Claudio Napoleoni e il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy
di Riccardo Bellofiore*
1.Introduzione
Lo scritto che viene pubblicato di seguito[vedi qui] (Napoleoni, 2015) è la trascrizione di una lezione del 12 marzo 1973 tenuta da Claudio Napoleoni nel corso di Politica economica e finanziaria1. Oggetto della lezione è il commento del libro di Paul Baran e Paul Sweezy, Il capitale monopolistico, da poco pubblicato negli Stati Uniti (1966) e subito tradotto in italiano da Einaudi (1968)2.
L’interpretazione fornita da Napoleoni ha più di un motivo di originalità e potrà risultare per molti versi sorprendente. L’economista italiano era impegnato allora in un’originale ripresa critica di Marx che faceva asse proprio sui suoi aspetti più controversi, la teoria del valore-lavoro e la teoria della crisi, temi su cui il contributo di Sweezy era stato fondamentale. Ciò non di meno egli si distacca dalla usuale critica marxista al libro di Baran e Sweezy, secondo cui i due autori si sarebbero collocati fuori e contro la teoria del valore-lavoro3.
Sorprendente era peraltro la stessa struttura del corso di Politica economica e finanziaria in cui quella lezione fu pronunciata. I corsi del 1971-1972 e del 1972-1973 avevano come titolo “La realizzazione del plusvalore e la politica economica nelle economie capitalistiche moderne”. In quel che segue faremo soprattutto riferimento alla lezione del 12 maggio 1973 che si può leggere alle pagine 41-51 di questo fascicolo. Un corso dove l’esposizione della macroeconomia neoclassica e keynesiana (lungo linee non molto distanti da una avvertita sintesi neoclassica, come la si leggeva nella prima edizione del bel manuale di Gardner Ackley (1971) adottato da Napoleoni, e come peraltro si poteva già ricavare dalle voci del Dizionario di economia politica che aveva curato4, come da qualsiasi altro scritto dell’economista abruzzese sul tema) veniva proseguita dalla discussione approfondita del dibattito sulla teoria della crisi nel marxismo (da Marx a Lenin, da Tugan Baranowskij a Rosa Luxemburg). Si adottavano inoltre come letture chiave testi così distanti nel marxismo come il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy e il Marx e Keynes di Paul Mattick (1972).
Non si trattava, come dirò, di un esercizio puramente teorico. Si può dimostrare che il dialogo con Baran e Sweezy entrò direttamente (ed esplicitamente) a definire l’interpretazione del capitalismo monopolistico data da Napoleoni, così come il confronto con Mattick – che qui non verrà però considerato, per limiti di spazio – contribuiva anch’esso alla spiegazione dell’ascesa e della crisi dello sviluppo post-bellico (la fase che oggi va sotto l’etichetta, non molto appropriata, di les trentes glorieuses) da parte dell’economista abruzzese.
Per consentire una comprensione adeguata della lezione di Napoleoni, in queste pagine introduttive procederò a ricostruire per sommi capi alcuni momenti salienti del dialogo di Napoleoni con Sweezy, per poi mostrare come elementi della sua lettura del Capitale monopolistico, allora del tutto spiazzanti, siano stati confermati dalla recentissima pubblicazione di pagine inedite dei due marxisti statunitensi. Farò riferimento alla sezione sul capitale monopolistico contenuta nella voce “Capitale” dell’Enciclopedia Europea della Garzanti nel 1976, mai più ripubblicata5. Chiuderò con alcune considerazioni personali sulla ‘inattuale’ rilevanza della riflessione di Napoleoni e Sweezy su questi temi.
2. La Teoria dello sviluppo capitalistico: lavoro astratto, valore e prezzi di produzione
Nel 1951 Napoleoni aveva tradotto con Luigi Ceriani, per Einaudi, Teoria dello sviluppo capitalistico di Sweezy, di cui uscì poi una seconda edizione parziale, da Boringhieri, nel 19706. Questa riproposizione si apre con una lunga e impegnata introduzione di Napoleoni che fa il punto delle questioni più dibattute nel marxismo: in particolare, la teoria del valore-lavoro come fondamento della teoria dei prezzi di produzione, e la presenza di più teorie della crisi, se non addirittura di più teorie del crollo, nel marxismo.
Benché il giudizio sul libro sia complessivamente positivo – Napoleoni lo reputa la migliore esposizione elementare della teoria marxiana – l’economista avanza alcune qualificazioni su nodi significativi, appunto la teoria del valore e la teoria della crisi. Per quel che riguarda la teoria del valore, Napoleoni, sulla scorta di Lucio Colletti, avanza una forte critica a quello che ritiene un approccio di tipo ‘empiristico’ a Marx, di cui Sweezy, con Dobb, è ritenuto il massimo rappresentante teorico7. Secondo questi autori, l’astrazione del lavoro non sarebbe da intendersi altro che come una generalizzazione mentale, e la teoria del valore sarebbe pertinente al solo momento dell’equilibrio. Essa si svolgerebbe in due approssimazioni successive, di cui i valori di scambio nel primo libro del Capitale costituirebbero la prima, e i prezzi di produzione del terzo libro la seconda. Da questa prospettiva discende naturalmente una lettura di Sraffa come radicale dissoluzione di questo modo di vedere le cose. Salta infatti, in Produzione di merci8, una determinazione dualistica dei rapporti di scambio di equilibrio. In un primo modello, i prezzi capitalistici vengono immediatamente fissati una volta dati la ‘configurazione produttiva’ e il salario reale di ‘sussistenza’. In un secondo modello si ammette un grado di libertà nella distribuzione, e i prezzi sono determinati una volta definita la spartizione conflittuale del prodotto netto tra profitti e salari9.
Per Napoleoni, come per Colletti10, il lavoro è ‘sostanza comune’ delle merci non in quanto lavoro utile e concreto ma in quanto lavoro astratto, epperò tale astrazione non è del ricercatore, esiste effettivamente nella realtà. È una ‘astrazione reale’, tipica del mercato e della produzione capitalistici, all’uno e all’altra perfettamente adeguato: la seconda approssimazione non può (non deve) modificare in nulla la determinazione essenziale del valore. Mentre nel 1970 Napoleoni cerca di articolare una difesa della nozione di lavoro astratto di questo genere con un rigetto della teoria del valore quale teoria dei prezzi, nei primi anni ‘70 Napoleoni ritiene che l’analisi qualitativa del valore debba prolungarsi in una dimensione quantitativa, alternativa rispetto a quella sraffiana, mantenendo nell’analisi della formazione del valore accanto alla dimensione dell’equilibrio l’altra dimensione parimenti fondamentale, quella dello squilibrio. La circolarità del capitale, che include il lavoro al suo interno, vista come fondata da un percorso lineare per cui il lavoro vivo è l’origine di tutto il capitale. Si trattava di un programma di ricerca, definito tra il 1971 e il 1975, che si poneva l’obiettivo ambizioso di un ritorno a Marx dopo Marx, anche se non secondo Marx (non cioè una rinnovata ortodossia, ma un Marx scienziato critico del capitalismo): un programma che non avrà compimento, e che verrà progressivamente abbandonato tra il 1976 e il 197811. È in questo contesto che vanno collocate sia la lezione che la voce che stiamo considerando.
In una intervista del 1987 pubblicata sulla Monthly Review12 Sweezy torna sul libro del 1942 con accenti autocritici che riguardano proprio i temi discussi qui, in particolare la teoria del valore e il rapporto con la determinazione dei prezzi. I giudizi di Sweezy gettano una luce radicalmente diversa sui punti su cui abbiamo visto appuntarsi le obiezioni di Napoleoni, e sono forse anche l’indice di un inizio di ripensamento su nodi fondamentali, se non addirittura il maturare di un punto di vista più macrofondato e dinamico in merito alla stessa teoria del valore. Sweezy chiarisce in primo luogo che la sua lettura di Marx è distinta, e in alcuni punti direttamente opposta, tanto a quella di Dobb13 quanto a quella di Steedman14, che nel 1977 aveva pubblicato il suo Marx after Sraffa:
“Sraffa stesso non vedeva quello che stava facendo come un’alternativa al marxismo, o in qualche modo una negazione del marxismo. Dal suo punto di vista, si trattava di una critica dell’ortodossia neoclassica, e lo ha [sempre] reso molto chiaro. Joan Robinson fu molto esplicita, dicendo che Sraffa non abbandonò mai il marxismo. È stato sempre un marxista leale, nel senso che aderiva alla teoria del valore-lavoro, anche se non lo scrisse. In realtà, si tratta di una sua peculiarità. Iniziò come critico dell’economia marshalliana – ricorderete il famoso articolo degli anni ‘20. Fece parte del gruppo di Cambridge, e lottò in quelle diatribe teoriche che avevano a Cambridge l’epicentro. In queste lotte, prese una certa posizione non in quanto marxista, ma in quanto critico dell’ortodossia del tempo. Ora, questa è certamente una posizione peculiare, ma questo non autorizza nessuno a prendere Sraffa e contrapporlo a Marx, come fa Ian Steedman. Prendere Sraffa e farne una teoria alternativa a sè stante è, secondo me, piuttosto sbagliato e non ha niente a che fare con le reali intenzioni di Sraffa, nè con le finalità reali dell’analisi marxista. Non c’è dinamica o sviluppo in Steedman, a quanto vedo. Pensare che sia possibile fare a meno di una teoria del valore (in senso lato, includendo la teoria dell’accumulazione ecc.) mi sembra quasi un fallimento totale. Non è affatto una cosa buona, e non penso che ne derivi niente di buono. È stato un bene mostrare i limiti, le fallacie, le incoerenze interne della teoria neoclassica, questo va benissimo, è stato importante. Ma pensare che su questa base si possa creare una teoria che abbia anche solo lontanamente il respiro e gli obiettivi del marxismo è un errore” (Savran e Tonak, 1987, pp. 13-14).
In un intervento del novembre 1978 sulle tesi di Steedman, raccolto nel volume collettaneo The Value Controversy, Sweezy (1981) non si limita a contestare che l’analisi in termini di valore venga smentita da quella in termini di prezzo, ma afferma che il centro di gravità dell’analisi marxiana è il saggio di plusvalore come saggio di sfruttamento15. Nella sottovalutazione di questo punto sta il limite del suo libro del 1942:
“Non me ne rendevo conto mentre scrivevo The Theory of Capitalist Development quarant’anni fa. Di conseguenza, la quinta e sesta sezione del capitolo sul problema della trasformazione (rispettivamente intitolate ‘Il significato del calcolo dei prezzi’ e ‘Perchè non iniziare dal calcolo dei prezzi’), anche se non proprio sbagliate, non raggiungono il cuore del problma, che è il ruolo cruciale del saggio di plusvalore nell’intera teoria marxiana del capitalismo” (Sweezy, 1981, p. 26).
3. La Teoria dello sviluppo capitalistico: le teorie della crisi
Per quel che riguardail giudizio sulla teoria della crisi, non stupisce che il discorso di Napoleoni segua da presso quello dell’Introduzione al volume sul Futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, l’antologia curata con Lucio Colletti per Laterza16. È peraltro una posizione su cui Napoleoni tornerà con modifiche significative nei corsi torinesi di Politica economica e finanziaria.
Nei due testi del 1970 Napoleoni rigetta senza qualificazioni la teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto, e suggerisce di sintetizzare i due filoni che Sweezy distingue nella teoria della crisi da realizzazione, che il marxista statunitense definisce rispettivamente del sottoconsumo e delle sproporzioni.
Per quel che riguarda la crisi da sottoconsumo, si tratta di questo.Se il profitto è prevalentemente investito, e il salario integralmente consumato, una riduzione relativa dei salari comporta una riduzione della quota dei consumi, e la realizzazione integrale del valore delle merci è legata a una crescita della quota degli investimenti. Certamente, gli schemi di riproduzione consentono di derivare le condizioni di equilibrio tra i macrosettori della produzione, ovvero i rapporti che garantiscono la compatibilità tra composizione dell’offerta e composizione della domanda a livello di sistema: il verificarsi effettuale di tali condizioni dipende però dall’operare del meccanismo dei prezzi in concorrenza, cioè dal coordinamento ex post tramite il mercato, ed è dunque casuale. Possono perciò determinarsi facilmente delle crisi da sproporzioni.
Per Napoleoni, al contrario di Sweezy, sottoconsumo e sproporzioni non sono due cause distinte, sono invece cause congiunte della crisi. Il coordinamento ex post tramite i prezzi può essere efficace soltanto se la quota dei consumi non scende troppo. Sottoconsumo e sproporzioni sono come le due lame di un’unica forbice. Il sottoconsumo può determinare la crisi per i limiti del coordinamento ex post del mercato tramite i prezzi, mentre l’anarchia della concorrenza è fattore di crisi se il consumo non orienta da vicino l’investimento. Un aspetto rimanda all’altro, che lo completa. A ben vedere, prosegue Napoleoni, qui abbiamo però a che fare con la formulazione di una teoria del crollo di tipo ‘originario’ o iniziale. Il capitale può avere vita storica soltanto nella misura in cui persistono, o si creano ex novo, forme di lavoro e di consumo improduttivo.
Il discorso di Napoleoni si basa sulla tesi che la teoria della crisi da realizzo, tanto nel versante delle sproporzioni quanto in quello del sottoconsumo, è indipendentedalla teoria del valore-lavoro; ma anche sull’idea che in un’economia di mercato l’investimento non possa mai sganciarsi dall’elemento, reputato ‘naturale’,del consumo. Anche le altre due teorie della crisi generale che egli individua nell’antologia con Colletti non gli paiono accettabili: né la teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto17 (anch’essa sganciata dalla teoria del valore-lavoro, secondo Napoleoni) né l’argomentazione secondo cui con il macchinismo la produzione di valore ‘crollerebbe’ in quanto il prodotto non dipenderebbe più dalla quantità di lavoro prestato. Tralasceremo, nel seguito, questa ultima linea di ragionamento, per quanto suggestiva18, e ci limiteremo a dire della posizione del nostro autore sulla caduta tendenziale del saggio di profitto nel 1970.
Napoleoni condivide le critiche di Joan Robinson e Sweezy secondo cui l’aumento del saggio di sfruttamento potrebbe più che compensare la crescita della composizione organica, e non è convinto dell’altro argomento di Marx a favore della legge, secondo cui il saggio massimo del profitto – definito da un capitale variabile pari a zero, e perciò corrispondente al rapporto tra neovalore e capitale costante – tende inevitabilmente a cadere nel lungo termine. Che questo argomento non sia molto convincente lo si capisce da questa considerazione: se è vero che il numeratore dipende dalla giornata lavorativa sociale di una data popolazione lavoratrice, ha dunque un limite assoluto, il denominatore (ovvero il capitale costante) potrebbe rallentare, o fermarsi o retrocedere, a seconda della dinamica settoriale degli aumenti della forza produttiva del lavoro. Non vi è alcuna ‘legge’ sull’andamento temporale dal saggio del profitto.
Napoleoni apporterà modifiche significative a questo filo di ragionamento nei primi anni settanta, proprio nelle lezioni sulla teoria marxiana della crisi di cui questo commento a Baran e Sweezy fa parte19. Possiamo sintetizzarle in questi quattro punti: (i) le tre versioni della teoria della crisi su cui ci siamo concentrati sinora sono ora tutte viste quali espressioni delle contraddizioni su cui pone l’accento la teoria marxiana del valore-lavoro; (ii) l’integrazione di crisi da sottoconsumo e crisi da sproporzioni proposta da Napoleoni cerca ora (ma con difficoltà) di sganciarsi dal consumo come elemento ‘naturale’, e dunque come vincolo sostanzialmente esterno al procedere indisturbato dell’accumulazione, nel tentativo di riformularsi nei termini di un vincolo interno che il capitale porrebbe a se stesso; (iii) la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto viene reinterpretata, e in tale reinterpretazione viene considerata sostanzialmente corretta; (iv) su questa strada si finisce d’altra parte con l’unificare i tre discorsi marxiani sulla crisi in uno solo, che sfocia nella formulazione di una teoria sociale della crisi.
Gli schemi continuano però ad essere visti come la smentita della tesi che sostiene l’impossibilità astratta del raggiungimento dell’equilibrio. Le condizioni di equilibrio definite dagli schemi di riproduzione vengono ora lette come condizioni ‘doppie’, in valore e in valore d’uso20. Essi assolutizzano il momento dell’equilibrio, a scapito della crisi come momento essenziale. “Lo studio della crisi economica”, sostiene Napoleoni, è proprio “lo studio delle forme in cui in concreto si manifestano le contraddizioni che intercorrono tra il valore d’uso e il valore di scambio nel capitale” (Napoleoni, 1973a, p. 32)21. Gli schemi chiariscono come la domanda al capitale proviene dal capitale medesimo, e dunque Tugan Baranowskij (1905) nei suoi Theoretische Grundlagen des Marxismus non ha torto ad assegnare un ruolo chiave alla domanda di mezzi di produzione22. Per questo è vero che “l’incremento del mercato interno al capitale è fino ad un certo punto indipendente dal consumo individuale; dipende dal consumo produttivo (i mezzi di produzione nell’ambito del processo produttivo)” (Napoleoni, 1973a, p. 46). Napoleoni continua però a ritenere che sarebbe un errore immaginare che la domanda di beni capitali (e di mezzi di produzione più in generale) sia “completamente staccata” dal consumo individuale dei lavoratori: “[l]’indipendenza esiste, ma in fin dei conti il mercato dipende dal consumo, perché la produzione di mezzi di produzione è legata al fatto che deve poi produrre beni di consumo” (ibid.).
In quanto produzione di ricchezza astratta, il capitale è tendenza illimitata all’accumulazione. In quanto invece legato al ricambio organico con la natura esso è limitato dai bisogni. Napoleoni considera implicitamente la propria posizione precedente, secondo cui
“il basso livello dei consumi fa sì che l’impresa capitalistica non riesce più a determinare la struttura delle proprie convenienze (capire il senso degli investimenti): il blocco perciò degli investimenti provoca la crisi, la caduta della domanda, la recessione. Ci vuole un orientamento di tipo ‘naturale’, secondo questa tesi” (ibid., p. 47).
Una posizione del genere non gli è però più congeniale, in quanto il nostro autore è alla ricerca di un vincolo non ‘naturale’ alla riproduzione allargata del capitale23. La dipendenza del capitale dal consumo non costituisce più per lui un vincolo esterno mainterno. Quella dipendenza è dovuta: da un lato, alla natura dialettica della teoria marxiana; dall’altro lato, alla riproduzione della classe dei lavoratori salariati.
Questo suggerimento è particolarmente interessante perché segna il massimo scarto dalla posizione precedente. La tesi ora proposta è di integrare sottoconsumo e sproporzioni dentro la legge che afferma una caduta tendenziale del saggio del profitto. Secondo questo Napoleoni “la legge è sostanzialmente esatta” (ibid., p. 62). La legge non va intesa immediatamente come una risultante quantitativa meccanica, ma come innanzitutto una determinazione qualitativa che indaga il saggio del profitto come esito di due tendenze contrastanti. La motivazione della caduta del saggio di profitto, scrive Napoleoni, “è tutta interna al meccanismo di produzione capitalistico. La contraddizione è tra aspetti del capitale, non del capitale con un’altra cosa, la natura” (ibid., p. 63). L’accumulazione del capitale porta alla diminuzione relativa del capitale variabile e a una espulsione di forza-lavoro dai processi di lavoro. Ma il valore, e dunque anche il plusvalore, dipendono dal lavoro vivo impiegato nella produzione, e dunque dall’uso della forza-lavoro come attributo ‘attaccato’ ai lavoratori salariati.
“Il rapporto tra capitale e lavoro salariato è contraddittorio: da un lato, il lavoro salariato produce le aggiunte al capitale, dall’altro è ciò che il capitale tende a espellere, perché questo è il modo in cui si aumenta la produttività del lavoro [in realtà: forza produttiva del lavoro], e quindi il profitto” (ibid.).
A causa della devalorizzazione degli elementi del capitale costante, dovuta al progresso tecnico, il mutamento dei metodi di produzione si accompagna a un innalzamento della composizione organica del capitale24 minore di quella che si avrebbe a costanza di tecniche. Di più, se il salario rimane immutato e la giornata lavorativa è data25, la spinta verso l’alto della forza produttiva del lavoro fa cadere relativamente il capitale variabile, e il conseguente aumento del saggio di plusvalore potrebbe persino far crescere il saggio del profitto26. Non si può dire nulla a priori su quale delle due tendenze prevarrà. Ciò, a prima vista, dovrebbe confermare le conclusioni del 1970. Non è così. La ragione è che le controtendenze alla caduta tendenziale del saggio del profitto fanno prendere all’economia capitalistica una fisionomia particolare: “[l]’aumento del saggio del profitto non è un fatto della tecnologia capitalistica, indifferente, è un aumento della produttività [meglio: della forza produttiva] del lavoro nella produzione capitalistica, nella forma dell’aumento del rapporto di sfruttamento, del saggio di sfruttamento” (ibid., p. 65).
Per un verso l’economia corrisponde alla visione di Tugan Baranovskij, ma il discorso non può fermarsi lì. L’aumento del saggio di plusvalore acutizza il problema della realizzazione, ma c’è dell’altro, secondo Napoleoni27. Cruciali sono le conseguenze possibili di carattere sindacale e politico, perché “[c]’è un grado di sopportabilità del saggio di sfruttamento, la situazione sociale non è più controllabile oltre un certo limite” (ibid.). L’aumento del saggio di plusvalore è, in senso proprio, aumento del saggio di sfruttamento, dell’uso della forza-lavoro: consumo di esseri umani, appendice della capacità lavorativa per il capitale. È una questione non tecnica ma sociale, e “non può rimanere senza effetto sui rapporti di classe, sulla lotta di classe, ed in particolare sul livello del salario” (ibid., p. 69). Nelle condizioni date, può conseguirne un aumento del salario reale in eccesso rispetto alla forza produttiva del lavoro, che fa cadere il saggio di profitto.
In conclusione: “[l]a legge della caduta del saggio del profitto è dunque per Marx un pezzo essenziale dell’analisi, è il punto in cui si raduna tutta la sua teoria del capitalismo e le sue conclusioni”, ma “la caduta del saggio del profitto non è intesa in modo meccanicistico, vi è un costante riferimento a connessioni sociali” (ibid.).
4. Il Capitale monopolistico secondo Napoleoni
Veniamo alla lettura che Napoleoni propone del Capitale monopolistico di Baran e Sweezy. Nella voce “Capitale” Napoleoni definisce capitalismo monopolistico “quella fase dello sviluppo capitalistico, in cui sono prevalenti le imprese di tipo monopolistico, ossia quelle imprese che per le loro dimensioni hanno la possibilità di influire sui prezzi di ciò che vendono e di ciò che acquistano” (Napoleoni, 1976a, p. 844). I processi di concentrazione, fusione e assorbimento che conseguono all’evolversi della stessa ‘libera’ concorrenza (una competizione che passa in modo essenziale per lo strumento della riduzione dei prezzi) conducono a questo nuovo stadio del capitalismo verso la fine dell’Ottocento, in cui sono cruciali il grado di monopolio e la battaglia per la ‘qualità’ nell’analisi del meccanismo dello sviluppo. Lungi dal lasciare il passo a un’autopianificazione del capitale, la concorrenza non scompare, né potrebbe scomparire, essendo essa implicita alla natura privatistica del capitale. Muta però la sua forma, e “si esercita con tutti quei mezzi (abbassamento dei costi unitari mediante mutamenti tecnici e organizzativi, pubblicità, ecc.) che valgono a contrastare la sempre possibile ‘entrata’ nel mercato di altre imprese o a indirizzare la spesa dei consumatori verso certe direzioni piuttosto che verso altre” (Napoleoni, 1973a, p. 69).
Il volume di Baran e Sweezy è di fatto l’oggetto della penultima sezione della voce “Capitale”,che per il resto è quasi integralmente dedicata a esporre la teoria marxiana (senza che mai si accenni al problema della trasformazione: un caso più unico che raro in questo autore); l’ultima sezione è invece rivolta a un esame di alcuni aspetti della “[t]eoria borghese del capitale” (Napoleoni, 1976a, p. 845). Il capitale monopolistico accentua le difficoltà di realizzo: non perché il suo dinamismo interno sia superiore al capitalismo di libera concorrenza, semmai per il motivo opposto. La tendenza alla stagnazione non si realizza linearmente ma viene anzi perversamente contrastata internamente al sistema capitalistico, con un aumento dello spreco e dell’irrazionalità, che si limitano a spostare in avanti la contraddizione. Baran e Sweezy sostituiscono la tendenza all’aumento (sia assoluto che relativo) del surplus, o ‘sovrappiù’, alla caduta tendenziale del saggio di profitto letta in modo tradizionale: la prima è in qualche modo l’esatto inverso della seconda.
Rimandiamo alla lezione di Napoleoni per il confronto puntuale con le tesi dei due marxisti statunitensi. Qui ci limitiamo a segnalare il punto su cui maggiormente concentra la sua attenzione Napoleoni: la giustificazione da parte di Baran e Sweezy della legge dell’aumento tendenziale del sovrappiù, e la sua compatibilità o meno con la teoria marxiana del valore. La maggioranza degli interpreti avevano inteso il libro come un rigetto della teoria marxiana del valore e della crisi28.
La ragione di quella lettura stava in primo luogo nello stile del libro, che accuratamente evitava di presentarsi in un linguaggio apertamente marxista; peggio, le parti sul monopolio erano contaminate col marginalismo29, quando erano già a disposizione i lavori di Kalecki e di Sylos Labini. Anche dal punto di vista del contenuto vi erano ragioni che giustificavano quella interpretazione:
“noi preferiamo il concetto di surplus al tradizionale concetto marxiano di ‘plusvalore’, poiché quest’ultimo nella mente di coloro che hanno consuetudine con la teoria marxiana si identifica probabilmente con la somma del profitto, dell’interesse e della rendita. È vero che Marx dimostra – in alcuni passi del Capitale e delle Teorie del plusvalore – che il plusvalore comprende anche altri elementi come le entrate dello stato e della chiesa, le spese per trasformare le merci in moneta, e i salari dei lavoratori improduttivi. In generale, tuttavia, Marx considerava questi elementi come fattori secondari e li escludeva dal suo schema teorico fondamentale. Noi sosteniamo che nel capitalismo monopolistico questa impostazione non è più giustificata e speriamo che un cambiamento nella terminologia contribuirà al necessario mutamento nella posizione teorica” (Baran e Sweezy, 1968, pp. 10-11, nota, corsivi aggiunti).
Insieme al motivo di estendere la definizione contabile di plusvalore per includervi esplicitamente le spese statali e ‘improduttive’, vi era senz’altro l’intenzione di separarsi dalla teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto. Non solo la fissazione del plusvalore effettivo e della sua distribuzione dipendevano dalla domanda, ma lo stesso capitalismo era regolato in modo profondamente differente dal capitalismo di libera concorrenza. Se era vera una tendenza a un capitalismo più ‘organizzato’ ciò non riduceva (come riteneva Hilferding) ma rendeva più acutala tendenza alla crisi del capitale.
Ancora nell’intervista più volte citata Sweezy svolge considerazioni autocritiche:
“forse fu un errore. Avevamo progettato un paio di altri capitoli nel Capitale monopolistico, che servissero a spiegare le relazioni tra il nostro apparato concettuale e l’analisi marxiana del valore. Questi capitoli erano allo stadio di bozze molto preliminari, non pubblicabili nel libro o in altra forma quando Baran morì, quindi non c’era modo di includerle nel libro. E non saprei se sarebbero state efficaci, o se il tentativo valesse la pena” (Savran e Tonak, 1987, p. 15, nostra traduzione).
E nell’introduzione alla ristampa dell’edizione greca del volume insiste sul punto:
“A giudicare dalle recensioni e critiche apparse in molti libri e articoli, mi spiace dire che c’è stata molta confusione su quello che io e Baran volevamo dire. Non è questa la sede per tentare di elencare e correggere tutte le interpretazioni fuorvianti, ma vorrei cogliere questa opportunità per chiarire la nostra posizione su un punto. Molti critici marxisti hanno sostenuto, come se fosse un fatto evidente, che Baran e Sweezy accantonano la teoria marxista del valore (e quindi, per implicazione, la teoria del plusvalore). Non è così. In nessun momento della nostra lunga relazione e collaborazione ci è mai venuto in mente di rifiutare la teoria marxista del valore. Il nostro procedimento in Capitale monopolistico fu di prendere la teoria del valore-lavoro come acquisita, e partire da lì. Ora mi rendo conto che fu un errore: saremmo dovuti partire da un’esposizione della teoria del valore così com’è presentata nel libro I del Capitale, e avremmo poi dovuto mostrare che nella realtà capitalista i valori determinati dal tempo di lavoro socialmente necessario sono soggetti a due tipi di modifiche: primo, i valori sono trasformati in prezzi di produzione, come Marx riconosce nel libro III; secondo, i valori (o i prezzi di produzione) sono trasformati in prezzi di monopolio nella fase monopolistica del capitalismo, un tema a malapena menzionato da Marx per l’ovvia ragione che l’intero Capitale fu scritto molto prima dell’inizio del periodo di capitalismo monopolistico. In nessun momento Baran o io implicitamente o esplicitamente abbiamo rifiutato le teorie del valore e del plusvalore, piuttosto abbiamo cercato di analizzare le modifiche che si rendono necessarie come conseguenza della concentrazione e della centralizzazione del capitale. Se avessimo proceduto come ho detto, credo che molti malintesi si sarebbero evitati” (Sweezy, 1984, pp. 25-26, nostra traduzione)30.
Nell’intervento londinese raccolto in The Value Controversy la questione viene ripresa molto velocemente: seguendo Marx, i prezzi di monopolio sono visti come prezzi di produzione trasformati; d’altra parte “il passaggio dai valori ai prezzi di monopolio ha conseguenze importanti per il processo di accumulazione, cosa che non accade invece per il passaggio da valori a prezzi di produzione” (Sweezy, 1981, p. 28, nostra traduzione). Quella ulteriore trasformazione attiva difatti la legge dell’aumento tendenziale del surplus.
Il Capitale monopolistico tace però sul come, nella nuova fase, la tendenza all’aumento del sovrappiù si possa derivare dalla teoria del valore-lavoro. In alcuni brani Baran e Sweezy comparano il capitalismo monopolistico e quello concorrenziale, asserendo che nel primo il surplus è maggiore che nel secondo. In altri scendono più nei dettagli, sostenendo che la forma monopolistica del prezzo consentirebbe l’estorsione di un sovrappiù più elevato di quanto non ne venga estratto nei processo capitalistici di lavoro.
È su questo snodo che Napoleoni svolge delle considerazioni del tutto fuori dal coro rispetto alle critiche ‘ortodosse’ ai due marxisti statunitensi. Non è chiaro, infatti, come si possa sostenere la seconda tesi rimanendo all’interno dela teoria del valore alla Marx. Napoleoni espone la difficoltà richiamando un passo del libro terzo del Capitale. Marx afferma che il prezzo di monopolio sarà più alto del prezzo di produzione del valore delle merci se vi sono monopoli naturali o artificiali; aggiunge, però, che “i limiti dati dal valore delle merci non sarebbero per questo soppressi” (Marx, [1894] 1970, p. 276). La fissazione dei prezzi non entra nella formazione del valore/plusvalore, agisce soltanto sulla allocazione del plusvalore tra i vari capitali. Insomma, il prezzo di monopolio permette di catturare una parte aggiuntiva del plusvalore, invece di distribuirlo uniformemente tra tutte le imprese: “[l]a ripartizione del plusvalore tra le diverse sfere di produzione subirebbe indirettamente una perturbazione locale, che però lascerebbe invariati i limiti di questo plusvalore stesso” (ibid., p. 277). Se la merce in questione fa parte del consumo necessario dei lavoratori, il prezzo di monopolio potrebbe abbassare il salario reale al di sotto del valore della forza-lavoro, qualora evidentemente quest’ultimo eccedesse il livello fisico minimo di sussistenza.
L’extra-profitto che guadagna il capitale monopolistico, ricorda Napoleoni, è ottenuto a spese di altri capitali o del salario:
“[q]uesta proposizione di Marx è rigorosamente coerente con la teoria del valore lavoro: il valore è il lavoro oggettivato nelle merci, e la forma di mercato entro cui questa oggettivazione avviene non ha nessuna rilevanza rispetto all’entità di questa oggettivazione. Il plusvalore dipende dal modo in cui il lavoro complessivo si ripartisce fra lavoro necessario e pluslavoro: e in questa ripartizione, salvo questo caso che stiamo considerando, di nuovo la forma di mercato non interviene. Quando è che interviene la forma di mercato? Quando si deve stabilire come questo plusvalore si ripartisce fra i vari capitali, ed eventualmente tra operai e capitalisti se il salario è interessato da prezzi di monopolio e nella misura in cui lo sia” (Napoleoni, 2015, p. 47).
Il riferimento a Marx non porta Napoleoni a ritenere che la tesi di Baran e Sweezy non possa essere riletta in modo da renderla conciliabile con la teoria del valore-lavoro. Se si parte dal Capitale, e se non cambiano gli altri elementi, è chiaro che la forma monopolistica del capitale monopolistico non può dar luogo a una entità del plusvalore totale superiore a quella di libera concorrenza. Vi sono però altre considerazioni da tenere in conto, di cui vi è confusa traccia nel libro di Baran e Sweezy.
La prima considerazione riguarda l’andamento della forza produttiva del lavoro. Il capitale monopolistico non la lascia immutata, ma la spinge verso l’alto, per il tramite di un mutamento tecnologico più veloce, il che fa crescere il plusvalore rispetto a quanto avverrebbe nella fase concorrenziale (un argomento tipicamente schumpeteriano). Una tesi che Napoleoni condivide e che reputa essenziale
“per non fare delle critiche romantiche al monopolio, critiche di tipo arretrato: questa tesi che il monopolio comporta l’arretratezza – arretratezza tecnologica, arretratezza nella spinta allo sviluppo capitalistico – questa è una tesi non più valida, e Baran e Sweezy la respingono” (ibid., p. 51).
La seconda considerazione riguarda il salario, assumendo i cambiamenti storici significativi rispetto al tempo di Marx. Nel Capitale il prezzo di monopolio su un bene-salario comporta che gli altri capitalisti dovranno pagare un salario più alto: l’extraprofitto del capitalista in condizioni di monopolio è dovuto a un minor profitto degli altri capitalisti, a plusvalore immutato. Nelle nuove condizioni storiche del capitalismo c.d. manageriale una più elevata forza produttiva del lavoro potrebbe essere controbattuta da un saggio di salario reale che aumenti nella medesima percentuale: qualora l’intensità capitalistica cresca in proporzione della forza produttiva del lavoro (cosa che Napoleoni reputa un fatto stilizzato), il saggio del profitto lordo non potrebbe che rimanere costante. Qualora i prezzi possano essere controllati dagli oligopolisti, la banca centrale convaliderebbe la spinta conseguente all’inflazione. Abbiamo dunque una situazione in cui il conflitto di classe potrebbe dar vita a un più alto prezzo della forza-lavoro, ma quest’ultimo resterrebbe in parte soltanto potenziale, in quanto le conquiste salariali verrebbero progressivamente erose dal capitale.
La ragione sta appunto nell’aumento dei prezzi che è possibile praticare vista la particolare struttura del mercato – il ‘capitale monopolistico’ di Baran e Sweezy: “[i]n questo senso dinamico, nel caso del capitale monopolistico noi abbiamo, a partire dai salari, un trasferimento verso i profitti del valore addizionale creato dall’incremento della produttività [forza produttiva] del lavoro” (ibid., pp. 50). E ancora:
“[e] se questo è vero si giustifica la premessa su cui il libro è basato, anche se tutto ciò [nel libro] è argomentato diversamente: il problema del realizzo di questo ‘sovrappiù’ si pone in termini gravosi al capitale proprio per la [sua] tendenza ad aumentare. Ancora una volta, occorre notare come ogni pratica che aumenti il profitto all'interno del processo di produzione pone un problema opposto sul terreno della realizzazione. Questo problema si pone in termini esasperati nel caso del capitale monopolistico” (ibid., p. 51).
Napoleoni segue esattamente questa lettura della fase monopolistica del capitale nella voce Capitale, ma la integra dentro l’interpretazione del capitalismo (italiano e internazionale) del dopoguerra, e della sua crisi. La tendenza alla crescita del sovrappiù discende
“da un lato, dall’accelerazione del processo di abbassamento dei costi unitari, qual è consentita dall’aumento delle dimensioni d’impresa e perciò dalla possibilità di adottare nuove tecnologie e nuovi metodi di organizzazione del lavoro, e, dall’altro lato, dalla possibilità che le imprese hanno di influire sui prezzi rispetto ai salari monetari, contrastando così la tendenza, che il salario reale altrimenti avrebbe in virtù della forza sindacale, a sopravanzare gli incrementi di produttività. Se la spesa per investimenti e il consumo diretto dei capitalisti non sono, insieme, sufficienti ad assorbire questo sovrappiù, si determina un vuoto di domanda, che, se non è colmato per altre vie, rende soltanto potenziali e non reali i maggiori profitti insiti nell’accrescimento del sovrappiù” (Napoleoni, 1976a, p. 844).
I modi di risoluzione della crisi da realizzazione possono essere ‘esterni’ o ‘interni’. Tra i modi esterni Napoleoni privilegia quello leninista (dell’esportazione di capitale dalle aree centrali nella periferia, alla caccia di un saggio del profitto più alto ottenuto innanzi tutto grazie a salari più bassi) rispetto a quello luxemburghiano (dove la realizzazione dipende dalla domanda aggiuntiva netta di merci proveniente dalle aree non capitalistiche). Tra i modi interni, ricorda i seguenti, molto vicini al testo di Baran e Sweezy: le spese per pubblicità; i ceti improduttivi come le burocrazie pubbliche e private, l’intermediazione commerciale pletorica, la borghesia finanziario-speculativa. Di qui origina un consumo ‘puro’, non solo della classe capitalistica, dei redditi sottratti al plusvalore. Tra i modi di riassorbimento del surplus ha un ruolo centrale la spesa pubblica in disavanzo, che si incarna in valori d’uso che non rientrano nel processo di riproduzione, in particolare la spesa militare:
“[l]’esempio di queste pratiche configura un capitalismo che è aggressivo verso l’esterno, e che ha rilevanti elementi di ‘improduttività’ all’interno, dove la ‘produttività’ è determinata secondo i criteri del capitalismo stesso, e dove, d’altra parte, il termine di riferimento è costituito dalle potenzialità implicite nello stesso capitale monopolistico, e non dai risultati conseguiti dal capitalismo concorrenziale, che aveva una dinamica certamente meno accentuata. Il capitale monopolistico, che pure ha modificato sostanzialmente il classico andamento ciclico del primo capitalismo, è dunque soggetto a una particolare instabilità, dovuta alla compresenza della tendenza inflazionistica derivante dalla possibilità di amministrare i prezzi, e di quella deflazionistica, derivante dalla difficoltà di realizzazione” (ibid., pp. 844-845).
C’è uno scarto significativo dalle tesi di Baran e Sweezy su un paio di punti. Primo, al contrario dei due marxisti statunitensi, per Napoleoni l’improduttività non è definita rispetto a un metro di misura che sia esterno ed estraneo al sistema reale che si espone e si critica. Ma anche, secondo, il discorso slitta sulle ragioni di quella compresenza di stagnazione e inflazione che sarà tipica degli anni ‘70: tra queste primeggia la lotta salariale (ma come vedremo, non solo) quale risposta all’intensificazione dello sfruttamento. Si tratta di un tema che abbiamo visto essere al centro delle lezioni di Torino dei primi anni settanta.
La catena logica si chiude. La crisi da realizzo, in cui il capitalismo precipita quando prevale la controtendenza alla caduta del saggio di sfruttamento, viene tamponata per il contributo decisivo dato dal gonfiamento dell’area della ‘rendita’ e dell’improduttività. Il plusvalore realizzato è inferiore a quello potenziale, ma si sfugge al baratro del crollo per insufficienza della domanda effettiva. La nuova configurazione del capitalismo è però soggetta al rischiodi un conflitto salariale a un certo punto ‘incompatibile’: il più alto salario si somma alla rendita e schiaccia il profitto effettivo. È teoricamente possibile, ma socialmente e politicamente implausibile, che il capitale accetti una compressione della sfera produttiva, scambiando la rendita con il salario quale sorgente della domanda31.
Quando il salario reale sopravanza la forza produttiva del lavoro, il capitale risponde con quell’inflazione che è ora possibile, data la forma monopolistica del mercato. L’inflazione potrebbe non essere in grado di reprimere l’aumento delle retribuzioni reali in modo da ristabilire la profittabilità ritenuta ‘accettabile’ dalla classe capitalistica, nel qual caso il salario come costo si sommerebbe alla rendita come prelievo dal plusvalore: la compressione del profitto si riaffermebbe per una via traversa, dando nuovamente corsa a una crisi strutturale del rapporto capitalistico. Se l’inflazione fosse invece efficace nel falcidiare il salario reale, potrebbe venire “allo scoperto il potere sociale e politico dei ceti improduttivi, che, diventando essi stessi il principale fattore d’inflazione, tolgono quest’ultima al controllo del capitale e danno luogo, di nuovo, a un elemento di crisi” (Napoleoni, 1976a, p. 844). Secondo Napoleoni la realtà italiana (ma non solo) va compresa come una sintesi delle due realtà appena descritte, il che conferisce una particolare forza alle lotte della classe lavoratrice:
“[l]a situazione attuale delle società capitalistiche viene dunque a configurarsi come una situazione in cui i procedimenti a disposizione del capitale (sul terreno della struttura sociale e su quello della politica economica) per alleggerire le sue contraddizioni oggettive sono altrettanti motivi di rafforzamento dell’efficacia, sul terreno economico, dell’opposizione di classe esercitata dal proletariato” (ibidem).
Il ragionamento di Napoleoni a questo punto fa tutt’uno con quello contenuto nell’introduzione alla seconda edizione di Smith, Ricardo, Marx, dove la teoria del valore-lavoro astratto viene proposta come un programma di ricerca da riattivare sul terreno analitico della teoria economica e non esclusivamente, come sarà dopo il 1978, sul piano filosofico della teoria dell’alienazione e dell’indagine del reificato32. Si tratta: (i) di ricostruire la teoria del valore e quella della crisi rendendosi conto che la distinzione tra le due è arbitraria; (ii) di ridefinire le ragioni della crisi da realizzo e da caduta tendenziale del saggio del profitto, mostrandone i rapporti; (iii) di ricondurre le varie forme della crisi alla natura in senso proprio contraddittoria del capitale. Un’opposizione che ha come suo sbocco inevitabile “l’opposizione, non sporadica ma sistematica e irriducibile, dei produttori al rapporto sociale in cui i produttori stessi sono inclusi. L’opposizione operaia, in altri termini, è nell’ambito del sistema, la disarmonia sistematica più irriducibile” (Napoleoni, 1973b, p. 11).
Mentre Sweezy e il gruppo della Monthly Review paventava all’epoca il rischio di una inclusione subalterna della classe operaia nel ‘centro’ capitalistico, e guardava piuttosto alle lotte nella ‘periferia’, Napoleoni si era andato convincendo che l’approfondimento del conflitto di classe nel ‘centro’ del capitalismo finiva col dare alle lotte un contenuto antagonistico. Mentre la posizione di Baran e Sweezy non è lontana da quella di Michał Kalecki in un articolo sulla ‘riforma fondamentale’ del capitalismo scritto con Tadeusz Kowalik, e pubblicato in italiano nel 1971 su Politica ed economia, la rivista diretta da Antonio Pesenti33, quella di Napoleoni è conforme a quella del Kalecki del 1943-1944, che contesta che sia possibile un capitalismo di piena occupazione e alti salari quale stato di cose permanente, in quanto ciò eroderebbe alla lunga il dispotismo capitalistico nei luoghi di produzione34.
Una continuità – per così dire, malgré soi – di Napoleoni con Kalecki può essere individuata su due punti chiave. Il primo è che la sua teoria della crisi da realizzo ha aspetti ‘sottoconsumistici’ solo nel nome. Come lui stesso fa rilevare, non sono certo i bassi salari la causa della crisi, né direttamente il basso consumo delle masse è il fattore determinante, se non in una catena di mediazioni: il nodo è semmai l’incapacità degli investimenti (e più in generale della domanda ‘autonoma’) di colmare il divario. Si tratta insomma, come nella Luxemburg secondo l’interpretazione di Joan Robinson, di una teoria della crisi da sotto-investimento35. Se è indubbio che una distribuzione del reddito più egualitaria favorirebbe un’espansione della domanda, si può dubitare che una wage-led recovery possa darsi come soluzione di una grande crisi capitalistica, come quella attuale, mentre essa certo è un possibile sollievo congiunturale dentro un capitalismo che ha però in altro la sua locomotiva. L’uscita dalla crisi richiede, detto altrimenti, un qualche traino da parte della domanda ‘autonoma’.
Il secondo punto su cui si può sostenere una sintonia tra Napoleoni e Kalecki è proprio nell’interpretazione della crisi dei primi anni settanta – nonostante il fatto che l’argomento di Napoleoni sia declinato all’apparenza sulla base di una priorità del plusvalore rispetto agli investimenti. Una lettura di questo genere della posizione di Napoleoni fu data, per così dire ‘dal vivo’ (e cioè a ridosso degli interventi dell’economista abruzzese), da Augusto Graziani:
“[u]na seconda visione, di natura strettamente marxiana, assegna invece alle lotte operaie come unico sbocco possibile quello di condurre a un sovvertimento del sistema economico e politico, e quindi al superamento del sistema capitalistico. Secondo tale modo di vedere, l’aspetto caratterizzante del sistema capitalistico è dato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Ciò significa che ogni aggiunta al capitale produttivo (e cioè ogni investimento) deve necessariamente tradursi nel fatto che i nuovi beni strumentali vengono attribuiti ai capitalisti come proprietà privata. Ciò comporta a sua volta che i capitalisti, dovendo acquisire in proprietà privata tutti i nuovi beni strumentali e cioè tutti gli investimenti, vengono automaticamente a realizzare profitti nella stessa misura degli investimenti eseguiti. Tutte le volte in cui i lavoratori tentano di comprimere i profitti, essi vengono automaticamente a spossessare la classe dei capitalisti di parte dei mezzi di produzione. Il che equivale a privare il sistema capitalistico del suo connotato fondamentale” (Graziani, 1975, p. 8).
Il riferimento a Kalecki è implicito ma chiaro. Secondo la lettura che ne dà lo stesso Graziani nel primo volume di Teoria economica dedicato a Prezzi e distribuzione, il margine di profitto alla Kalecki deve essere fissato (nel modello più astratto) in modo che gli imprenditori acquisiscano tutti i nuovi mezzi di produzione prodotti, e cioè il totale degli investimenti nel periodo: il margine di profitto deve cioè essere tale da determinare profitti pari agli investimenti.36 Nella misura in cui il conflitto sul salario e ancora di più sul tempo di lavoro impedisce che ciò si verifichi, ciò non è riducibile a mera questione distributiva ma comporta la messa in crisi del rapporto di capitale (si tratta di una posizione anticipata da Rosa Luxemburg, 1971, nell’Introduzione all’economia politica).
Kowalik ha riconosciuto37 in seguito che la posizione sua e di Kalecki, come anche quella di Sweezy, sottostimavano le contraddizioni del capitalismo ‘centrale’ di quegli anni. Su questo all’epoca lo sguardo di Napoleoni era più lucido. C’è però un ‘ma’. Quello sguardo era oscurato dalla mancata percezione che alla situazione di crisi ‘sociale’ del capitale di allora sarebbe inevitabilmente seguita una fase di lunga ristrutturazione dell’economia e della società capitalistiche. Napoleoni percepisce il mutamento del rapporto di classe favorevole al lavoro come sostanzialmente permanente, per cui la sua lucidità iniziale presto si traduce in una sostanziale cecità nei confronti delle metamorfosi dell’universo capitalistico che andava maturando sotto i suoi occhi.
5. Il Capitale monopolistico secondo Sweezy
Le ragioni per cui secondo Baran e Sweezy il capitalismo nell’era degli oligopoli approfondisce il problema della realizzazione non hanno nulla a che vedere con la vulgata sottoconsumistica o con uno stagnazionismo alla Alvin Hansen. La tesi è opposta: la svolta ‘monopolistica’ del capitalismo amplifica a dismisura il potenziale di crescita e per questo riproduce su scala allargata lo squilibrio tra produzione e circolazione. La tendenza alla stagnazione nasce proprio dalla spinta dinamica che il capitale monopolistico nutre in sé, ed è battuta da significative e distruttive controtendenze, le quali, pur vincendo la deriva verso la stagnazione, la riproducono con più forza, conducendo a spreco e irrazionalità. Il perno della costruzione è la sostituzione della tendenza alla crescita del surplusalla tendenza alla caduta del saggio di profitto.
La definizione dell’‘era’ del capitale monopolistico è data in questi termini: si tratta di quella fase dello sviluppo capitalistico in cui le grandi imprese hanno il potere di determinare i prezzi di ciò che vendono e di ciò che acquistano. Gli oligopoli, grazie alla leadership sui prezzi, possono agire come monopolisti. Si tratta di un’epoca iniziata alla fine del XIX secolo, in forza della centralizzazione e concentrazione del capitale che sono il portato dello stesso capitalismo di ‘libera concorrenza’, fondato sulla concorrenza sul prezzo. Il grado di monopolio e la battaglia sulla qualità del prodotto divengono centrali per comprendere la dinamica capitalistica e le sue contraddizioni. Nella nuova forma della concorrenza la lotta tra i molti capitali procede per la via dell’abbassamento dei costi unitari grazie al cambiamento tecnico e organizzativo, alla pubblicità, e più in generale a tutti quei mezzi che possono contrastare l’entrata sul mercato di altre imprese o indurre il consumo in una direzione o in un’altra. I modi per assorbire il surplus sono essenzialmente due: il gonfiamento delle spese improduttive nelle imprese monopolistiche, e la spesa pubblica keynesiana di natura militare.
Come si è ricordato, Sweezy ha negato che vi fosse alcuna intenzione di distaccarsi dalla teoria del valore-lavoro. Nella intervista che abbiamo più volte citato, Sweezy afferma che con Baran avevano previsto di pubblicare un paio di capitoli sulla loro reinterpretazione della teoria marxiana del valore-lavoro. Quando Baran morì, i capitoli erano allo stadio di manoscritto incompleto, e Sweezy ritenne che non fosse opportuno rielaborarli da solo per la pubblicazione. Oggi siamo avvantaggiati dal fatto che nel numero di luglio-agosto della Monthly Review è stato pubblicato un ‘capitolo mancante’, preceduto da una introduzione di John Bellamy Foster.38 Uno dei punti più interessanti riguarda la teorizzazione del salario. Baran e Sweezy dichiarano di essersi ispirati a Produzione di merci a mezzo di merci39, alle parti in cui il salario è considerato una quota variabile del prodotto netto e non è risolto in mezzi di sussistenza. Sraffa aveva affermato che, a rigore, bisognerebbe considerare entrambe le dimensioni (sussistenza e partecipazione al valore aggiunto), ma che ragioni di semplicità nella trattazione matematica lo avevano indotto a considerare il salario soltanto come quota relativa del sovrappiù. In modo analogo, il Capitale monopolistico tratta il salario come variabile, e sostiene che parte del sovrappiù può nascondersi nel ‘prezzo’ della forza-lavoro. In questa situazione il capitale monopolistico può accrescere il surplus non soltanto a danno degli altri capitali (perdenti nella guerra dei prezzi) ma anche a favore del salario, visto che quest’ultimo assorbe frazioni del sovrappiù che possono aumentare o diminuire.
Attraverso il salario il surplus trova uno sbocco che si dissimula come costo40. Il fatto che i lavoratori possano acquistare una quantità maggiore di valori d’uso non comporta affatto che vi sia di per sé un miglioramento nelle loro condizioni di vita41. Inoltre, il punto di vista di Baran e Sweezy sulla retribuzione dei lavoratori nel capitale monopolistico consente di vedere i profitti come almeno in parte dipendenti da una “deduzione” dal salario, visto che la determinazione oligopolistica dei prezzi e lo stesso assorbimento del surplus danno luogo a un prezzo della forza-lavoro più elevato rispetto al suo valore (inteso da Baran e Sweezy come minimo irriducibile per consentire la normale riproduzione della capacità lavorativa) ma che è al tempo stesso inferiore rispetto a quanto sarebbe stato possibile (se i monopoli non avessero taglieggiato il salario reale attraverso la manipolazione dei prezzi). Come scrive Sweezy in una lettera a Baran, i lavoratori hanno successo nell’appropriarsi parte del surplus, ma ciò non impedisce che i capitalisti possano tentare (spesso riuscendovi) di ‘rubare’ parte diquel salario, riprendendosi indietro il plusvalore42.
6. Il ‘neoliberismo’ e la ‘finanziarizzazione’
Non possiamo che chiudere qui la ricostruzione di questo significativo episodio intellettuale, rimandando ad altre occasioni uno sviluppo di questi temi. Ci limitiamo a poche osservazioni su quanto rimane inevitabilmente in sospeso, e che pure ci sembra importante accennare per chi fosse interessato a uno sviluppo in positivo della teoria marxiana, fuori dalle secche della discussione sulla teoria del valore come teoria dei prezzi, e la veda invece innanzi tutto come teoria delle leggi di movimento del capitalismo nelle sue cangianti incarnazioni storiche.
Lo Sweezy dei decenni successivi, insieme a Magdoff, ha apportato un’integrazione importante alla propria teorizzazione sul capitale monopolistico, insistendo sui temi della finanziarizzazione e del ruolo cruciale del debito: su questa pista, più che i keynesiani, un loro interlocutore è stato, esplicitamente, Hyman P. Minsky43. Per intendere adeguatamente il ‘nuovo capitalismo’ come economia del debito, e per non separare questa gamba finanziaria del ragionamento dalle trasformazioni del lavoro nel processo e nel mercato del lavoro, è a Sweezy e Minsky che dobbiamo rivolgerci, almeno in parte.44 A queste problematiche Napoleoni ha prestato la dovuta attenzione, e ha anzi presto abbandonato il terreno dell’analisi economica in senso stretto. È difficile, d’altra parte, non trovare realistiche le considerazioni di Sweezy nell’intervista a Savran e Tonak sulla situazione sociale nel ‘centro’ capitalistico, non poco mutata negli ultimi trentacinque anni, dopo la controrivoluzione di Volcker, Thatcher e Reagan:
“Penso che la teoria marxista tradizionale sia troppo ottimista nel complesso. Credo che abbia sottostimato non solo l’integrazione della classe lavoratrice nel sistema, ma anche la frammentazione della classe lavoratrice, lo spezzarsi delle sue componenti, che non si relazionano più nella maniera che i marxisti ritenevano normale. I marxisti pensavano che proprio il processo capitalistico avrebbe teso a omogeneizzare la classe lavoratrice, unendo i lavoratori e fornendo loro maniere simili di guardare il mondo, una psicologia comune, una coscienza di classe comune. Non sembra accadere da nessuna parte” (Savran e Tonak, 1987).
Il che significa che l’antagonismo di classe (o la sua integrazione) non è un dato, e neanche l’esito spontaneo della dinamica capitalistica: è l’esito di una lotta possibile, dentro condizioni ogni volta diverse.
Napoleoni non ha avuto il tempo per vedere dispiegarsi per intero i caratteri spesso inediti della risposta capitalistica alla crisi degli anni settanta. Da un lato, la frantumazione del lavoro: precarizzazione nel mercato e nel processo di lavoro, concorrenza aggressiva dei global player e sovracapacità, centralizzazione senza concentrazione, imprese modulari articolate reticolarmente, catene transnazionali della produzione, delocalizzazioni e in-house-outsourcing, lavoro migrante, e così via. Dall’altro lato, la finanziarizzazione: favorita da globalizzazione dei capitali, cambi flessibili e incertezza, il capitalismo dei fondi istituzionali ha determinato un’inflazione del prezzo delle attività-capitale in senso lato, e ha fatto esplodere il debito privato, in particolare il debito al consumo. La finanziarizzazione, a sua volta, ha accelerato la decostruzione del mondo del lavoro per mille vie, incidendo potentemente sui processi reali di valorizzazione. Si è approfondito lo sfruttamento nei luoghi di lavoro, con una simbiosi di estrazione di plusvalore relativo e assoluto.
La crisi che ne sarebbe potuta conseguire è stata a lungo posposta grazie a politiche monetarie di grande attivismo (la banca centrale come prestatrice di prima istanza), che hanno innescato a ripetizione bolle speculative nei mercati finanziari o nel mercato immobiliare. La crescita del valore delle ‘attività’ ha spinto verso l’alto la domanda interna nell’area del capitalismo anglosassone grazie al consumo indebitato, consentendo ad altre aree (tra cui parti significative del nostro apparato produttivo) di praticare politiche ‘neo-mercantiliste’, che consentivano di crescere grazie al traino delle esportazioni nette. È insomma grazie a una vera e propria sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito che si è potuta sostenere la domanda effettiva a dispetto della compressione dei salari. Il mondo del lavoro è stato consegnato all’insicurezza e alla frammentazione, e su di esso si scaricavano rischi e margini di aggiustamento.
Tutto questo non può che essere fuori dall’orizzonte di Napoleoni, per ragioni storiche e anche per ragioni teoriche. Eppure, a ben vedere, conferma una verità interna della sua posizione, e costituisce il prolungamento del suo discorso sulla teoria della crisi. Lo sviluppo del capitalismo neo-mercantilista e la crescita dell’economia reale globale del cosiddetto neoliberismo sono stati legati a filo doppio alle armi di distruzione di massa della finanza ‘perversa’. Anche questo nuovo volto della ‘rendita’ ha mostrato di essere, a un tempo, contraddittorio e funzionale all’accumulazione. Il capitale ha confermato la sua tendenza totalitaria a includere il lavoro nelle sue varie forme, senza peraltro riuscire a ridurre lo spreco. Tutto ciò ha inevitabilmente dato vita a un meccanismo non solo instabile ma anche insostenibile, facendo riemergere in forme nuove la tendenza alla crisi sistemica del capitale.
Per uscirne è necessaria una ridefinizione strutturale del modello di economia e di società. Certo, contrariamente a quel che pensava Napoleoni, questo intervento qualitativo, questo nuovo modello, pare potersi affermare solo per il tramite di politiche di spesa pubblica in disavanzo, finanziate monetariamente. Rimane vero però che non ci si può limitare a un’impossibile replica del vecchio keynesismo dell’espansione generica, non finalizzata, della domanda effettiva, che darebbe luogo a una crescita più che a un autentico sviluppo, non risolvendo al fondo nessuna delle contraddizioni che ci hanno portato a questo nuovo bivio storico.
A ben vedere, prima inclusi dal neoliberismo e poi messi a rischio dalla sua crisi, sono stati, e sono, non soltanto il consumo e il risparmio. Sono stati, e sono, in un elenco tutto meno che esaustivo, anche abitazioni, istruzione, pensioni, sanità, lavoro di cura. Prosegue intanto l’abbattimento del salario e la dilatazione del tempo di lavoro, l’aggressione al corpo e alla vita dei lavoratori, sino alla spoliazione della stessa natura. In una parola, in gioco sono ormai le condizioni di esistenza e riproduzione degli esseri umani nella loro integralità.
Per questo – ancora un tema minskiano ma che per certi versi si ritrova in alcuni momenti della riflessione di Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini – la nuova crisi sistemica ci squaderna davanti l’esigenza, ma anche il compito, della socializzazione della banca e della finanza, dell’investimento, dell’occupazione, per provvedere diversamente ai bisogni sociali. Il nodo rimane quello a cui approdava sempre il discorso di Napoleoni. Riconoscere le compatibilità capitalistiche, operare per una loro rottura, intervenire politicamente sulla natura e la struttura del processo economico: sulla base di una spinta e di un vincolo sociale, e a partire da una ridefinizione qualitativa e non solo quantitativa della spesa pubblica. Mettere in questione non solo ‘quanto’ e ‘per chi’ ma prima ancora ‘cosa’ e ‘come’ si produce.
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