del capitale tra le varie sfere sociali di produzione in corrispondenza con questo livellamento. Il profitto appare quindi qui come fattore principale non della distribuzione dei prodotti, ma della loro produzione stessa, come una parte della distribuzione dei capitali e del lavoro stesso fra le diverse sfere di produzione. La scissione del profitto in guadagno d’imprenditore e interesse appare come distribuzione di uno stesso reddito. Ma essa deriva primariamente dallo sviluppo del capitale quale valore che si autovalorizza, valore che crea plusvalore, deriva da questa forma sociale determinata del processo di produzione dominante. Essa sviluppa dal suo seno il credito e le istituzioni di credito, e con ciò la forma della produzione. Nell’interesse ecc., le pretese forme di distribuzione entrano nel prezzo come momenti di produzione determinanti.

I cosiddetti rapporti di distribuzione corrispondono, quindi, a forme storicamente determinate, specificamente sociali, del processo di produzione e dei rapporti in cui gli uomini entrano nel processo di riproduzione della loro vita e derivano da queste forme. Il carattere storico di questi rapporti di distribuzione è il carattere storico dei rapporti di produzione, dei quali essi esprimono soltanto un aspetto. La distribuzione capitalistica è distinta dalle forme di distribuzione che derivano da altri modi di produzione, ed ogni forma di distribuzione scompare insieme con la forma di produzione determinata a cui essa corrisponde e da cui deriva”.

Concludendo, dunque, la rivendicazione di redistribuire il reddito in maniera “più equa”, che prioritariamente non ponga in discussione i rapporti di proprietà e quindi di produzione – che, come visto ampiamente, ne rappresentano la base imprescindibile –, rischia di essere l’ennesima sterile litania che potrà anche raccogliere anche facili consensi tra i poco informati – si veda in particolare la genesi degli occupy di mezzo mondo e del loro motto “99% vs. 1%” –, senza che però, di fatto, presenti una praticabilità politica effettiva. Molto più senso avrebbe invece parlare di distribuzione della proprietà ponendo al centro del dibattito lo sfruttamento scientifico del capitale, non dimenticando, come riportato in occhiello, che la disuguaglianza funzionale e i fenomeni di polarizzazione, in forte espansione dagli anni ‘70, potrebbero fungere da ulteriore acceleratore del processo di superamento del modo di produzione attuale.

Insomma, per l’ennesima volta, riprendendo una parte dell’intervento di Brecht al congresso internazionale degli scrittori antifascisti – Parigi, 1935 –, ci viene da dire: “compagni, parliamo di rapporti di proprietà!”.

 

*Riproponiamo un contributo già apparso su La Contraddizione 148  che imposta un ragionamento sulla questione della cosiddetta “distribuzione” del reddito, disgeguaglianze e altre questioni che ormai sono al centro del dibattito grazie anche alla recente pubblicazione del testo di Piketty.

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