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La Sostanza del Capitale 2

Seconda parte: Il lavoro astratto come metafisica sociale reale ed il limite interno assoluto della valorizzazione

di Robert Kurz

Il fallimento delle teorie della crisi del marxismo dell'ontologia del lavoro e le barriere ideologiche contro la continuazione dello sviluppo della critica radicale del capitalismo. Qui la prima parte

hilferd5Soggetto ed oggetto nella teoria della crisi. La soluzione apparente del problema per mezzo di mere relazioni di volontà e di forza

Se dovessimo tornare a rivedere tutto il dibattito storico, sarebbero due realtà a richiamare la nostra attenzione. Da una parte, la fobia rispetto all'idea di limite interno della valorizzazione del valore in realtà non si trova associata a situazioni sociali dell'economia e della politica, di crisi e di prosperità. La cosiddetta teoria del collasso è stata fin dall'inizio uno scandalo ed un estremo imbarazzo, sia durante i tempi indolenti di notabili marxisti dell'impero guglielmino che all'epoca delle catastrofi delle guerre mondiali e della crisi economica mondiale, e lo è stata maggiormente nell'epoca di prosperità del dopoguerra, ed infine lo è anche oggi, di nuovo, nella crisi mondiale della terza rivoluzione industriale. Lo scandalo è rimasto, indipendentemente dalle specifiche esperienze storiche, e così l'idea di un limite assoluto immanente non è mai diventata egemone nel discorso marxista mainstream, nemmeno nel bel mezzo delle maggiori catastrofi della storia mondiale.

Dall'altra parte, però, quel che è palese è la mancanza di profondità nella riflessione teorica intorno a tutto questo dibattito, la rapidità con la quale si passa sopra il concetto di dinamica capitalista e quanto poco si tenga in considerazione tutto l'armamentario concettuale che era già rappresentato da Marx. La critica non viene poi così tanto sviluppata in maniera immanente e fondata sulla cosa in sé - in particolare sulle contraddizioni interne della riproduzione capitalista nell'ambito di un processo storico dinamico - ma pretende piuttosto di passare a lato della cosa, per arrivare il prima possibile ad un'altra cosa del tutto differente. Il grande scandalo non sta nemmeno nell'imminente rottura con l'ontologia del lavoro marxista, che alla fine non avviene da nessuna parte, dal momento che anche le teorie del collasso della Luxemburg e di Grossmann non abbandonano mai questo terreno. In ogni caso, ci deve essere stato un vago presentimento riguardo a tale problema che, a fronte della perdita della sostanza, ha trasformato questo horror vacui del marxismo del lavoro in una motivazione inconfessata.

Però è un'altra cosa quella che diventa da subito pienamente evidente e che occupa un ampio spazio in tutto il dibattito: vale a dire quello che viene sentito come una minaccia ed un affronto, cioè che un collasso oggettivo della valorizzazione dovuto alle sue stesse contraddizioni interne avrebbe potuto, per così dire, rubare il ruolo al proletariato, alla meravigliosa classe operaia, gettandola nella disoccupazione, non solo nel senso della riproduzione immediata, ma anche come soggetto storico. E' questa la causa più profonda della fobia risguardo l'idea di collasso. Qui, essenzialmente, non si tratta più nemmeno di una questione di riflessione critica sull'economia, nel contesto della teoria marxista della crisi, ma piuttosto di una coerenza ideologica di base, che può essere compresa solamente facendo ricorso alla critica ideologica, e non alla teoria della crisi.
Infatti, già Otto Bauer, nel dibattito intorno alla teoria dell'accumulazione della Luxemburg, nominerà il soggetto proletario come una sorta di testimone principale a carico contro la logica del collasso:

"Il capitalismo non crollerà a causa dell'impossibilità meccanica di realizzare il plusvalore. Soccomberà di fronte all'indignazione che esso infonde nelle masse popolari. Il capitalismo si sgretolererà, non appena l'ultimo agricoltore o l'ultimo piccolo-borghese in tutto il mondo verranno trasformati in lavoratori salariati e, perciò, non rimarrà più a disposizione del capitalismo alcun mercato da aprire; verrà abbattuto molto prima dalla crescente indignazione della classe operaia che si trova in crescita costante e che è formata, unificata ed organizzata dal meccanismo del processo di produzione capitalista stesso" (Bauer 1913).

L'argomento del soggetto proletario della volontà come deus ex machina deciderà il dibattito sulla teoria della crisi, la quale, acutizzata in teoria del collasso, viene denunciata come "oggettivista e determinista". Ora, il fatto che tale recriminazione sia diretta proprio contro Rosa Luxemburg, la quale nel frattempo era emersa come teorica della spontaneità proletaria, dello sciopero di massa e dell'attivismo rivoluzionario contro la legge dell'inerzia riformista della socialdemocrazia, finisce per costituire una vero e proprio scherzo di cattivo gusto.

Rosa Luxemburg non tarda a rispondere ad Otto Bauer, rinfacciandogli il suo opportunismo al momento della catastrofe della guerra mondiale. Proprio un simile teorico della più infame affermazione del dominio capitalista doveva mobilitare il "soggetto di classe rivoluzionario"! Eppure sta proprio qui il problema da risolvere della relazione-soggetto-oggetto nella società borghese moderna.

Rosa Luxemburg argomenta prima in maniera più difensiva, come quando nella sua Anticritica si riferisce a questo problema:

"Lo schema dell'accumulazione di Marx - se compreso correttamente - proprio nella sua irrisolvibilità, è l'esatta prognosi della rovina, economicamente inevitabile, del capitalismo come risultato del processo di espansione imperialista... Diverrà mai realtà questo momento? Ma tutto questo non è solo una finzione teorica, proprio perché l'accumulazione del capitale è un processo non solo economico, ma politico... Qui, come in altri momenti della storia, la teoria svolge il suo servizio completo nel mostrarci la tendenza dello sviluppo, il punto logico finale che indica oggettivamente. Questo non può essere raggiunto come lo è stato in qualche periodo precedente della storia dove lo sviluppo sociale poteva avvenire fino alle ultime conseguenze. Tanto meno c'è la necessità di raggiungerlo, quanto più la coscienza collettiva, questa volta incarnata nel proletariato socialista, interviene come fattore attivo nel gioco cieco delle forze. E la concezione corretta della teoria di Marx offre a questa coscienza, anche in questo caso, le proposte più fertili e l'incentivo più vigoroso" (Rosa Luxemburg, 1914).

Naturalmente il problema non viene risolto da queste osservazioni. La tendenza al collasso non avrebbe potuto anticipare il proletariato e sostituirsi ad esso, prima che questi riuscisse a mettere in pratica il suo "intervento attivo"? Dall'altro lato: il proletariato può intervenire solo perché ha alle spalle questa tendenza oggettiva? Non potrebbe arrivare all'emancipazione sociale in maniera del tutto indipendente da una simile tendenza? La relazione fra soggetto e oggetto rimane da essere chiarita; si rende solo evidente che tale relazione deve esistere e che, proprio nella sua indefinizione, può essere strumentalizzata contro la teoria del collasso. Tutto questo ha anche qualcosa a che vedere con la frequentemente citata debilitazione dell'autocoscienza umana da parte delle grandi teorie scientifiche e sociali della modernità. Se da un lato l'illuminismo incorona il soggetto autonomo come demiurgo di sé stesso, la riflessione critica, dall'altro lato, gli infligge una caduta ancora più dolorosa. Com'è noto, già Copernico aveva bandito l'essere umano dal centro dell'universo; Freud gli ha negato la piena coscienza critica di sé stesso; e in Marx il feticismo del sistema produttore di merci la fa finita anche con la soggettività politico-economica come ultimo fondamento dello sviluppo socio-economico. Queste osservazioni sono diventate da tempo i topos dei discorsi della teoria sociale. Com'è generalmente noto, lo strutturalismo e la teoria dei sistemi hanno proseguito affermativamente su questa strada dove il soggetto è soltanto un'ombra di sé stesso, o è il mero "ambiente" di un contesto sistemico autoreferenziale.

Se scendiamo su questo piano, che non ha ancora avuto l'opportunità di giocare un qualche ruolo nei dibattiti marxisti sulla teoria del collasso, il problema appare improvvisamente diminuire un po', in termini di dimensioni. Data la sua concezione speciale di "azione del soggetto", un collasso, un cataclisma della società, non faceva affatto comodo alla socialdemocrazia. Dal momento che la sua idea era quella che il crescente grado di organizzazione sociale del capitale avrebbe dovuto essere solo trasferito nelle mani dello Stato, e poi da questo nelle mani del proletariato (come avviene, ad esempio, in Hilferding), arrivando così in tutta calma, e per la via dell'azione parlamentare, al socialismo. In tal senso il desiderio riformista si nascondeva dietro l'angolo come padre del pensiero, ad esempio quando Gustav Eckstein, nella sua polemica contro Rosa Luxemburg, constatava quasi con sollievo: "Insieme ai presupposti teorici cadono anche le conseguenze pratiche, innanzitutto la teoria della catastrofe che la compagna Luxemburg aveva edificato sulla sua dottrina della necessità dell'esistenza dei consumatori non capitalisti". Tanto più acuta si rivelò la reazione di Rosa Luxemburg nella sua Anticritica, redatta subito dopo l'irrompere della vera catastrofe della guerra mondiale; ora lei si riferiva alla "catastrofe come forma di esistenza [Daseinsform]" del capitalismo imperialista.

Ma il dibattito non era riassumibile in alcun modo nell'opposizione fra la teoria "riformista" e quella "rivoluzionaria" dell'agire soggettivo. Anche le posizioni comuniste e le altre posizioni rivoluzionarie attivistiche, che in fondo non avevano bisogno di aver così paura di un cataclisma, attaccarono la teoria del collasso con veemenza ancora maggiore, a causa del suo "oggettivismo" e "determinismo". Bucharin, ad esempio, accusava Rosa Luxemburg di "deterministo economico", quando egli stesso sembrava cadervi due pagine dopo, quando finiva per parlare dell'instabilità e di crisi cicliche e della loro "risoluzione condizionata": "La loro ampiezza ed intensità crescente portano inevitabilmente al collasso del dominio capitalista" (corsivo di Bucharin).

L'idea della "inevitabilità" è evidentemente essa stessa determinista, ma paradossalmente lo è in una maniera per cui è affermata in senso puramente soggettivo, quando Bucharin alla fine districa il modo in cui intende l'opposizione al "determinismo economico":

"Oggi ci troviamo già nella posizione di non poterci più permettere di valutare il processo del collasso capitalista solo sulla base di costruzioni astratte e di prospettive teoriche. Il collasso del capitalismo è già cominciato. La rivoluzione di Ottobre è l'espressione più viva e convincente di questo. La rivoluzionarizzazione del proletariato ha, senza dubbio, a che vedere con la rovina economica, questa con la guerra, la guerra con la lotta per i mercati come sbocco per il flusso di produzione, mercati di materie prime, sfere di investimento dei capitali, in breve, con la politica imperialista nel suo insieme" (corsivo di Bucharin).

Qui, è evidente che Bucharin mette a testa in giù l'insieme dei problemi. Il limite interno oggettivo della valorizzazione del valore sulla base delle sue proprie contraddizioni si converte in qualcos'altro, puramente soggettivo e politico, nel limite di una mera relazione di volontà. La crisi proviene dalla sfera politica, da dove provengono anche l'emancipazione o la rivoluzione, nel mentre che la cosiddetta economia, che in realtà costituisce la base logica della valorizzazione del valore, che abbraccia tutte le sfere ufficiali, si riduce ad un gradevole rumore di fondo, e tutto sommato abbastanza irrilevante per il corso degli eventi. In questo contesto, il concetto di collasso è una confezione ingannevole. Gli è che un collasso è nella sua essenza qualcosa di oggettivo, che viene sofferto in forma passiva, condizionato da leggi naturali o sistemiche, e non un atto di volontà o una relazione di volontà. Un collasso avviene quando una persona soffre di un grave disturbo circolatorio o di un infarto, quando un ponte si sbriciola per eccesso di peso, quando un motore grippa, una stella si contrae in un buco nero, o una connessione sistemica (ad esempio, un programma di computer) diventa instabile e "crasha", ecc.. Il termine diventa inadeguato quando si tratta di atti di volontà in un conflitto cosciente. Ma cosa ancora più importante è che Bucharin, nel suo travisamento, finisce per compiere una capriola, facendo una rivelazione involontaria. Sebbene soggettivizzi l'oggettività del collasso e la riduca alla politica, allo stesso tempo, ed inversamente, oggettivizza questo stesso soggetto, dichiarandone la sua attuazione "inevitabile" e di conseguenza determinata. Arrivati a questo punto ci troviamo nuovamente davanti la non risolta problematica-soggetto-oggetto della modernità.

E questo problema va ripetendosi e si trascina per tutto il dibattito intorno alla crisi o al collasso. Così, qualche anno più tardi, riappare anche nelle tirate di Eugen Varga contro Grossmann. Anche Varga tira fuori dalla formaldeide il soggetto (soggetto di classe) come deus ex machina. "Egli (Grossmann) separa l'economia dalla lotta di classe; perciò, il suo 'collasso' non è il rovesciamento dell'ordine sociale capitalista, ma è piuttosto una fantasia puramente economica..."(corsivo di Varga). E, come in Bucharin, la "volontà determinata" finisce per condensarsi nel potere sovietico, che rende superflua qualsiasi teoria della crisi nel senso di meccanismi sistemici ciechi.

"Chi, nell'anno 1929, ha il coraggio di pubblicare un libro di seicento pagine sul collasso del capitalismo già avvenuto in Russia, per quante citazioni di Marx accumuli, per quanto dotte siano le sue considerazioni sul metodo del marxismo - chi fa tutto questo non ha capito l'ABC del metodo di investigazione marxista!... Il motivo per cui viene taciuta in maniera così ostinata la caduta del capitalismo in Russia è dovuto al fatto che è perfettamente evidente che quelle cause, che secondo Grossmann dovrebbero essere responsabili del rovesciamento del capitalismo, non hanno avuto la minima importanza nel rovesciamento del capitalismo realmente avvenuto in Russia. Infatti sarebbe ridicolo affermare che il capitalismo in Russia - il quale, com'è noto, era un paese assai povero di capitale, che continuava ad importare grandi quantità di capitale straniero - abbia subito un tracollo a causa di un'accumulazione eccessiva di capitale!... Per noi, militanti comunisti, è un grande sollievo sapere che il rovesciamento reale del capitalismo non è vincolato al meccanismo causale proclamato con così tanto clamore dal signor Grossmann...".

E così Varga, sollevato, mentre mancano tre anni scarsi alla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti, gioisce dinanzi all'aspettativa del "tracollo del capitalismo" su scala planetaria... "molto prima che sia possibile il verificarsi in tutto il mondo di una 'accumulazione eccessiva' di capitale" (ivi).

Dal punto di vista dell'oggi, è più che ovvio il grandioso errore di tutta questa argomentazione: quel che Varga vorrebbe intendere come "tracollo del capitalismo" in Russia, similmente alla maggioranza dei suoi contemporanei, era in realtà una "modernizzazione ritardata", un'implementazione socio-storica in termini capitalistici del sistema del lavoro astratto sotto la direzione del comunismo di Stato in una zona sottosviluppata della periferia del mercato mondiale; ossia, un regime storicamente non simultaneo di accumulazione primitiva entrato esso stesso in collasso settant'anni più tardi, nelle condizioni della terza rivoluzione industriale. Ma l'argomentazione di Varga non solo è assolutamente inconseguente in termini storici ed economico-politici, nel senso del limite della socializzazione capitalista sulla base del lavoro astratto e della rispettiva forma del valore. Allo stesso tempo - così come nel caso di Bucharin - getta involontariamente una luce cruda sulla struttura-soggetto-oggetto della modernità legata al problema della crisi e del collasso, che viene sempre risolta in maniera paradossale nella soggettività del politico - e che, per questo stesso motivo, provoca accessi di rabbia contro il "determinismo politico" delle teorie del collasso.

Non stupisce che, così come sono quasi identiche le argomentazioni del socialdemocratico Otto Bauer e quelle del comunista Nicolai Bucharin contro il "determinismo economico" di Rosa Luxemburg, la stessa cosa si applichi anche alle corrispondenti argomentazioni del comunista Eugen Varga e del socialdemocratico Alfred Braunthal contro Henryk Grossmann, sebbene Braunthal qui tenti di regolare i conti anche con i comunisti:

"Tuttavia, i comunisti e i seguaci della teoria del collasso non sono solo alieni o perfino contrari alla realtà, per il fatto che le loro teorie non solo non nascono dalla viva realtà, ma trascurano anche i dati della realtà, nella misura in cui chiudono gli occhi davanti alle forze trasformatrici della società, che oggi operano già di fatto. Se prendiamo in considerazione tali forze e percepiamo l'importanza delle crescenti tendenze organizzative dell'economia, della crescente influenza degli operai e della pressione crescente da questi esercitata nel senso della democratizzazione dell'economia, nel quadro della trasformazione della società da capitalista a socialista, diventa evidente che la classe operaia non deve aspettare con cupa rassegnazione un lontano futuro, nel quale, dopo un orrendo periodo di transizione riempito di penuria e miseria, le tendenze del collasso del capitalismo si impongono in maniera automatica, ma tale conoscenza incita la classe operaia a mobilitare tutte le sue forze per imporre, non il collasso del capitalismo, ma piuttosto la sua trasformazione in un sistema di società socialista" (Braunthal).

Non si può fare a meno di sentire un brivido a fronte di una simile ingenuità, nell'immediata vigilia della crisi economica mondiale, della barbarie nazionalsocialista e della susseguente seconda guerra mondiale. Tuttavia, allo stesso tempo diventa chiaro anche quanto sia piccola la differenza fra la riforma e la rivoluzione nel rifiuto della teoria del collasso per quel che riguarda il problema del soggetto. In fondo tutto si riduce alla non simultaneità storica, alla differenza con cui si risponde alla stessa domanda, una volta nelle condizioni di un capitalismo occidentale già sviluppato, e l'altra in quelle di una società periferica di "modernizzazione ritardata" ancora non sviluppata in termini capitalisti. Se sia la classe operaia (occidentale) a dover esercitare una "pressione crescente nel senso di una democratizzazione dell'economia", oppure se dev'essere la rivoluzione proletaria a produrre il presunto "collasso del capitalismo" sotto forma di una dittatura comunista statale del lavoro astratto: la struttura-soggetto-oggetto, e la sua apparente soluzione nel senso della soggettività politica e contro il "determinismo economico", è la stessa.

Forse, diventa più chiaro che qui si nasconde un problema che rimane da risolvere, e che non ha soluzione nell'ambito della socializzazione del valore, se consideriamo anche la posizione dei comunisti di sinistra o dei consigli, i quali, rispetto ai socialdemocratici ed ai comunisti di partito, si limitavano ad acuire e a radicalizzare questa apparente soluzione nelle relazioni di volontà soggettiva. Nella sua polemica contro Grossmann, Pannekoek si esaspera:

"Per lui, il capitalismo è un sistema meccanico, nel quale gli esseri umani intervengono in quanto individui dell'economia, capitalisti, acquirenti, venditori, salariati, ecc., ma che per il resto devono soffrire in maniera passiva quello che il meccanismo impone loro in forza della sua struttura interna... (Il) meccanismo determina le dimensioni economiche, mentre gli esseri umani che agiscono e lottano si trovano fuori da questa connessione".

Ci troviamo di fronte ad un ritornello che dovrebbe esserci familiare; in quanto fino ad oggi è stato regolarmente cantato nei dibattiti della sinistra radicale. Pannekoek astrae completamente dalla forma sociale della coscienza e perfino della volontà. Vuole attribuire alle "persone che lottano ed agiscono", indipendentemente dalla tematizzazione critica di questa forma (la forma del valore) e della sua sostanza (il lavoro), un potenziale trascendente di volontà, ossia, vuole atttribuire, in un accesso di falsa immediatezza, all'esser-così [Sosein] dei soggetti costituiti in maniera capitalista - così come sono e come agiscono - qualcosa che questi possono ottenere solo attraverso la mediazione di una critica radicale di questa forma. Tutto il "lottare ed agire" rimane sotto l'egida di una falsa oggettività, in quanto non passa dalla critica della forma e della sostanza del lavoro astratto. E se questo non avviene, le persone soffriranno proprio a causa del loro "lottare ed agire" esattamente "quello che il meccanismo impone loro in forza della sua struttura interna" - proprio perché non si trovano "fuori da questa connessione".

Questa connessione rimane (non solo) per Pannokoek un'idra-dalle-sette-teste, e così egli le assegna - contrariamente a quello che pretende di pensare, come fa anche Bucharin - l'oggettività del soggetto e la determinazione della propria volontà:

"Il collasso del capitalismo, in Marx, dipende di fatto dalla volontà della classe operaia; ma tale volontà non è arbitraria, non è libera, ma è essa stessa totalmente determinata (!) dallo sviluppo economico. Le contraddizioni dell'economia capitalista... determinano la volontà del proletariato sempre di nuovo nel senso della rivoluzione. Il socialismo non arriva perché il capitalismo entra in collasso economico e di conseguenza gli esseri umani, operai ed altri, costretti dalla necessità, creeranno una nuova organizzazione. Al contrario, il capitalismo crolla perché, così come vive e prospera, diventa sempre più insopportabile per gli operai, istigandoli alla lotta, sempre di nuovo, fino a far crescere in loro la volontà e la forza per rovesciare il dominio del capitale ed edificare una nuova organizzazione".

Pannekoek non si accorge nemmeno che è del tutto indifferente se la volontà della classe operaia "totalmente determinata dalla sviluppo economico" porti soggettivamente il capitalismo al "collasso", oppure se il capitalismo crolli per motivi ad esso intrinsechi e quindi "obblighi" la classe operaia in maniera oggettiva a "creare una nuova organizzazione". Senza volere, egli illustra chiaramente l'intercambiabilità di soggetto e dell'oggetto nella struttura feticistica della riproduzione - cosa che finisce perfino per essere innalzata agli onori della metafisica della storia:

"Per Marx, ogni necessità sociale si impone per mezzo degli esseri umani (!); ciò significa che il pensare, il volere e l'agire umani, sebbene appaiano discrezionali rispetto alla propria coscienza - sono totalmente (!) determinati dagli effetti dell'ambiente; ed è solo a partire dalla totalità di queste azioni umane, determinate nella loro essenza dalle forze sociali, che si impone una regolarità nello sviluppo sociale... L'accumulazione del capitale, le crisi, la miseria crescente, la rivoluzione proletaria, l'appropriazione del dominio da parte della classe operaia, costituiscono tutte insieme un'unità indissolubile che attua come legge naturale (!), il collasso del capitalismo".

E' veramente grottesco: la determinazione soggettiva si presenta immediatamente come oggettiva, senza che venga riflesso il contesto della mediazione; così, la volontà emancipatoria appare essa stessa come parte integrante proprio della medesima pseudo-"legge naturale", la quale a ben vedere costituisce lo scandalo della falsa oggettivizzazione. Quella che qui si manifesta è una concettualità assai rudimentale della relazione di capitale stessa, che manca dei momenti decisivi della critica della forma del feticcio e della sostanza del lavoro. Trasmette tristezza lo strutturalismo di un Althusser, per cui anche la rivoluzione sarà un "processo senza soggetto" - eppure Pannekoek si situa apparentemente all'altro estremo della scala-soggetto-oggetto del radicalismo marxista di sinistra. Il prezzo perché la classe operaia si mantenga come soggetto storico e non lasci i suoi allori nelle mani del "determinismo economico" del collasso oggettivo, consiste nel fatto che "la classe", essa stessa, possa agire soltanto come esecutrice delle presunte "leggi naturali" della società - il che costituisce un segnale inequivocabile per cui questa costruzione, in realtà, rimane prigioniera del cerchio delle categorie capitalistiche, e che quest'idea di una "rivoluzione proletaria" non è altro che un'ideologia dello sviluppo del lavoro astratto, e rappresenta un prolungamento del sistema di valorizzazione, nel quale il "lavoro senza capitale" possa tornare ad essere una semplice relazione del capitale.

Ovviamente, lo stesso Grossmann non è estraneo alla metacritica ideologica della sua opera, basata sul problema del soggetto, al di là delle definizioni immanenti della teoria della crisi. Quando era in esilio negli Stati Uniti, più di dieci anni dopo che era interrotto il dibattito, aveva tentato indirettamente di difendersi dall'accusa di "determinismo economico", asserendo, similmente a Rosa Luxemburg, che la tendenza oggettiva al collasso non rendeva superfluo in alcun modo l'agire emancipatorio soggettivo. Secondo Grossmann, un "momento della teoria generale di Marx" consisteva essenzialmente

"nella dottrina secondo la quale nessun sistema economico, per quanto tormentato sia, entra in collasso di sua propria iniziativa; dev'essere 'rovesciato'. L'analisi teorica delle tendenze oggettive dello sviluppo che portano al collasso del sistema serve a scoprire gli 'anelli deboli', da utilizzare come una sorta di barometro, che indichi quando il sistema diventa maturo per un cambiamento fondamentale. Ed anche che quando un tale punto viene raggiunto, la rivoluzione viene effettuata dall'agire attivo dei fattori soggettivi... E' grazie a tale agire che le tendenze oggettive possono essere realizzate" (Grossmann, 1943).

Quindi, Grossmann arriva ora allo stesso punto cui è arrivato Pannekoek; l'oggettività (negativa, falsa) viene soggettivata, mentre, inversamente, l'agire soggettivo viene oggettivizzato ("realizzazione delle tendenze oggettive"), e lo stesso soggetto è ormai soltanto un "fattore", la confusione è totale. E' ovvio che Grossmann non sia mai stato studiato attentamente a questo meta-livello, dove ora, a posteriori, si apre alla comprensione, dopo che da tempo è diventato chiaro che il suo sforzo di analisi sul piano delle categorie del valore, e della teoria delle crisi ad esse legate, non poteva arrivare da nessuna parte.

Mancava solo da fare un piccolo passo per ridurre questo vero e proprio dilemma alla pura soggettività delle relazioni di volontà e dichiarare le categorie della critica dell'economia politica di Marx completamente irrilevanti nella pratica. La relazione di capitale, come relazione esterna di volontà, allora non è niente di più che "volontà contro volontà" (espressa ancora nuovamente in forma oggettivata come "classe contro classe", visto che, com'è noto, la categoria classe è da parte sua costituita sistemicamente, ed in questo modo fa parte dell'oggettività). Per essere più esatti: l'oggettività incompresa della categoria classe viene ridotta ad una semplice questione di volontà, di modo che l'oggettività del feticcio capitalista si risolve apparentemente in un semplice "rapporto di forza" di determinazioni di volontà in conflitto.

E' stato Karl Korsch che, nella discussione sulla meta-problematica della relazione-soggetto-oggetto nell'ambito del dibattitto sulla crisi e sul collasso, ha contribuito a preparare questa svolta. Per lui, qualsiasi teoria del collasso rappresenta un "deformazione oggettivista":

"Una simile teoria non mi sembra appropriata per produrre quella piena serietà dell'agire auto-responsabile della classe operaia che lotta per i suoi propri obiettivi, necessaria tanto alla guerra di classe degli operai quanto a qualsiasi altra guerra comune" (Korsch, citato da Marramao, 1977). Come constata Marramao, Korsch arriva al punto di valutare "la rappresentazione dialettica del Marx maturo come una mera allegoria destinata ad eccitare la volontà di lotta e lo spirito rivoluzionario del proletariato" (ivi).

Giacomo Marramao, che si è occupato del problema nel contesto del marxismo della nuova sinistra degli anni settanta, designa a ragione quest'opinione di Korsch come "riduzione pragmatica del momento dialettico-morfologico della critica dell'economia politica" (ivi). Come conseguenza di quest'ultima opinione, le categorie del lavoro astratto, valore, merce, prezzo, plusvalore, composizione organica, caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc., ossia, i punti di riferimento teorici della riproduzione capitalistica così come della sua crisi, devono ridursi a mere "allegorie" delle determinazioni di volontà delle "classi", pensate come soggetti di volontà senza presupposti. Il piano della costituzione del feticcio e del "soggetto automatico" - che in ogni caso non è mai stato compreso - viene ora abolito per sempre, le oggettivazioni reali si convertono in meri rivestimenti delle relazioni di volontà puramente soggettive.

E' vero che Korsch si pronuncia anche contro un mero soggettivismo dell'azione diretta non mediata ecc., ma ciò si riferisce unicamente ai piani della mediazione nell'ambito delle presunte pure relazioni di volontà, e non all'oggettività negativa della relazione di feticcio e della crisi come limite oggettivo:

"Questa posizione dichiara che tutta la questione della necessità o dell'evitabilità oggettiva delle crisi capitalista è una questione che non ha senso, in una tale generalità, nell'ambito di una teoria della rivoluzione pratica del proletariato... Innanzitutto essa crede che, attraverso un'investigazione empirica sempre più esatta e dettagliata del presente modo di produzione capitalista e delle sue chiare tendenze di sviluppo futuro, possano anche essere fatti certi pronostici che, seppure molto limitati, arrivano sempre alla necessità dell'azione pratica" (Korsch).

Qui appaiono le conseguenze di questo "riduzionismo pragmatico" delle categorie capitalistiche di forma e sostanza: il movimento storico non si presenta più come movimento di queste stesse categorie, che sarebbe possibile estendere solo sulla base della corrispondente teoria, ma si manifesta solamente nella riduzione a relazioni di volontà, ossia, ridotto al "piano empirico" ed alla sua "investigazione", dal momento che questo empirismo viene concepito in modo immediato come riferito ai rapporti di forza fra determinazioni di volontà antagoniste.

Nasce qui la famigerata analisi di classe: si mette fine a qualsiasi indagine ed a qualsiasi dibattito sul movimento categoriale e sul suo nesso interno, finisce il dibattito sulle teorie della crisi e del collasso, sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, sul problema della realizzazione e così via - vengono tutte retrocesse a "questioni che in questa generalità non hanno senso". Al loro posto rimane soltanto l'analisi empirica nel senso delle strutture di classe e delle loro alterazioni, che in questo modo includono anche le alterazioni nelle relazioni di volontà. Vale a dire, proprio quello che l'operaismo, con i suoi teoremi di ricomposizione della classe operaia, aveva scritto nella sua agenda come programma riduzionista di investigazione permanente.

Com'è ovvio, con questo tipo di espediente non si riesce a sfuggire alla relazione-soggetto-oggetto della costituzione del feticcio moderno. Si estende soltanto il dilemma che era già apparso in Pannekoek e che si radica nella comprensione ridotta del movimento operaio in generale: quanto più è soggettivo, tanto più è oggettivo; quanto più la relazione di feticcio viene concepita come una pura relazione di volontà di soggetti di volontà pensati senza presupposti ("classi"), i cui presupposti reali rimangono nell'ombra, tanto più l'oggettività falsa, negativa, finisce per rientrare per la porta di servizio, ed i teorici dell'immediatezza, che non riflettono più nemmeno sui propri presupposti, si vedono costretti a cosificare completamente la struttura e la coscienza del loro splendido "soggetto proletario di volontà" e ad "investigarlo" come se fosse un oggetto naturale oggettivo, cosa che evidentemente smentisce in maniera imbarazzante la loro enfasi riguardo allo "agire auto-responsabile della classe proletaria in una lotta per i suoi propri obiettivi".

Allo stesso modo in cui la storia segreta del dibattito del marxismo tradizionale sulla crisi e sul collasso ha consistito, al di là del piano ridotto dell'economia politica, nella sgradevole tematizzazione di questa poco chiarita struttura-soggetto-oggetto della socializzazione moderna del valore, così il programma segreto della sua soluzione ha consistito nella riduzione delle categorie oggettivate del capitale a pure relazioni di volontà, che in seguito potevano essere osservate ed indagate sotto aspetti diversi. La storia del dopoguerra della nuova sinistra è stata, tutta quanta, permeata da tale paradigma. Questa soluzione del dibattito sul collasso venne semplicemente adottata, in maniera del tutto irriflessa e senza che fosse soggetta alla minima analisi critica; ed è stato proprio per questo che non solo il concetto di collasso, come parola non grata, si è trasformato in un mero fantasma, ma anche la strada verso un ulteriore sviluppo della critica dell'ontologia del lavoro è rimasta ostruita, ed i concetti abbastanza tematizzati di reificazione e di alienazione non sono andati al di là di una superficiale formulazione socio-filosofica.

Il piano della costituzione sociale, il problema della costituzione del feticcio e del "soggetto automatico", doveva così continuare a non essere elaborato, e perfino espressamente rifiutato. Nonostante le apparenze esteriori, una simile tendenza non è stata contrastata nemmeno dalla corrente del dibattito sullo strutturalismo di Althusser. Althusser ha fatto rimanere il "soggetto proletario" in uno stato perfettamente irriflesso, ma spogliato della sua enfasi e ridotto ad un "esecutore" di processi strutturali. Tuttavia, come si è già detto, anche Pannekoek era arrivato a quel punto, che in fondo è stato anche il presupposto implicito o esplicito di ogni "materialismo storico". Il polo opposto operaista ha solo costituito il rovescio della stessa medaglia. Non è un caso che sia Luis Althusser che Toni Negri abbiano respinto espressamente tanto il concetto di feticcio quanto ogni argomentazione di Marx edificata su tale concetto. In questo modo, unitamente al problema del limite interno oggettivo della valorizzazione, anche la forma sociale del soggetto e la sua sostanza (del lavoro) sono state definitivamente cancellate come possibili oggetti della riflessione e della critica radicale.

 

La crisi e la critica, l'illusione politica e la relazione di dissociazione sessuale

La soggettività riduzionista delle categorie veniva politico-economicamente giustificata con lo sviluppo del capitalismo stesso, visto allora come un capitalismo "organizzato" (Hilferding). I problemi della valorizzazione, in realtà derivanti da un processo secolare di desustanzializzazione del valore stesso, che veniva potenziato dagli interventi statali a partire dalla fine del 19° secolo (con i successivi impulsi dell'economia di guerra dell'epoca delle guerre mondiali e più tardi della regolazione fordista  nella seconda metà del 20° secolo), apparivano più che altro come "rimozione della legge del valore", attraverso il preteso comando diretto della politica e della gestione dei conglomerati imprenditoriali sulla riproduzione capitalista. Questa rappresentazione assilla ogni ambito dei modelli interpretativi comunque classificati con l'etichetta di "marxismo occidentale" e che pretendono di andare oltre lo "economicismo" del marxismo tradizionale - quando in realtà rappresentano solo il rovescio soggettivo-ideologico della stessa medaglia.

In questo modo si estende e si potenzia l'illusione politica, nello stesso identico modo in cui essa aveva caratterizzato il marxismo del vecchio movimento operaio fin dall'inizio. La "lotta per il riconoscimento", sul terreno del lavoro astratto e quindi della socializzazione del valore, in realtà, proprio a causa della sua limitazione, poteva essere condotta soltanto in forma politica, in quanto la politica non è altro che la "sfera del trattamento" secondaria dei problemi sociali continuamente causati dalla relazione di capitale. Tale sfera, secondo il suo proprio concetto, presuppone come positiva la valorizzazione del valore, in quanto viene considerata una componente immanente del valore come forma sociale. Qualsiasi contrapposizione dell'economia e della politica che si distingue a partire da questa differenza e che suppone le due sfere come reciprocamente esterne, senza riuscire a comprendere la loro interconnessione [übergreifenden Zusammenhang] nella relazione del valore e nella sostanza del lavoro, rimane decisamente ridotta e sfocia in una qualche variante dell'illusione politica. La politica, secondo il suo proprio concetto, è relazionata con lo Stato, ma lo Stato come categoria e come dispositivo concreto rappresenta il meccanismo del trattamento politico del capitalismo, che di per sé non può portare oltre il fine in sé della valorizzazione del valore, in quanto non è altro che una semplice funzione di questa coazione (le frizioni nel decorso del processo di trattamento politico possono involontariamente liberare potenziali di critica, ma questo non cambia niente nello stato strutturale delle cose).

La comprensione del carattere di compromissione con il sistema dello Stato e della politica, presuppone tuttavia la comprensione della falsa oggettività delle categorie capitaliste in generale e la comprensione del carattere di fine in sé del "soggetto automatico". Da qui ne risulta una critica dello Stato del tutto differente da quella del marxismo tradizionale. Il parlare di Stato come "comitato di gestione degli affari della borghesia", così come viene usato occasionalmente anche da Marx e come si è consolidato alla fine nel concetto di "Stato di classe", è assai miope ed è l'espressione di una soggettivazione sociologistica. Le classi non determinate nei loro presupposti, ma nella realtà categorie derivate dalla relazione di feticcio che vengono adottate come soggetti senza presupposti, sembrano allora sussumere sotto questa soggettività sociologica, come loro ultima base, tutte le categorie della riproduzione del capitale. Proprio per questo, però, le categorie lavoro, valore, Stato, politica, ecc. sono ontologizzate, in quanto vengono definite come oggetti della critica solamente in conseguenza dei loro attributi, come "lavoro (trans-storico) sfruttato dal capitale", "valore di cui si appropriano i dominanti (plusvalore)", "Stato della borghesia", ecc., di modo che si vorrebbe immaginare un "lavoro libero", un "valore di cui ci si appropria con autodeterminazione, cioè, giustamente ripartito", uno "Stato proletario" e, nota bene, una "politica emancipatoria".

La falsa soggettivazione era già insita nell'ipostasi del concetto di classe sociologicamente ridotto, come preteso punto di partenza di tutta la riflessione (mentre Marx comincia dalla forma della cellula capitalistica valore, con la determinazione della riproduzione in forma feticista, e non dalla classe sociologica). Nel marxismo tradizionale, tuttavia, le categorie della critica dell'economia politica sviluppate da Marx, che non esprimono altro che l'oggettivazione negativa della costituzione del feticcio, del "soggetto automatico", conducono per qualche tempo una propria vita fantasmatica e producono quei dibattiti sullo sviluppo capitalista, tendenze alla crisi ed al collasso, che rimangono sistematicamente non mediate con la problematica delle "classi" e della loro "politica", che viene supposta come "autentica"; di qui anche l'andare a finire e a fallire nella non risolta questione astratta della struttura-soggetto-oggetto.

Nella misura in cui il movimento operaio - nella sua "lotta per il riconoscimento" come soggetto del lavoro, del diritto e della cittadinanza statale, che assumeva necessariamente una forma politica - ha avuto successo, si è trasformato esso stesso in soggetto borghese, dentro la "gabbia di ferro" (Max Weber) della socializzazione del valore. Il suo successo è stato simultaneamente un'autocondanna alla forma feticcio, e la politica è rimasta il veicolo di un tale incantesimo. L'ascesa del movimento operaio, il suo successo nella "lotta per il riconoscimento" (un successo scritto col sangue, in quanto ha incontrato la sua realizzazione nella prima guerra mondiale - il pieno riconoscimento è arrivato insieme al sacrificio di sangue sull'altare della nazione borghese) e l'ascesa dell'intervento statale hanno camminato mano nella mano. Cosa ci può essere di più ovvio che portare ora a termine la soggettivizzazione delle categorie, fraintendere definitivamente la politica come forma di emancipazione e giustificare tutto questo con lo sviluppo stesso del capitale?

La teoria del "capitalismo organizzato", della pretesa "soppiantazione della legge del valore" e del "comando politico" sulle categorie reali del lavoro astratto e del valore ha solo continuato, da un lato, la classica tendenza della socialdemocrazia a "raggiungere gradualmente" e senza rotture il "socialismo" di un'auto-polverizzazione aututodeterminata in una società industriale o "fabbrica sociale totale"; dall'altro lato, a portato fino in fondo la soggettivizzazione e si è così resa suscettibile anche di dar luogo ad interpretazioni da sinistra radicale, che tuttavia sono rimaste sedute sulla medesima logica. Questo si applica tanto alla teoria di Horkheimer e di Adorno dello "Stato autoritario", che si presume agisca al di là della legge del valore, quanto per le successive posizioni operaiste. In ogni caso, volere che il preteso regime di comando politico sul lavoro astratto/forma del valore sia rappresentato come positivo (socialdemocrazia), volere (non in ultimo sotto l'impressione del nazionalsocialismo) che venga inteso come "fatalità" (Horkheimer/Adorno), o averlo raffigurato come pura "determinazione di volontà" del nemico di classe, che doveva sfidare e mobilitare sempre e di nuovo la "contro-volontà" del proletariato (Negri-Operaismo) - davanti a questo sfondo, quando tutto si dissolve nella "politica", non è più pensabile un limite interno oggettivo. Con questo, tuttavia, l'apparente "soppiantazione" delle teorie del collasso divengono identiche all'illusione politica finita, con un orientamento del pensiero di emancipazione verso la sfera della funzione politica della modernità capitalista.

E' a ragione che Giacomo Marramao, negli anni 70, richiama l'attenzione sul fatto che "sono precisamente i teorici dell'austromarxismo che aprono nel marxismo europeo quella 'stagione della soggettività' che consiste in una lettura rinnovata, militante, delle opere di Marx, attraverso il filtro di determinati temi del neo-kantismo". Assolutamente non a caso, gli attivisti radicali di sinistra dell'operaismo e di correnti similari degli anni 70 (ed in parte anche oggi) invocano nelle loro analisi teoriche proprio il teorema di Hilferding del "capitalismo organizzato". Quest'orientamento generale ha avuto come conseguenza, però, come di seguito constata Marramao, "sia nell'insieme degli austromarxisti neo-kantiani, sia nell'insieme dell'ala maggioritaria del comunismo di sinistra, una restrizione gnoseologica a quella sfera che in Marx è determinata dalle relazioni sociali di produzione. Il postulato del momento soggettivo (etico-universalista) corrisponde all'analisi sociologico-empirica del "multiplo o del reale". Invece di rendere riconoscibili le leggi che determinano le tendenze del modo di produzione, l'analisi economica si perde così in un esercizio di micro-sociologia" (Marramao).

Questa comprensione critica finisce però per sviluppare un singolo elemento, e non ha potuto impedire che il mainstream della nuova sinistra si sia trasferita nelle varianti della falsa soggettivazione di Negri. Il che si ritrova anche nella stessa argomentazione di Marramao, dal momento che non raggiunge il problema della costituzione-feticcio, né la soluzione del dilemma-soggetto-oggetto, ma è essa stessa a partire a priori dalla riduzione deconcettualizzata alla politica; l'obiettivo del suo saggio, chiarito già fin dall'inizio, stava dentro "la prospettiva di una nuova complessa definizione di una politica adeguata alla situazione dei paesi tardo-capitalisti". Questo ricorda fatalmente Christoph Deutschmann, in cui l'approssimazione al problema del limite oggettivo in quanto desustanzializzazione si trasforma anche immediatamente nel paradigma del trattamento politico; quello che in Deutschmann appare sul piano delle categorie del capitale, come "politica economica", in Marramao si trasforma nell'astrazione vuota della "politica" in generale, sul metapiano del problema-soggetto-oggetto.

E così è rimasto fino ad oggi. Sia il post-operaismo di Negri, che da un po' di tempo a questa parte ha fatto nuovamente furore (per lo meno nei supplementi culturali), che la sinistra postmoderna in termini generali, ma anche posizioni del marxismo tradizionale della "lotta di classe", rimangono attaccati ad un concetto tanto diffuso quanto inflazionato di "politica", degradato a frase vuota. Non sanno nemmeno di quale storia siano il risultato. La politica viene equiparata in qualche modo all'intervento in generale, passando al lato delle categorie, che sono più che mai degradate ad un mero rumore di fondo. Quello che in Pannekoek era ancora pensato con poca chiarezza, si è concluso con l'instupidimento categoriale della sinistra. Si invocano i soggetti o il "soggetto" puro e semplice, la forma non è niente e la volonta, tutto. Indifferenti al lavoro astratto, alla sostanza del valore ed alla forma del valore, allo sviluppo ed alla crisi, si pretende di mobilitare negli esseri umani con una falsa immediatezza tutto quello che in qualche modo non "s'incastra" nella valorizzazione del valore, come se questo fosse possibile senza la mediazione della critica della forma del soggetto e della sua sostanza sociale. "La capacità di intervento" è tutto, e proprio per questo non dà mai niente. Nei media di sinistra, che sono determinati da questo contesto politico inflazionario, vuoto e sbiadito, l'idea di un limite interno oggettivo provoca solo una sorta di grugniti e, un mese sì ed uno no, si celebra l'estremo saluto ai "teorici del collasso". E questi grugniti diventano tanto più ringhi e catarri quanto più penosamente e regolarmente "l'intervento politico" si ridicolizza fino al midollo.

E' tempo perso voler presentare a questi mezzi di comunicazione, che non sono altro che gli ultimi Mohicani della storia marxista, una riformulazione della riflessione categoriale, in quanto essi stessi non compiono alcun passo in questa direzione, dando priorità di fronte a questo al loro comportamento da lemming dell'interventismo politico. Tuttavia, la riflessione categoriale può anche essere sviluppata indipendentemente dalla capacità di ricezione da parte di questi illusionisti politici del sociale allo stadio terminale. Riprendiamo la discussione al punto in cui il dibattito storico ha collassato nella soggettivazione delle categorie. Qual è il senso in cui il problema si pone di nuovo, se l'ontologia marxista del lavoro viene criticata e superata, cosa che da parte sua condurrà ad una nuova definizione del sistema categoriale del lavoro astratto?

Nonostante la sua riduzione alla sociologia delle classi e alla politica, il marxismo tradizionale può vivere con l'oggettivazione delle categorie che vengono positivizzate e trasformate in oggetti ontologici di un trattamento politico ridotto agli attributi, il cui risultato finirebbe per essere la soggettivizzazione categoriale totale; il punto di partenza di questa soggettivizzazione era costituito dalla discussione intorno alla teoria del collasso, che ha condotto alla paralisi nell'insolubile aporia-soggetto-oggetto. Il ritorno alle categorie dopo il passaggio dalla critica radicale dell'ontologia del lavoro non può più intendere positivamente la connessione categoriale del lavoro astratto, ma solo negativamente (come spiegato nella prima parte di questo studio). Ma con questo si colloca in maniera differente anche il problema-soggetto-oggetto nel contesto della questione della crisi e del collasso. Il soggetto e l'oggetto non possono più essere relazionati in maniera semplicistica come unità positiva, ma devono essere percepiti in primo luogo nella loro rottura [Zerrissenheit].

Logicamente la questione della crisi e del collasso era allora basata puramente sul piano dell'oggettivazione falsa, negativa, e del movimento categoriale autonomizzato della dinamica capitalista. La questione della crisi e del collasso deve pertanto essere rigorosamente separata dalla questione dell'emancipazione. In primo luogo, entrambe sono separate concettualmente e realmente, così come la società-feticcio moderna si costituisce in generale secondo polarità autonomizzate opposte. L'emancipazione può essere solamente cosciente; crisi e collasso, al contrario, secondo il loro stesso concetto, possono avvenire soltanto nel corso di un processo inconscio di sviluppi oggettivati e non hanno immediatamente a che vedere con l'agire cosciente. Quindi il capitalismo può collassare senza che gli esseri umani si emancipino. Il risultato sarebbe l'auto-annichilimento dell'umanità, o la "caduta nella barbarie", alternativa sottolineata metaforicamente da Marx. Il concetto è problematico e di provenienza eurocentrica, ma è quello più incline a segnalare una possibilità, ultima, di oggettivazione negativa. Così, infatti, si possono vedere in televisione le "catastrofi di natura sociale", finché non arriva la propria, ma non la propria emancipazione dal contesto che provoca tali catastrofi. Al contrario, gli esseri umani in linea di principio posson emanciparsi senza che il capitalismo collassi. Questo collasso non è in alcun modo una pre-condizione sociale indispensabile all'emancipazione, ma può, nella sua cieca oggettività, divenire la condizione dell'ambito sociale del pensare e dell'agire emancipatori, se la trasformazione emancipatoria si dovesse fare attendere per troppo tempo e venisse data al capitalismo l'opportunità di sviluppare completamente le sue contraddizioni interne. Critica e crisi sono quindi come le calzature di due paia di stivali, e calzarne una di ciascun paio e voler correre in questa falsa unità significa inciampare nei propri piedi.

In questa prospettiva diventa del tutto impossibile un'affermazione come quella di Paul Mattick, che unisce in maniera semplicistica entrambi i poli e astrae dalla loro rottura [Zerrissenheit] in favore di un monismo non mediato di soggetto ed oggetto: "La conoscenza teorica per cui il sistema capitalista, a causa delle contraddizioni che lo spingono, può solo sfociare nel collasso non obbliga per questo all'opinione che il collasso reale sarebbe un processo automatico, indipendente dagli esseri umani" (Mattick). La formula impotente di collasso "reale, come se ce ne fosse uno autentico ed un altro non autentico, si riferisce solo al fatto che non si è arrivati al fondo del problema. Sia la tendenza secolare al collasso, in quanto desustanzializzazione o svalorizzazione del valore, sia anche un processo reale di collasso, alla fine della capacità di sviluppo capitalista, sono in realtà nella legalità sistemica un "processo automatico", in quanto gli esseri umani agiscono conformemente alla determinazione della forma capitalista; ma da questo non consegue mai "automaticamente" un'altra società, emancipata.

Fino a questo punto il problrma è stato discusso altrove. Ma con ciò non si è ancora esaurita la collocazione della questione, anche se ha quanto meno contribuito a disfare la distorsione del problema-soggetto-oggetto nel contesto della problematica della crisi e del collasso. Si potrebbe tuttavia obiettare che, con l'accento posto sulla rigorosa oggettività della tendenza della crisi e del collasso, in contrapposizione alla critica e all'emancipazione, il problema ha finito per essere di nuovo oggettivato, dal momento che qui quello che viene messo in discussione non è l'oggettività dei processi della "prima natura" effettiva, ma l'oggettività di una pseudo-natura sociale, che in ultima analisi dev'essere mediata da azioni umane. Dal momento che non ci può essere altro modo, la questione da porre di seguito è evidentemente quella della mediazione "soggettiva" dell'oggettività sociale, anziché soggettivizzare questa oggettività in maniera non mediata (come fa, in gran misura, il marxismo della sociologia delle classi ed in particolare il comunismo di sinistra/operaismo); oppure fraintenderla come oggettività nel senso delle scienze naturali (come fa la dottrina dell'economia politica). In fondo si tratta del medesimo problema che nelle scienze sociali borghesi si è da sempre costituito come opposizione fra teoria della struttura e teoria dell'azione.

Una volta che in ultima analisi tutte le manifestazioni, categorie e processi sociali non sono prodotti né condotti da nessuna "cosa dall'esternO", ma si riferiscono ad azioni ed a decisioni umane, alloraa non c'è davvero alcun determinismo in generale, almeno assoluto. Tutto ciò che è avvenuto e che accade, inclusa l'oggettivizzazione della "seconda natura", è determinato da azioni e decisioni. La pura oggettività di un processo storico e la filosofia positiva della storia su di esso costruita è sempre un'interpretazione ex post, la quale glorifica come "necessità" un percorso semplicemente reale (in Hegel, elevato a sistema e poi semplicemente "rovesciato" nel cosiddetto materialismo storico). In realtà tutti i processi storici sono sempre in qualche misura aperti ed indeterminati, quando non sono state prese decisioni né sono state eseguite azioni. Similmente a quel che avviene per le spiegazioni popolari della fisica quantistica, si può rappresentare la storia come una nube di probabilità di possibilità indeterminate, che solo al momento di agire si consolidano in realtà storica.

Ma, prima, ci sono azioni e decisioni di portata diversa; in secondo luogo, le azioni e le decisioni costituiscono una connessione a catena, di modo che una volta eseguite non possono più essere annullate. E in questa misura tutte le azioni si trovano sempre legate ai risultati delle azioni precedenti, e sono da queste condizionate. In quanto la società umana non raggiunge una coscienza propria come "associazione di liberi individui", che co-riflette sempre sulle condizioni e sulle conseguenze della sua azione sociale e che, con una decisione libera e cosciente, decide sulla realizzazione delle sue possibilità, anche le connessioni in catena tornano sempre ad addensarsi in modelli ciechi di azione, nella matrice di una "seconda natura" che si autonomizza nei confronti degli individui e si presenta a loro come una "cosa esterna".

In termini generali, questo potrebbe essere definito come costituzione del feticcio, dal momento che tutta la storia fino ad oggi è stata la storia delle relazioni di feticcio. Una simile matrice è quella che Marx designa come modo di produzione storico ed il cui concetto può essere allargato a modo di vita e di produzione; nella scienza storica borghese si parla spesso di culture, nel marxismo a volte anche di formazioni sociali. Ricorrendo ancora una volta ad una comparazione con la fisica, si può anche parlare di campo storico. Si tratta qui proprio di quello che all'inizio di questo studio è stato criticato come deficit sistematico di percezione del pensiero postmoderno, che vede la contingenza in azione in maniera quasi indifferente, senza sviluppare un concetto di questi campi storici e delle differenze delle rispettive matrici. Il pensiero postmoderno è non storico, proprio in questo senso di intendere la contingenza come meramente diffusa.

Ma una volta costituito un tale campo, questo limita la contingenza, che finisce per essere ridotta alle possibilità all'interno della sua matrice. Pertanto nella contingenza storico-sociale dobbiamo confrontarci con due distinte nuvole di probabilità; una, è la nuvola di probabilità di ordine superiore della storia, a partire dalla quale i campi storici, o formazioni, si condensano, e, l'altra, una nuvola di probabilità secondaria, a partire dalla quale la storia interna di tale campo si sviluppa secondo il modello della sua specifica matrice.

Naturalmente, va detto subito che questa concettualità, pur rappresentando una generalizzazione , è dovuta interamente all'esperienza criticamente elaborata della costituzione sociale capitalista moderna. Per l'investigazione di stadi precedenti e della storia anteriore nel suo insieme in quanto "storia delle relazioni di feticcio", bisogna che venga aggiunta solamente una prudente pretesa euristica, ma nessuna nuova ideologica "filosofia della storia". E' pertanto necessario evitare gli errori della filosofia dell'illuminismo e del materialismo storico, entrambe le quali - in un caso affermativamente, nell'altro con intento critico - hanno ontologizzato trans-storicamente le categorie capitalistiche moderne, con le quali il materialismo storico ha rivestito la storia di una logica di sviluppo dinamico, come "dialettica delle forze produttive e relazioni di produzione", che nella realtà caratterizza soltanto il capitalismo, la moderna socializzazione del valore.

Fra tutti i campi storici, quello capitalista della modernità è l'unico la cui matrice abbia prodotto la dinamica interna di un processo cieco di contraddizione nella realizzazione del modello di azione e, insieme a questo, un'oggettività della seconda natura che può provocare un collasso oggettivo; al contrario di quanto avviene in tutte le costituzioni pre-moderne, come ad esempio nei campi storici delle società agrarie, nelle quali l'oggettività feticista non si è configurata in alcuna dinamica interna di questo tipo. Perciò anche la società capitalista è l'unica ad aver portato, in forza di questa dinamica distruttiva, ai limiti di una "storia delle relazioni di feticcio" e ad aver reso possibile la conoscenza del carattere di feticcio in generale; tuttavia, assolutamente in maniera non positiva, come coronamento di una necessaria "storia del progresso", bensì in modo puramente negativo, come problema di una dinamica interna del collasso specificamente appartenente a questo campo storico.

In questo contesto (nuovamente generalizzabile storicamente solo in maniera limitata), ci si deve ora interrogare sul carattere differente della nuvola di probabilità delle possibilità di azione e di decisione. La contingenza si presenta in modo differente, a seconda se ci poniamo sul piano della costituzione del campo storico come tale, o sul piano della storia interna. Non c'è nessun processo di necessità storica, a partire dal quale il capitalismo come formazione storica "doveva nascere", ma una sorta di alterazione climativa nella nuvola di probabilità delle possibilità di azione, quando la contingenza ha raggiunto uno stadio in cui un determinato campo storico della società agraria cominciò a decomporsi. In questa decomposizione, la peste svolse un ruolo, ma lo svolse più ancora la rivoluzione militare delle armi da fuoco, nei primordi della cosiddetta età moderna; la spiegazione dettagliata di questi sviluppo costituisce un tema proprio e non è qui il caso di approfondirla. Ma è importante la constatazione per cui con questo si verificò nella nuvola di probabilità della storia la possibilità di un salto qualitativo nelle condensazioni di azioni e di decisioni, di un passaggio alla costituzione di un nuovo campo storico, la cui natura inizialmente rimaneva ancora indeterminata.

In questa fase di trasformazione sarebbe stata possibile anche la costituzione di un nuovo campo del tutto differente da quello del capitalismo. Oppure che la condensazione della nuvola di probabilità del campo capitalista si poteva fermare ad un detereminato livello di sviluppo, trasformandosi in un'altra configurazione. Questo diventa particolarmente chiaro in tre punti storici. Le guerre contadine del 15° e 16° secolo hanno rappresentato una rivolta contro la costituzione iniziale della matrice capitalista, quando questa si trovava solamente in una formazione embrionale; se fossero state vittoriose (la loro sconfitta non era in alcun modo "necessaria") allora si sarebbe costituita un'altra matrice a partire dalla nuvola di probabilità; anche se presumibilmente non ci sarebbe stato un soppiantamento della storia delle relazioni di feticcio, ma sempre un altro nuovo campo storico, con un altro modello di azione che non quello capitalista. I movimenti sociali e le rivolte del 18° secolo e dell'inizio del 19° si trovavano già impregnati della matrice capitalista in formazione, ma anche così contenevano la negazione del lavoro astratto; se fossero stati vittoriosi ( e la loro sconfitta non era in alcun modo "necessaria"), allora la costituzione capitalista si sarebbe fermata in quel punto e la nuvola di probabilità avrebbe assunto un'altra qualità nella sua condensazione. Il movimento operaio moderno classico della fine del 19° secolo, alla fine, aveva già interiorizzato ampiamente nella pratica il modello di disciplinamento del lavoro astratto, ma allo stesso tempo, attraverso la ricezione della teoria di Marx, che per la prima volta aveva tematizzato in critica radicale il concetto non solo del lavoro astratto e della forma del valore, ma anche della relazione di feticcio in generale, si era riempito della possibilità di una rottura cosciente; molto brillante, per inciso, nei primi programmi ed intenzioni marxiste, che nella realtà non tardarono ad essere abbandonati - ma anche questo non era assolutamente "necessario". Anche in questo caso, la costituzione capitalista poteva ancora essere fermata e poteva essere dato inizio ad una trasformazione, la quale sarebbe stata sicuramente accompagnata da violente frizioni, ma non per questo sarebbe stato "impossibile" (sarebbe stato sconfitto il problema del lavoro astratto, cioè, il movimento di trasformazione avrebbe dovuto emanciparsi da questa matrice per mezzo dello sviluppo della critica, e con essa degli stessi momenti di interiorizzazione).

Proprio perché a questo punto di rottura la nuvola delle probabilità si era condensata in decisioni concrete, in nessun modo definite a priori, che risultavano essere sempre più a favore di un consolidamento maggiormente ampio e di uno sviluppo del campo capitalista, la dinamica della contraddizione capitalista poteva continuare a sviluppare la sua logica di un movimento oggettivo delle categorie autonome, sulla base della matrice costituita. La contingenza che rimaneva ancora sempre in una nuvola di probabilità di second'ordine, in una storia interna al campo capitalista, era allora a sua volta determinata dal punto di vista della logica dello sviluppo generale; all'interno di questo determinismo del campo d'insieme, tuttavia, tutte le decisioni e tutte le azioni realizzate rimanevano aperte ed indeterminate. Così, per esempio, la costituzione ritardata dello Stato nazionale tedesca, nel 19° secolo, non dove necessariamente avere successo, ciascuna delle parti del successivo impero tedesco avrebbe potuto integrarsi in un'altra struttura statale, e all'umanità sarebbero state risparmiate molte cose (ugualmente, al contrario, poteva aver luogo la costituzione di questa stessa nazione con l'inclusione dell'Austria). Né la vittoria del nazionalsocialismo, né la conseguente storia di catastrofi erano forzatamente o "storicamente necessarie"; anche con uno sviluppo più approfondito del campo capitalista, l'umanità non doveva necessariamente sopportare incondizionalmente queste esasperazioni, nella barbarie, del potere all'interno del capitalismo.

Qui, però, non si tratta della contingenza della storia all'interno del capitalismo, ma della questione della logica del collasso che si riferice inequivocabilmente al campo capitalista in quanto tale. Se la dinamica della contraddizione del capitalismo contiene in sé una tendenza al collasso, allora questo  è il risultato di questa oggettivazione del campo con tali qualità. Anche la costituzione di quest'oggettivazione delle categorie e della loro cieca dinamica di collasso, in quanto processo logicamente determinato, è di fatto determinata dalle azioni umane ed è realizzata dalle azioni umane; ma non dalle azioni e dalla loro intenzionalità immediata, ma dal fatto che queste stesse azioni, in un processo incontrollato, hanno prima fatto una matrice, un quadro di azione, che si è oggettivato nelle categorie sociali e ha dato luogo ad una dinamica di contraddizione che si è autonomizzata; e nella misura in cui il successivo agire si realizza dentro queste categorie e secondo questa matrice, gli esseri umani, senza che siano coscienti di questo e senza che su questo abbiano controllo, mettono in moto essi stessi il motore categoriale dell'autocontraddizione e del programma del collasso, fino a che non vengono conseguiti i rispettivi risultati. Il "soggetto automatico" non è altro che l'auto-movimento delle categorie reali capitaliste, che sono state create inconsciamente dagli esseri umani e che si mettono in movimento in maniera autonomizzata proprio perché gli individuo realizzano la propria vita in queste categorie, senza voler immaginare niente di diverso per sé e cercano ad ogni costo la loro felicità nella soddisfazione delle esigenze prodotte da questa matrice.

La tendenza al collasso è pertanto oggettivamente determinata dal fatto che gli esseri umano organizzano soggettivamente il loro agire secondo la matrice capitalista istituita, ossia, costruiscono e riproducono sempre più il sistema di lavoro astratto e della sua forma valore, fino per così dire ad impiccarvisi. Vale a dire, quanto più i soggetti agiscono, lottano e si muovono, senza mettere in discussione la matrice di un tale agire, lottare ecc., il sistema di lavoro astratto, senza neppure che essi lo percepiscano come problema, tanto più sono essi stessi a mettere in moto il meccanismo dell'orologio del "collasso automatico". Essi non lo vogliono, non lo sanno, ma lo fanno semplicemente perché non immobilizzano la macchina sociale del "soggetto automatico" prodottasi nella lunga catena storica di azioni e sempre più sviluppatasi nella sua dinamica di contraddizione. Quanto più è soggettivo, tanto più è oggettivo - quest'enigma della moderna struttura-soggetto-oggetto si risolve sulla base delle concettualizzazioni della costituzione del feticcio e del campo storico o della sua matrice.

La conseguenza della conoscenza della tendenza al collasso automatico è perciò esattamente il contrario del fatalismo, vale a dire una qualità completamente nuova della stessa critica radicale. La falsa soggettivazione delle categorie, l'insistere sulla pretesamente libera capacità di azione del soggetto, generalmente contingente alle categorie, porta sicuramente di più all'automatismo oggettivo del collasso, in quanto la stessa matrice dell'agire viene ignorata ed è da criticare. Viceversa, la conoscenza del carattere di quest'automatismo di collasso porta alla critica delle categorie in sé e della matrice che ad esse sottende, porta quindi ad una radicalità che va più in profondità, che è necessaria per trasformare il campo storico.
Ma la matrice appartiene non solo alla forma ed alla sostanza del lavoro astratto, essa appartiene anche al portatore d'azione di questa connessione sistemica cieca, che mette in moto il "soggetto automatico" attraverso il suo proprio modello di azione pre-strutturato - il soggetto. Tale soggetto può essere definito come trans-storico e ontologico altrettanto poco di quanto possa essere così definito il lavor astratto. Il soggetto rappresente assai più il moderno portatore di azione del lavoro astratto e delle sue funzioni derivate - egli non è altro che la forma sociale dell'agire negli individui stessi: forma di percezione, forma di pensiero, forma di relazionamento, forma di attività. Pertanto, non bisogna chiedersi come si configura la nuova qualità della critica attraverso il soggetto, ma questa nuova qualità implica la critica del soggetto stesso: la critica della "forma soggetto", che non è altro che la moderna forma capitalista dell'agire. Questo può forse essere difficile da concepire dal momento che siamo abituati a pensare le azioni e le decisioni in generale soltanto nella categoria del soggetto. Ma è precisamente in questo che consiste l'impostazione nella matrice capitalista. Critica del soggetto non significa abbassare le braccia e arrendersi al fatalismo bensì, proprio al contrario, una nuova qualità della propria lotta, che si pone coscientemente l'obiettivo della rottura con la matrice capitalista.

Decisivo, ai fini di una critica radicale della "forma soggetto", è anche la conoscenza della struttura di tale soggetto. Esso non è di fatto lo "essere umano" in quanto tale, ma il soggetto maschile bianco occidentale (MBO) della modernità. Qui bisogna tornare ancora una volta alla concettualità spezzata dell'astrazione reale del lavoro, assunta nella prima parte di questo studio in connessione con la teoria della dissociazione di Roswitha Scholz. L'astrazione reale si trova sempre, non solo accidentalmente o empiricamente, bensì in accordo dalla sua determinazione essenzialmente logica, unita alla dissociazione sessualmente determinata dei momenti di riproduzione sociale materiali, socio-psichici e cultural-simbolici, che non rientrano nel lavoro astratto/forma valore. Questa dissociazione non dev'essere intesa (e in tal modo malintesa) come "sfera" separata (ad esempio, semplicemente come "privacy") o come dominio subordinato, ma come momento essenziale globale, trasversale a tutte le sfere, in quanto si fonda sul piano della logica di base o della matrice stessa. La totalità capitalista non è quindi una totalità monistica, coerente, come ad esempio appare in Moishe Postone, bensì, in quanto deve sempre essere pensata insieme alla struttura di dissociazione, una totalità spezzata, che in sé non è coerente (cosa che implica una critica fondamentale del concetto hegeliano di totalità).

Per questo la dissociazione, come momento della struttura essenziale del lavoro astratto, deve essere trovata nei soggetti di questa forma e sostanza. Le donne nella modernità sono sempre "doppiamente socializzate" (Regina Becker-Schmidt), esse sono in una certa qual misura solo a metà nella forma del soggetto, poiché devono anche sempre rappresentare e trattare simultaneamente la dissociazione, che viene a sua volta in qualche maniera spezzata e differenziata. La dissociazione si estende, in quanto momento essenziale, non solo attraverso tutte le sfere della riproduzione costituita dalla matrice capitalista, ma anche attraverso tutte le epoche della sua storia interna, con marchi diversi per ciascuna epoca, fino alla postmodernità (vedi, in dettaglio, Roswitha Scholz, 2000). La stessa cosa si applica all'umanità non bianca, non occidentale, che sotto le élite della modernizzazione non ha mai interamente raggiunto la forma moderna del soggetto, e perciò è sempre la prima a minacciare di fallire nella matrice capitalista, che viene ad essa presentata sotto un profilo di esigenza, senza che possa soddisfare alle condizioni a questo necessarie.
La nuova qualità della critica radicale che si accompagna alla soluzione del moderno dilemma-soggetto-oggetto (e non solo) nella teoria della crisi e del collasso, esige per questo non solo una critica dell'ontologia del lavoro, ma anche una critica del soggetto, come portatore di azione di quest'ontologia; e non solo una critica del soggetto, ma anche una critica della struttura di dissociazione ad esso legata da una logica essenziale. Una "critica del lavoro" riduzionista, che oirta avanti solo a metà la critica del soggetto (cioè, ad un concetto di soggetto sessualmente neutro) e che ignora la logica della dissociazione, oppure la degrada a qualcosa di meramente storico-empirico, rimane sotto l'egida del MBO ed è condannata al fallimento. Solo una critica radicale che comprende in ugual misura il lavoro astratto, la forma soggetto e la dissociazione sessualmente determinata può ottenere la forza di impatto ai fini di un soppiantamento dell'ontologia del lavoro, e insieme ad esso della matrice del campo capitalista. Inoltre, per inciso: il contenuto della critica non può essere solo l'eterna invocazione del soggetto nelle categorie o insieme alle categorie, ma semmai la critica e perfino la distruzione pratica della matrice categoriale e insieme ad essa del soggetto, dello stesso MBO, maschio bianco occidentale.

Robert Kurz - pubblicato sulla rivista Exit!, 2/2004 – (10 di 10 – fine.)
fonte: EXIT!

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