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manifesto bologna

I ritorni di Marx*

di Aldo Tortorella

I seppellimenti e i ritorni di Marx nelle letture e nelle vicende storiche e politiche nel Novecento. La interpretazione antideterministica di Gramsci e la rivalutazione del ruolo della soggettività. Marx, un autore mosso da una potente ma misconosciuta carica etica

TYP 465971 4815891 marx gI seppellimenti e i ritorni di Marx nelle letture e nelle vicende storiche e politiche nel Novecento. La interpretazione antideterministica di Gramsci e la rivalutazione del ruolo della soggettività. Marx, un autore mosso da una potente ma misconosciuta carica etica. Di un ritorno, quasi una moda, di Marx si è largamente parlato dopo l’inizio della grande crisi aperta nel 2008 dal fallimento della Lehman Brothers e dal rischio fallimentare di altre grandissime banche americane – poi salvate coi soldi pubblici, a testimonianza di un meccanismo, detto per convenzione liberistico, specializzato nel privatizzare i profitti e socializzare le perdite.

La stampa e la diffusione dei testi di Marx si moltiplicò in tutto il mondo, si manifestarono nuovi movimenti ispirati direttamente o indirettamente ad una critica del capitale finanziario, trovò vastissima eco la ricerca di Piketty, non marxista, sul capitale nel XXI secolo e sulla sua concentrazione nello stesso modo e nelle stesse mani di sempre, un tema d’interesse marxiano. Più recentemente la conferma di un ritorno è avvenuta da una fonte insolita ma sensibile allo spirito dei tempi com’è il mondo dell’arte visiva, con la dedica a Marx della Biennale di Venezia di quest’anno, compresa una lettura pubblica e sistematica del testo del Capitale.

La parte maggiore della nostra ineffabile stampa quotidiana ha trattato l’argomento quasi come una sorta di stranezza del curatore nigeriano, il quale – Okwi Enwezor – è, in realtà, uno dei più rilevanti intellettuali americani della materia, illustre docente universitario e creatore delle più grandi mostre d’arte del mondo. Il suo testo di presentazione della biennale, ispirato alla lettura di Walter Benjamin dell’Angelus novus di Klee, rende conto con scrupolosa acribia dell’origine e del significato del richiamo a Marx : «Il capitale – scrive – è il grande dramma della nostra epoca. Oggi incombe più di ogni altro elemento in ogni sfera della esistenza…, determinando sia «lo stato dei fatti» sia il modo di guardarli.

Il Capitale di Marx fin dalla sua uscita – aggiunge – ha coinvolto non solo politici, economisti, filosofi, ma artisti e la mostra di Venezia, dunque si ripromette di far percepire – dice – «l’aura, gli effetti, le ripercussioni e gli spettri del capitale». Che il programma sia riuscito o no è e sarà, certo, oggetto di discussione, ma è ben provata la validità di un ritorno a chi per primo ha messo sotto esame, appunto, il fondamento del mondo contemporaneo e ne ha intravisto le conseguenze.

Dopo l’89 L’ultimo seppellimento ufficiale, che pareva quello definitivo, era avvenuto con la fine dell’Unione Sovietica. Molte orazioni funebri vennero pronunciate da pubblicisti e pensatori di vario genere. Tra le formazioni politiche della sinistra storica di antica provenienza terzinternazionalista, ma anche nei partiti socialisti, e tra molti degli intellettuali che si erano o si supponevano vicini ad esse vi fu una gara a smentire ogni rapporto con Marx.

In Italia, come si sa, ha luogo la metamorfosi del Pci, partito programmatico ma di ispirazione marxiana attraverso la rielaborazione di Gramsci. Nella socialdemocrazia tedesca il ripensamento del programma di Bad Godesberg – e cioè del totale ripudio del marxismo – iniziato negli anni di Brandt, e proseguito da Oskar Lafontaine, si chiuderà con il “nuovo centro” di Schroeder. In Inghilterra Blair toglierà di mezzo l’articolo dello statuto che prevede come finalità il superamento della proprietà capitalistica.

Qui da noi, nell’aneddotica di quella precipitosa trasformazione c’è anche un posto per la nostra rivista Critica marxista, riscattata al prezzo di una lira e così salvata dall’autodafé collettivo, e fatta rinascere a una nuova vita. Il compito che iscrivemmo nella testata, e che ha un momento anche nel convegno di oggi, fu quello di «ripensare la sinistra» – tema, come si vede nella vicenda quotidiana, non mai esaurito. Parve allora ad alcuni di noi, oltre ad altre considerazioni, sommamente ingiusto che si considerasse il vecchio Marx quale responsabile sia pure ultimo dei destini tragici del sistema sovietico giunto al crollo oppure degli errori che i comunisti italiani potevano aver compiuto.

Un’ingiustizia perché c’erano stati tra i critici più fermi del modello sovietico tanti eccellenti studiosi di Marx (compresi parecchi italiani), tutti i marxisti perseguitati dallo stalinismo, oltre che politici che si dichiaravano da lui ispirati (compresi, sia pur tardivamente, i massimi dirigenti del Pci). Ma anche un errore perché ci sembrava che il suo pensiero – e il tentativo di usarlo criticamente come già suggeriva il nome della rivista – fosse indispensabile proprio al fine di un rinnovamento radicale delle idee e delle pratiche politiche della sinistra.

Un rinnovamento indispensabile, ma da qualificare, sia per il mutamento della realtà economica e politica globale con la vittoria planetaria del modello capitalistico sia per le trasformazioni nei sistemi produttivi, nelle esistenze e nelle relazioni umane indotte dalle scoperte scientifiche e dalla rivoluzione tecnologica di fine secolo. Nel Novecento La vicenda degli improvvidi seppellimenti e dei ricorrenti ritorni in vita di Marx comporterebbe, credo, una ricerca distinta da quelle sui molti marxismi, la cui storia, iniziata già durante la vita di Marx, e oggetto di una sterminata bibliografia, è largamente riassunta, da noi, almeno sino all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, nell’opera collettanea concepita e curata per Einaudi da Hobsbawm e altri.

Lo studio dei certificati di morte del pensiero di Marx , che si accompagnano ai momenti di maggiore successo delle varie esperienze economiche, sociali e politiche dell’assetto capitalistico, non mi parrebbe meno rilevante di quello delle sue resurrezioni successive alle grandi crisi o alle catastrofi delle guerre. Se all’inizio, al tempo della borghesia trionfante e del colonialismo imperante, le stroncature dell’analisi economica e sociale di Marx, mosse dall’ottimismo scientista e industrialista, appartenevano ad una discussione teorica sulla legge del valore, sull’impoverimento assoluto, sull’esito delle crisi cicliche, dopo la rivoluzione d’ottobre la rimozione o le condanne dell’analisi marxiana si associavano largamente all’avversione verso lo stato sovietico nascente.

Ma così come lo scoppio della prima guerra mondiale aveva fatto giustizia almeno di alcune delle più avventate critiche – come quelle che supponevano una relativa facilità nel superamento delle crisi cicliche senza contemplare il rischio del ricorso alla guerra – e aveva generato le lotte rivoluzionarie del dopoguerra, allo stesso modo la crisi del ’29 portò con sé una ripresa dell’analisi marxiana e una critica approfondita al liberismo economico.

Allora, come si sa, i ceti dirigenti e le classi dominanti anglosassoni fecero fronte alla crisi con le analisi di Keynes e le riforme di Roosevelt nel mercato dei capitali, mentre nell’Europa continentale gran parte delle borghesie nazionali promuovevano il nazismo e i fascismi e mentre nel mondo sovietico la collettivizzazione forzata delle campagne e la repressione dei dissenzienti generava i terribili drammi che si conoscono. Venne di qui un nuovo tempo di antimarxismo unito con l’antisovietismo, con l’apprezzamento in Occidente dei successi nelle politiche interne di nazisti e fascisti – e l’abbandono della repubblica spagnola ai franchisti – fino a che la nuova e spaventosa guerra mondiale e l’alleanza internazionale antifascista nuovamente rovesciavano la scala dei valori e spingevano a nuovo interesse per Marx una parte della intellettualità e delle nuove generazioni maturate durante il conflitto e la resistenza.

Era ancora, però, un interesse in cui l’immagine di Marx si mescolava con quella del paese della battaglia di Stalingrado e della bandiera rossa sul Reichstadt, il paese in cui, sia pure con tragedie terribili, per la prima volta si era venuta sperimentando la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio. Una mescolanza che veniva ribadita dalle nuove rivoluzioni nella gigantesca Cina e nella piccola Cuba. Anche la grande ribellione giovanile del ’68 mossa dall’antiautoritarismo, avendo sullo sfondo il Vietnam di Ho ci min non rinunciava a ispirarsi alle rivoluzioni passate, sia pure talora, ma non sempre, guardando ai dissenzienti perseguitati più che ai vincitori.

In modo eguale e contrario, per tutto il tempo della guerra fredda la polemica antimarxista fioriva e si sviluppava avendo sullo sfondo quella medesima sovrapposizione di immagini: si parlava di Marx ma si pensava – o ci si riferiva – a Stalin, a Mao, a Castro. Il successo della idea promossa da Isaiah Berlin della libertà puramente negativa (cioè come rifiuto totale di ogni intromissione pubblica diversa dalla salvaguardia della vita e dei beni) ha sullo sfondo, appunto, la inaccettabilità di un modello di statalismo assoluto e di diniego delle libertà, così come l’idea, propagandata dalla Thatcher, che la società è nozione puramente astratta mentre l’unica cosa concreta sono gli individui ha come bersaglio la stessa nozione di stato sociale, visto quasi come anticamera del collettivismo a modello sovietico. In realtà, quella sovrapposizione, sebbene quasi fatale, era sostanzialmente arbitraria.

Già nei giorni del novembre del 1917 un giovane socialista italiano di grande ingegno, che sarà poi tra i fondatori del Pci, aveva capito e scritto che quella rivoluzione d’ottobre – di cui lui come milioni di persone nel mondo appariva entusiasta – era, in realtà, una rivoluzione proprio contro il Capitale di Carlo Marx. Gramsci distingueva, in quel ben noto articolo sull’Avanti!, un Marx «contaminato dal positivismo e dal naturalismo» da un Marx erede, come dice, «del pensiero idealistico italiano e tedesco». Il primo sarebbe l’autore della idea secondo cui viene prima la borghesia capitalistica, la sua maturità e la sua crisi e solo alla fine la trasformazione socialista – e contro questo Marx, appunto, avveniva la rivoluzione d’ottobre.

All’opposto, il secondo Marx «che non muore mai», insegnava, secondo il giovane Gramsci, che «il massimo fattore della storia» non è dato dai «fatti economici bruti» ma dai rapporti tra gli esseri umani, «dalla società degli uomini» che «sviluppano una volontà collettiva», la quale «plasma la realtà oggettiva che vive , si muove, acquista il carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace». I tempi non sono obbligati, dunque, e la maturazione della consapevolezza e volontà rivoluzionaria degli sfruttati, molto lunga in tempi normali, poteva avere delle accelerazioni dovute a speciali motivi – in quel caso la guerra mondiale. Sfortunatamente, il volontarismo assoluto che ispirava quell’articolo nato sull’onda di una emozione e che non apparteneva al vecchio Marx, non poteva bastare e anzi, come poi si vedrà, poteva rivolgersi contro se stesso. E, infatti, Gramsci, poi, lavorò a lungo nei quaderni del carcere su quel celebre passo della Prefazione alla Critica della economia politica – in cui Marx parla delle condizioni per cui si esauriscono le vecchie formazioni sociali e nascono le nuove, un brano che egli stesso traduce:

«Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive, per le quali essa è ancora sufficiente, e nuovi, più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno della vecchia società. Perciò l’umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; (se si osserva con più accuratezza, si troverà sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire)».

Gramsci interpreterà questo brano spogliandolo dalla possibile lettura deterministica, ma ha provato la sua acutezza di pensiero vedendone la sostanza e cioè una critica delle fantasticherie che, al medesimo tempo, definisce il terreno reale dello scontro politico e ideale, e non annulla il ruolo delle soggettività politiche. Marx aveva così poco a che fare con il modello sovietico che la vulgata assunse il nome di “marxismo-leninismo” cui si aggiunse, poi, il suffisso “stalinismo”, in modo da stabilire una sorta di canone immutabile.

Il che, come dovrebbe essere ovvio, era cosa non solo lontana ma opposta ad ogni forma di pensiero critico – entro cui anche Marx è iscritto tra i maggiori. Tuttavia quella mescolanza e sovrapposizione culturalmente indebita era praticamente quasi inevitabile data l’origine ideale dei promotori delle rivoluzioni di tipo socialista, e ciò spiega la presunzione dell’affossamento definitivo di Marx all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, del suo smembramento, della trasformazione della Russia in un paese di capitalismo più o meno selvaggio. L’avvio della Cina in una analoga direzione, nonostante la bandiera rossa, completò l’opera.

Addirittura si parlò di fine della storia, nel senso che il modello vincente non avrebbe più avuto alternative. Era una forma di autoinganno dei vincitori. I motivi di fondo che avevano mosso la ricerca di Marx non erano venuti meno, nonostante gli abissi tecnologici che ci separano da lui. Per questo c’è il nuovo ritorno, ma se non si ricordano i precedenti non si può intendere la differenza. Ben scavato, vecchia talpa.

Oggi, non c’è più alcuna illusione che da qualche parte della terra sia stata trovata la formula del mondo nuovo o che la marcia non più considerata ineluttabile verso il socialismo sia già incarnata in una formazione sociale. Il capitalismo ha mostrato la sua capacità di smisurato sviluppo quantitativo e di adattamento, come Marx aveva previsto, fondando sul desiderio (cioè l’individuo) e sulla scelta (cioè il libero arbitrio). La proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, al tempo e al luogo in cui fu tentata, si è trasformata in proprietà statale e questa in proprietà burocratica, e i burocrati in capitalisti di rapina.

Se qualcuno lo levasse, l’appello all’unità proletaria, già disatteso nelle trincee della prima guerra mondiale, suonerebbe estraneo alla realtà di un mondo in cui, pur con una quantità di operai mai vista, il lavoro necessario continuerà a decrescere, la concorrenza al ribasso è già micidiale, la frammentazione si moltiplica, la miseria tracima e genera reclute in abbondanza per i promotori di guerre. Vale a dire, in breve, che questa volta il ritorno a Marx non presume di poggiare su dati acquisiti o su facili speranze, e non può non avere la qualità matura del disincanto.

Nasce, inoltre, questo ritorno, dal rapido esaurimento delle promesse implicite nella nascita di un mondo unificato sotto il segno del capitale finanziario. La fine della guerra fredda con la vittoria di uno dei contendenti non ha aperto la strada verso la pace perpetua e un lineare progresso. Al contrario, è ritornato il confronto tra le potenze e la molteplicità delle guerre appare come una guerra mondiale strisciante, potenzialmente esplosiva. La supposta capacità auto- 3) Cfr. F. Frosini, Prefazione del ’59, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano 1926-1937, Roma, Carocci, 2009, p. 661. 4) A. Gramsci, Appendice. Estratti dai Quaderni di traduzione, in Id., Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Roma, Einaudi, 1975, p. 2359. regolatrice del mercato è fallita.

L’idea di uno sviluppo infinito si è scontrata con i limiti fisici del pianeta e mette a rischio le condizioni stesse della vita. Non mutano, anzi in molti casi aumentano, le distanze tra paesi ricchi e quelli poveri e, in ciascun paese, tra i molto ricchi e la gran massa degli altri. Si viaggia tra le stelle ma troppa gente continua a morire di fame e sembra un peso spropositato accogliere chi scappa dalla guerra e dalla miseria. Il pontefice della Chiesa cattolica ha dovuto spiegare che quando parla in difesa dei poveri e contro gli immoderati guadagni non lo fa perché è comunista ma perché si ispira al Vangelo. E ha dovuto reinterpretare la Scrittura per spiegare che all’uomo non è stata regalata la terra e gli animali che la abitano per rovinare l’una e torturare gli altri a suo piacimento ma per proteggerli.

Verrebbe da pensare, con il massimo rispetto, «Ben scavato, vecchia talpa». In verità, Amleto dice «ben detto, vecchia talpa» allo spettro del padre che in quel momento ammoniva dal sottosuolo: era, s’intende, la voce del passato sepolto e ignorato che torna per dire ciò che sa e andarsene in pace. Mentre per Marx, che nel 18 Brumaio citava a memoria, la talpa che scava bene, come si sa, è l’immagine della rivoluzione che opera sotto traccia. Per noi, forse, la parola dello spettro sotterraneo è proprio quella di Marx ora liberata dal peso di qualcosa che non le apparteneva e aiuta anche chi gli è lontano od ostile. Una voce, anche, udibile meglio dopo tanto lavoro di interpretazione.

Per noi, ma non solo per noi, giova innanzitutto la lettura che ne ha fatto Gramsci che ha insegnato a capire, tra l’altro, la influenza reciproca tra la base materiale, economica, della società e l’insieme dei fenomeni detti sovrastrutturali nel lessico della tradizione. E hanno giovato anche tutti i lavori che hanno consentito di superare gli anacronismi e collocarlo nel tempo suo e dentro la sua cultura, mettendo in luce, ad esempio, la difficoltà di questa di guardare all’individuo non solo socialmente determinato o la incomprensione della influenza dell’ordine patriarcale nella determinazione del maschile come inaccettabile valore assoluto.

Un pensiero non rimane indefinitamente presente perché è senza tempo, ma perché, stretto nei limiti del tempo, della cultura e della vita del suo autore, apre una finestra nuova per guardare la realtà. Oramai nessuno, per di più incolpevole, beve la cicuta per rispettare la legge della città, anzi quanto più sono colpevoli tanto più se la spassano. Ma nessuno può contestare che il povero Socrate sia uno degli inventori primi dell’etica, compresa quella pubblica. E così è per Marx. Considerandolo una specie di Bibbia, lo si usa, ovviamente, contro se stesso, magari per avallare improbabili o perniciose dottrine altrui, come in effetti è accaduto (e accade).

Visto entro i suoi limiti e le sue lacune studiate per tanti anni, di cui anche in questo incontro si parlerà, torna l’attualità di chi, appunto, ha scoperto nel capitale la forza dirompente e insieme, com’è stato detto, il dramma del nostro tempo, e ha insegnato a guardare l’edificio della realtà umana a partire dalle fondamenta, cercando di vederla per quello che è e non per quello che ci si immagina che sia. Carica etica Può tornare, così, l’autore mosso da una potente ma misconosciuta carica etica che spezza l’ipocrisia delle anime belle compiaciute delle proprie virtù vere o presunte ma incapaci di guardare alle origini dei mali che a parole deprecano. La scuola di pensiero di origine kantiana che sottolineava, agli inizi del secolo passato, questo lato di Marx fu sommersa da chi lo riteneva l’autore di una scienza esatta, tema poi ritornato costantemente.

La sua analisi scientifica, come ogni altra, è condizionata dal livello di conoscenze a quel tempo raggiunte e dunque può essere continuamente in parte smentita in parte corretta, ma, essendo l’oggetto cui si riferisce quello della relazioni sociali – e dunque in ultima istanza tra le persone – non sarebbe mai neppure nata se non fosse stata mossa da una indignazione e da una passione. La indignazione per la sorte riservata agli ultimi e ai penultimi dei costruttori dei beni indispensabili alla vita e ad una buona vita, la passione per la libertà di ciascuno e di tutti. Le relazioni tra Marx e Spinoza, studioso delle passioni, riempiono ormai una biblioteca.

Il lavoro cambia, muta il sistema di formazione o di occupazione delle coscienze, i dominati possono ignorare di esserlo o persino felici di esserlo, ma senza quella indignazione e quella passione sinceramente vissute, non si può fare azione politica, meno che mai quella detta di sinistra. Può tornare, oggi, l’autore che studiava il presente pensando all’avvenire forse nel convincimento, come taluni osservano, di una storia a sbocco determinato, ma che disse di non voler fare e non fece mai il pasticciere dell’avvenire, l’autore di un’opera aperta non tanto perché non conclusa ma perché così concepita: e perciò Marx disse di non essere marxista, sapendo che il proprio metodo critico avrebbe dovuto riguardare anche l’opera sua.

Non si tratta di tentare non si sa quale nuova ortodossia, ma di leggerlo senza lenti deformanti per essere aiutati a capire l’origine dei problemi angosciosi del presente. E anche per essere indotti ad una autocritica più profonda. Questo mondo in pericolo è quello forgiato e dominato dal capitale ovunque vincente e fiorito innanzitutto nei luoghi della civiltà che non può non dirsi ispirata dalla cristianità, non solo quella protestante ma anche l’altra maggioritaria qui da noi, seppure cresciuta nella scarsa fedeltà o nella ignoranza del Vangelo, come autorevolmente ci viene ora detto.

È questa civiltà occidentale oggi in discussione. E all’assalto degli integralismi dei perdenti non si può rispondere, pena la catastrofe, con l’integralismo dei vincenti. Questo mondo super armato si viene ora chiudendo arcignamente, come da ultimo ha provato persino la Svizzera, anziché guardare in se stesso e tendere a correggere le proprie storture considerandole causa di quelle altrui. La tendenza all’uso immoderato della forza diviene sempre maggiore, con i rischi che ne conseguono. Dovrebbe reagire quella che si dice la sinistra. Ma l’avere buttato via Marx non ha giovato e, anzi, ha costituito un potente incentivo a scivolare nelle braccia del neoliberismo vincente e fallimentare, sicché la distinzione tra destra e sinistra è diventata sempre più evanescente. È ovvio che non basta Marx, ma senza continuare in una analisi rigorosa, come fu la sua, del modello economico e sociale in cui viviamo continuerà a mancare il contributo che la sinistra potrebbe dare a risolvere i crescenti problemi del presente. Penso che, ad occhi aperti, Marx può essere più utile che mai a stimolare la ricerca e, anche, l’azione politica.

Introduzione al convegno I ritorni di Marx, organizzato dalla Fondazione Luigi Longo e da Critica marxista ad Alessandria, nei giorni 22-24 ottobre 2015. Questo articolo è contenuto nel fascicolo n. 5/2015 della rivista Critica Marxista

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