Print Friendly, PDF & Email

il rasoio di occam

Per una buona pratica della filosofia

Riflessioni a partire da un cattivo esempio

di Andrea Cavazzini e Maria Turchetto

army of marx 499La Storia del marxismo in tre tomi curata da Stefano Petrucciani per l’editore Carocci e pubblicata nel 2015 è un encomiabile tentativo di fare informazione e buona divulgazione[1]. Tanto più lodevole quanto più non si potrebbe esagerare l’importanza di fornire alle generazioni più giovani delle conoscenze precise e verificabili sul marxismo, questa componente decisiva della storia degli ultimi due secoli che è ormai un oggetto della conoscenza storica.

Ci sono però altre ragioni che fanno di questa pubblicazione un utile stimolo per la riflessione. Innanzitutto, occorre precisare che si tratta di una storia principalmente filosofica, in quanto consacrata allo studio e all’analisi delle forme teoriche del marxismo[2]. Tuttavia, una specificità di Marx e del marxismo consiste nel mettere in questione le partizioni disciplinari troppo nette e abituali e di articolare filosofia, economia politica, storiografia, sociologia... Perciò, i concetti e le teorie che compongono queste forme del marxismo appartengono a pratiche teoriche e a regimi discorsivi differenti, e si inscrivono in congiunture storiche e politiche specifiche. Storia filosofica dunque, ma che corrisponde ad una pratica della filosofia per cui è centrale il rapporto con una molteplicità di saperi e con la storia globale.

Inoltre, tra i “generi” del discorso filosofico, quest’opera occupa una posizione specifica. Essa si rivolge infatti ad un pubblico che si suppone già maturo ed informato, ma  non “specialista”. Il suo ambito è quindi distinto sia dall’insegnamento scolastico della filosofia e dalle finalità didattiche in senso stretto, sia dalla produzione specialistica dell’Università. Posizione feconda e coraggiosa, perché scommette sull’esistenza di un pubblico “ideale” di lettori che desiderano certo imparare qualcosa ed accedere a nuovi strumenti critici e a nuove conoscenze, ma che sono anche già portatori di saperi e di esperienze più o meno strutturati, e soprattutto la cui “volontà di sapere” nasce più da curiosità intellettuali, da esigenze etiche o politiche, che da obblighi istituzionali o professionali.

Il rapporto con un pubblico siffatto non dovrebbe essere sottovalutato nell’accostarsi a questa e ad altre pubblicazioni. Ormai molti anni fa, Franco Fortini deplorava la scarsissima attenzione rivolta dalla cultura italiana alla comunicazione didattica e scolastica, alla prosa pedagogica e divulgativa, e lo “stato quasi generale di abbandono e di irresponsabilità in cui sono tenuti i testi destinati alla scuola”[3] – fenomeni tanto più gravi quanto più, ricordava Fortini, è da questi strumenti che l’enorme maggioranza trae gli strumenti per razionalizzare la propria esperienza e orientarsi nel mondo. Questo fenomeno si doveva in primo luogo alla tendenza elitista della cultura umanistico-letteraria italiana, ma è stato trasformato e aggravato dal sorgere dell’industria culturale di massa, che relativizza i confini tra espressione e concetto, educazione e entertainment, discorso pubblico e effusione emotiva: perciò “gli uomini di sapere si sono messi a scrivere come letterati: quando parlano, non chiamano mai la verifica”[4] . Schiacciate tra l’intuizione rarefatta e la conversazione intima o frivola, finiscono così sacrificate qualità come l’oggettività, l’accessibilità, il rigore che sono consustanziali alle scritture didascaliche e “formative” nella misura in cui esse si propongono di facilitare l’uscita generale dallo “stato di minorità”. Scritture, queste, che suppongono non solo il necessario e decisivo rapporto personale del ricercatore-autore con la sua materia, ma anche un alto grado di padronanza di strategie di oggettivazione: criteri di obiettività, tecnica compilativa, rigore terminologico, scrupolosità nei riferimenti fattuali… Tutti requisiti intesi a neutralizzare un rapporto “esoterico” all’oggetto trattato, sottraendolo all’arbitrio e all’iperspecialismo, e permettendone una circolazione “pubblica” effettivamente educativa.

È un fatto importante che un’opera storico-filosofica raccolga la sfida di queste esigenze e cerchi di fornire una conoscenza precisa e un inquadramento razionale di un oggetto – il marxismo – che per sua stessa natura rifiuta la frammentazione dei microspecialismi e resta indissociabile da interessi e persuasioni irriducibili all’organizzazione scolastica e istituzionale dei saperi.

Un capitolo di quest’opera – “Marx in Francia” affidato a Manlio Iofrida (pagine 43-76 del secondo tomo) – incarna però in modo addirittura clamoroso una maniera di praticare la (storia della) filosofia in cui le esigenze di razionalizzazione e oggettivazione correlate al lettore ideale di cui sopra sono del tutto disattese. Questa maniera consiste in un’oscillazione caratteristica tra l’ultraspecializzazione dei settori di ricerca e l’espressione soggettiva di una “visione del mondo” – due tendenze discorsive altamente autoreferenziali che finiscono per sopprimere nella pratica della filosofia il momento comunicativo e formativo richiesto dalla divulgazione “alta” e dalle esigenze civili e morali del suo pubblico ideale. Vorremmo procedere all’esame critico del testo di Manlio Iofrida, concentrandoci non tanto sulle tesi che lo sottendono quanto sulla sua natura di discorso inverificabile che si riduce ad un monologo senza oggetto né destinatario. Ci sembra che lo scarto tra questo capitolo e le esigenze immanenti all’opera collettiva esprima con particolare chiarezza il contrasto tra differenti maniere di esistere del discorso filosofico. A partire da ciò, sarà possibile cercare di impostare un discorso su possibilità e limiti della pratica della filosofia, che va ben al di là dell’episodio contingente da cui prendiamo le mosse.

Il testo di Iofrida inizia con un’affermazione programmatica alquanto impegnativa: si tratta di capire “come possono essere «rinnovati» alcuni aspetti” del pensiero di Marx a partire dalla sua ricezione filtrata da alcune caratteristiche peculiari della cultura francese (p. 43). È chiaro che questa problematica è del tutto legittima per quanto riguarda le posizione del ricercatore Iofrida: resta però che essa non è identica al compito di offrire una conoscenza precisa delle appropriazioni francesi di Marx dopo il 1945. Questi due obiettivi potrebbero teoricamente coesistere, ma a condizione che la questione del “rinnovamento” sia sostenuta e preceduta dall’adempimento del primo compito, quello di far conoscere un oggetto storico ricostruito nei suoi tratti generali accertabili. Invece, qui l’interpretazione di ciò che è vivo e ciò che è morto nel Marx “francesizzato” finisce per sostituire interamente la ricostruzione di questa appropriazione.

Una prima conseguenza evidente di questo disinteresse per l’aspetto storico-informativo è che il testo non definisce mai, e quindi non delimita, il suo oggetto. Viene certo detto en passant che si tratta della “ricezione del pensiero di Marx”, e della “storia del marxismo nel dopoguerra in Francia” (ibid.). Ma con ciò non si è ancora detto granché di preciso: perché né Marx in quanto corpus testuale e concettuale né il marxismo in quanto corrente di pensiero, discorso teorico e movimento politico sono delle entità omogenee la cui unità e coerenza sarebbero immediatamente evidenti (guarda caso, sono in particolare due filosofi francesi ad averlo segnalato nel modo più radicale, cioè Althusser e Sartre).

In una storia della ricezione di Marx e/o del marxismo occorre quindi definire cosa si intende per “Marx” e “marxismo”: fanno parte del “marxismo” tutti i teorici che leggono Marx e ne riprendono i concetti? Oppure solo quelli che sono anche militanti o compagni di strada di una componente qualunque del movimento operaio, socialista e/o comunista? E viceversa, tutti i marxisti dal punto di vista politico sono anche interpreti originali di Marx, oppure il loro “Marx” è filtrato dal “canone” terzinternazionalista delle opere di Marx, Engels, Lenin e Stalin? E quando un autore parla di “Marx”, in quale misura non sta invece parlando del “marxismo” come fenomeno storico-politico, dell’ortodossia post-staliniana, o addirittura del senso storico-universale della politica comunista? Quali testi di Marx sono accessibili a tale o talaltro autore in una data congiuntura? E attraverso quali orizzonti di precomprensione questi testi sono letti?

Inoltre, e ampliando la prospettiva, quali discipline o sfere della cultura sono pertinenti in uno studio del marxismo? Nelle ricezioni di Marx il ruolo dei filosofi di professione o formazione è stato sempre innegabilmente importante, ma ciò non significa che sia stato esclusivo – tanto più in una situazione culturale come quella francese dopo il 1945, in cui si assiste ad un prodigioso mutamento del sapere che investe i confini disciplinari. In questo processo, Marx e il marxismo giocarono un ruolo decisivo proprio nel senso di un discorso che ricostruisce i confini e gli statuti dei saperi, eccedendo quindi la “filosofia per filosofi”, e anzi ridefinendo implicitamente ciò che la filosofia può e deve fare. Nel contributo di Iofrida, non una parola è detta della ricezione di Marx e del marxismo in antropologia (Lévi-Strauss, Lucien Sebag, Maurice Godelier…), in linguistica e teoria del discorso (Michel Pêcheux…), in teoria letteraria (Roland Barthes…), in economia (Charles Bettelheim, Henri Denis, Michel Aglietta e la Scuola della regolazione…). Ancora una volta ribadiamo che è perfettamente legittimo dedicare uno studio alle sole letture filosofiche di Marx, ma a condizione di esplicitare i criteri della costruzione dell’oggetto. Mancano insomma delle domande (e delle risposte) preliminari, che preserverebbero il testo dal cadere nell’arbitrario.

Tali questioni preliminari sono forse un po’ astratte – e quindi sospette di aridità e pedanteria – ma difficilmente evitabili se si vuole delimitare precisamente l’oggetto di un contributo storico e (far) capire di cosa si sta parlando. A partire da esse, alcune scelte erano possibili (e esplicitabili) per impostare il testo. Ad esempio si poteva (la lista non è esaustiva): 1) studiare le correnti intellettuali e teoriche marxiste politicamente rilevanti; 2) analizzare le letture filosofiche di Marx dotate di un certo “peso” teoretico; 3) seguire l’influenza di Marx nella cultura francese andando oltre gli autori che si definiscono politicamente marxisti; 4) ricostruire il ruolo del marxismo nella trasformazione delle scienze umane in Francia. Invece di distinguere queste strade possibili ed esplorarne una o diverse, Iofrida fa come se tutto fosse ovvio come se l’oggetto e il corpus del suo testo non avessero bisogno di alcuna definizione, e così associa arbitrariamente correnti letterarie influenzate dal marxismo (il Surrealismo), filosofi marxisti e lettori di Marx (Sartre e Althusser) e autori non-marxisti interpellati dal marxismo come fenomeno politico e intellettuale (Blanchot, Bataille, Merleau-Ponty). Diventa perciò opaco cosa colleghi o separi questi autori i cui discorsi e il cui rapporto a Marx e/o al marxismo hanno degli statuti estremamente diversi.

D’altronde, anche le ragioni di studiare tali autori piuttosto che altri non sono mai dichiarate. Distinguere e fissare degli oggetti precisi avrebbe potuto orientare la selezione degli autori o delle correnti cui dedicare un’attenzione particolare. È incontestabile che qualunque prospettiva adottata avrebbe imposto una selezione di autori e correnti e sarebbe stata quindi incompleta e parziale, ma delimitare un oggetto e attenersi al compito di ricostruirne il profilo storico, fa sì che alcune scelte si impongano di conseguenza. Si vuole parlare delle correnti intellettuali dotate di rilievo politico? Allora bisogna parlare di collettivi-rivista come Socialisme ou Barbarie e Arguments o dei gruppi sociologico-militanti attorno a Félix Guattari, Henri Lefebvre e Georges Lapassade. Si vuol parlare delle “grandi” letture filosofiche di Marx? Allora occorre parlare di Gérard Granel e di Michel Henry, di Lucien Sève e di Kostas Axelos… Si vuole parlare dell’influenza diffusa di Marx e del marxismo presso dei pensatori non-marxisti in Francia? Allora non si può non parlare di Raymond Aron e Michel Foucault. Si sceglie invece di concentrarsi sulle scienze umane? Dunque impossibile tacere di Jacques Lacan e Claude Lévi-Strauss…

L’arbitrarietà dell’operazione di Iofrida si manifesta non solo nella selezione degli autori, ma anche nel loro trattamento. Essi vengono gerarchizzati, non in base all’importanza storica della loro attività – importanza che può essere misurata, ripetiamolo, solo a partire dalla delimitazione di un oggetto storico dai contorni quanto più possibile precisi – ma secondo la loro prossimità alla visione del mondo iofridiana.

Qualche esempio di “stranezze” certo minori, ma comunque significative nel contesto di una Storia del marxismo con finalità divulgativa: Sartre e Althusser sono due figure colossali e complesse sotto tutti i punti di vista, non pare possibile consacrar loro lo stesso spazio concesso a Tran Duc Thao (p. 58). Allo stesso modo, Bataille (p. 48) ha con Marx e il marxismo un rapporto molto più esplicito che Blanchot (p. 50), le cui citazioni sembrano indicare un’influenza decisiva di Kojève e Bataille quando si tratta di convocare temi e concetti marxiani o marxisteggianti. Bataille commenta esplicitamente Marx e i marxisti, Blanchot fa delle allusioni anonime: pare discutibile dedicare loro lo stesso spazio come se avessero lo stesso rapporto con l’oggetto in questione.

Problemi ancora più gravi sorgono nel trattamento di Sartre e Merleau-Ponty. Iofrida considera Merleau-Ponty il filosofo francese più importante del secondo Novecento, e tende sistematicamente a rivalutarlo nei confronti di Sartre. Però, ciò che il lettore vuol sapere dal testo di Iofrida, non è cosa quest’ultimo pensi di Sartre e Merleau-Ponty, ma il ruolo rispettivo di Sartre e Merleau-Ponty nella ricezione di Marx (del marxismo) in Francia dopo il 1945. Ora, rispetto a questo compito forse modesto ma preciso, la tendenza di Iofrida a lanciarsi nella difesa e illustrazione della grandezza di Merleau-Ponty finisce per produrre delle vere e proprie falsificazioni. Iofrida è perentorio: “Mentre Sartre teorizzava l’impegno, ma in un quadro che non andava al di là di un democraticismo generico allargato a un socialismo altrettanto generico, era il suo amico Merleau-Ponty ad affrontare in modo articolato il problema di un aggiornamento del marxismo (…). L’incontro con Marx è ben documentato già in Fenomenologia della percezione (1945), e si potrebbe risalire anche a La struttura del comportamento (1942), ma la riflessione più sistematica è certo quella che troviamo in Umanesimo e terrore (1947)” (p. 54). Inoltre, nel paragrafo dedicato a Sartre: “Poco senso avrebbe rifarsi, per un discorso sul marxismo di Sartre, a L’es¬sere e il nulla (1943) o anche alla famosa conferenza sull’esistenzialismo (Sartre, 1946): la maturazione politica di Sartre (…) è stata lenta e il suo approccio al marxismo per lungo tempo subalterno a quello di Merleau-Ponty, che gli fu maestro in questo campo. Il paradosso è anzi che, anche dopo la famo¬sa rottura del 1953, e le critiche di Merleau-Ponty in Le avventure della dialettica (1955), questa subalternità continua, come se Sartre si trovasse sempre un passo indietro rispetto all’amico” (p. 61). Quindi, la pertinenza di Sartre per il marxismo francese comincerebbe solo nel 1960, con la Critica della ragion dialettica.

Queste poche righe sembrano chiudere la questione con sicurezza “magistrale”. Tuttavia, esse nascondono numerose trappole. Innanzitutto, per Iofrida Merleau-Ponty, sarebbe già un interprete di Marx nelle sue opere teoretiche pubblicate tra il 1942 e il 1945. Si tratta di una tesi che meriterebbe di essere maggiormente argomentata, ma soprattutto occorrerebbe distinguere l’operazione di un filosofo che utilizza Marx per costruire il proprio percorso da un confronto con Marx, il marxismo e il comunismo nel contesto del dopoguerra e della guerra fredda, quale Merleau-Ponty intraprenderà nel libro del 1947. Insomma, il fatto di leggere e usare Marx nei lavori di un filosofo universitario non può avere lo stesso statuto del tentativo di pensare la rivoluzione oltre il terrore staliniano cercando di conciliare esistenzialismo e marxismo e rivolgendosi non già ad un jury de thèse ma al Partito comunista francese. Iofrida omette di precisare tutto ciò, il risultato è che il lettore non apprende granché su cosa dica Merleau-Ponty di Marx e del marxismo, né del perché lo dica e a chi. Si direbbe quasi che il ruolo di Merleau-Ponty nell’introduzione di Marx in Francia si riduca ad aver menzionato Marx (e Lukács) in un momento in cui nessun altro lo faceva. E infatti, ci viene detto che negli anni ’40, mentre Merleau-Ponty lavorava sul marxismo, Sartre era un democratico generico, teorizzava l’impegno e scriveva opere che non sono degne di figurare tra le ricezioni del marxismo in Francia. Ora, nel 1946, Sartre pubblica nei Temps modernes il saggio “Matérialisme et révolution”, critica esistenzialista del materialismo dialettico a cui Umanesimo e terrore cerca di rispondere nei termini di un dialogo più costruttivo – cioè in effetti difendendo l’esistenzialismo e le sue buone ragioni politiche e teoriche di fronte agli attacchi dei marxisti ortodossi del PCF contro Sartre[5].

Si direbbe quindi che la ricezione del marxismo in Francia passi anche attraverso Sartre almeno dal 1946: infatti, contrariamente a quanto afferma Iofrida, gli interventi di Merleau-Ponty non precedono, ma seguono, le prese di posizione di Sartre e rispondono ad esse. Infine, Iofrida menziona la “famosa rottura” del 1953 tra i due filosofi, ma senza dire una parola sull’oggetto del contendere – che è, guarda caso, il rapporto con il comunismo francese e sovietico – né sul fatto che essa avviene anche intorno alla pubblicazione dei primi capitoli di Les communistes et la paix tra il 1952 e il 1954, lunga riflessione di Sartre su proletariato, partito e azione collettiva, che fonda teoricamente la posizione del “compagno di strada”e che precede ovviamente la Critica del 1960.

Chi non sapesse tutto questo per altre vie, non lo verrebbe a sapere dal testo di Iofrida. L’autore è certo libero di disprezzare Sartre e di esaltare Merleau-Ponty. Ma questa opzione non dovrebbe impedire, in un contributo storico, di ricostruire correttamente dal punto di vista tematico e fattuale i ruoli e le posizioni rispettivi dei due filosofi nella ricezione francese del marxismo. Soprattutto, il lettore dovrebbe essere messo in condizione di farsi un’idea del dibattito tra i due sodali-avversari, delle sue poste in gioco politiche e filosofiche, del suo contesto storico, dei suoi momenti, episodi e date salienti, del contenuto generale dei testi principali coinvolti in questo confronto, piuttosto che trovarsi di fronte quasi esclusivamente dei giudizi sommari e inverificabili sul valore rispettivo di Sartre e Merleau-Ponty.

Se poi consideriamo un livello ulteriore, cioè l’interpretazione del senso globale di un’opera, di un autore o di un pensiero, il quadro non fa che aggravarsi. Iofrida distingue raramente ciò che gli autori dicono dalla sua interpretazione del senso di ciò che dicono; e quando lo fa, non dimostra mai che la sua interpretazione effettivamente regge il confronto con i testi. Per esempio, Iofrida dice che con Blanchot “il Marx e il Lenin dell’espropria¬zione violenta della classe borghese vengono inseriti nella pratica poetica” (p. 53). Però il passaggio di Blanchot citato subito prima dice soltanto che nella poesia “l’immagine prima (…) diviene incessantemente un potere più complesso e più forte di trasformare il mondo in un tutto tramite l’appropriazione del desiderio” (p. 52). Il legame di queste posizioni blanchottiane con la dittatura del proletariato forse esiste, ma si dovrebbe fare lo sforzo di dimostrarlo. Il passaggio seguente è poi un esempio di interpretazione che potremmo definire “trascendente”, la quale elimina con sovrano disprezzo tutto il lavoro di lettura e di commento di un testo a favore di un’estrapolazione vertiginosa verso le regioni sublimi del Senso fondamentale e dell’Essenza nascosta: “A cosa si riduceva, in sintesi, l’analisi di Le parole e le cose di Foucault (1966), in cui il dialogo col marxismo era centrale, anche se in sordina? All’idea che era inutile opporre la soggettività operaia all’enorme sviluppo tecnologico di cui si stava dimostrando capace il capitalismo: era inutile, ma anche politicamente errato e controproducente, poiché portava in realtà al totalitarismo” (p. 65-66).

La stessa “violenza ermeneutica” colpisce poco dopo Althusser, il quale “era convinto del fatto che la scienza e la tecnologia del neocapitalismo non potessero essere trattate con concetti umanistici, condivideva l’individuazione, in esse, di un fondo «ultratecnico» della tecnica, ma, al posto della letteratura, pensava di poter mettere, non ancora la lotta di classe, ma un marxismo rinnovato, un marxismo della «surdeterminazione», che avrebbe aperto a una rivoluzione assoluta, a una società che nulla aveva a che fare con la società borghese” (p. 69). O ancora: “Il tipo di marxismo che egli propone non è affatto, nonostante le apparenze, legato a un’idea leninista. Come in Foucault e Derrida, dietro l’idea di scienza si nasconde l’opposto: la rivoluzione come evento imprevedibile, come rottura surdeterminata, come lampo e precipitare di eventi” (p. 66). A titolo di esempio finale, citiamo questo passaggio surrealista in tutti i sensi del termine: “La prospettiva surrealista di una rivoluzione attraverso la letteratura e, soprattutto, la poesia, col suo riferimento centrale al Romanticismo di Novalis e Nerval, nonché alla figura di Sade, e con la centralità che ha in essa il riferimento all’inconscio freudiano, portava in una direzione antiumanistica che sarà piuttosto la generazione strutturalista degli anni sessanta a cogliere: attraverso la lettura del Bataille del dopoguerra, ormai riconciliatosi col Papa del surrealismo, Althusser, Foucault, Deleuze, Derrida saranno i veri figli di Breton, ben più della generazione esistenzialista, che, con l’eccezione del solito Merleau-Ponty, non lo ha molto amato” (p. 47).  Senza voler minimamente interloquire con Iofrida in quanto interprete del senso ultimo e profondo dei pensieri di Althusser o Foucault, chiediamo allo storico della filosofia che Iofrida dovrebbe essere in questo contesto: quale lettore di Althusser e Foucault li riconoscerebbe in queste righe che – ricordiamolo – hanno il compito di introdurre un pubblico non specialista alle grandi linee del dibattito marxista in Francia? Certo, è del tutto legittimo e indispensabile interpretare un autore attraverso categorie che non ha egli stesso elaborato. Ma appunto l’interpretazione è una pratica che presuppone il rispetto preliminare dei testi e dei contesti, non l’espressione incontrollata e incontrollabile di associazioni e suggestioni, soprattutto se l’atto interpretativo è interno ad un testo il cui fine è fornire una conoscenza introduttiva e degli strumenti critici di base.

Infine, molti termini e nozioni sono utilizzati in modo del tutto vago, onde non c’è modo di sapere cosa significhino nemmeno per Iofrida, a fortiori per gli autori commentati. Ad esempio, Iofrida evoca un marxismo ortodosso rispetto al quale gli autori commentati costituirebbero una rottura o un’opposizione. Ma non viene mai detto nulla sulla natura di questo marxismo ortodosso, ciò che rende impossibile misurare la radicalità delle eresie. Ancora: quando Iofrida vuol fare un complimento a un autore, dice che questi non è leninista o è anti-leninista. Ma non c’è nessun tentativo di spiegare cosa si intenda per leninismo. Iofrida sembra aver sentito dire da qualche parte che il leninismo è una brutta cosa, quindi si affretta a stornare ogni sospetto di leninismo dagli autori che ha deciso di approvare. Perciò ci assicura che Althusser non è leninista (p. 66), mentre Sartre reintrodurrebbe il leninismo nel marxismo critico francese che ne era vergine (p. 65). Però, si dà il caso che Althusser si sia richiamato apertamente a Lenin per costruire sia la sua teoria della surdeterminazione che la sua visione della filosofia, e che Sartre abbia rinunciato già alla fine degli anni Cinquanta a fiancheggiare il PCF e sia diventato al contrario l’interlocutore dei movimenti di contestazione terzomondisti, anticoloniali, gauchisti, criticando quindi il primato del partito sul movimento e l’azione “di base”. Ancora una volta, non si tratta di negare a priori la plausibilità dell’interpretazione di Iofrida, ma di chiedersi come possa una lettura pertinente prescindere completamente da alcuni dati fattuali inaggirabili - come i testi scritti e firmati dai suddetti autori[6].

D’altronde, il testo rigurgita di espressioni come “giacobinismo”, “volontarismo”, “prometeismo”, “politicismo”, che non sono riferiti ad alcuna corrente politica o teorica precisa, ad alcun insieme testuale o concettuale, ma servono solo a veicolare l’approvazione o la disapprovazione dell’autore. Tramite ammiccamenti e allusioni, omissioni e sovrainterpretazioni, il testo di Iofrida produce un effetto immediatamente valutativo, in spregio di ogni bisogno di conoscenza, di orientamento o di chiarificazione. La valutazione agisce su oggetti lasciati vaghi e imprecisi, caratterizzati attraverso luoghi comuni e “per sentito dire”, senza mai confrontare l’apprezzamento positivo o negativo alla resistenza e all’oggettività dei testi, dei contesti, dei concetti e delle biografie. Lo stesso dicasi di nozioni meno politiche e più strettamente filosofiche, quali “positivismo”, “soggettivismo”, “determinismo”, “antiumanismo”.Tutti questi concetti sono evocati senza che se ne precisino la definizione, il quadro problematico e la provenienza. D’altronde, la proliferazione degli -ismi come nozioni autoevidenti è in genere il sintomo più chiaro del fatto che le ricostruzioni verificabili sono state abbandonate a profitto di un navigare a vista nel “si dice”, nel brassage irrazionale delle opinioni che sono la materia prima dell’industria culturale.

Possiamo quindi concludere che questo testo rompe il patto implicito con il lettore virtuale di cui abbiamo detto all’inizio, lettore che è il presupposto di un’opera come la Storia del marxismo. Ci si può chiedere a questo punto com’è possibile che una tale incongruità sia passata inosservata nel contesto di un’opera collettiva. Una pubblicazione quale la Storia del marxismo richiede necessariamente, se non un lavoro collettivo in senso stretto, almeno il ruolo decisivo di un’equipe coordinatrice. Com’è dunque possibile che il testo di Iofrida non sia stato sottoposto ad emendamenti sostanziali?

La spiegazione risiede forse appunto nel carattere per nulla collettivo e razionalmente coordinato della pratica filosofica in Italia, cioè nella predominanza sia di una specializzazione ad oltranza che rende incomunicabili e inverificabili le singole ricerche, sia di un’abitudine inveterata al monologo che fa di ogni ricercatore una coscienza pura alle prese con i massimi problemi. Del resto, sia l’insegnamento universitario della filosofia che le pubblicazioni librarie consistono tradizionalmente in una serie di monologhi idiosincratici tra uno specialista e il suo “mondo” problematico e testuale, di cui studenti e lettori (eventuali) sono solo fruitori passivi ed esterni.

Le incongruità del testo di Iofrida sono appunto un’estremizzazione quasi caricaturale di questo monologare, tanto più evidente quanto più esso non riesce ad essere “filtrato” e corretto nemmeno dal vincolo di un’opera collettiva e ad intento pedagogico ben delimitato: non c’è dubbio infatti che “Marx in Francia” sviluppa un discorso puramente “privato”, il quale, ansioso com’è di mettere in piedi una “visione del mondo” normativa e valutante, finisce per perdere di vista non solo ciò di cui parla, ma anche la posizione da cui parla e a chi.

Se questi tratti riguardassero solo Manlio Iofrida o un suo singolo contributo non meriterebbero un’attenzione particolare. Crediamo invece che essi siano rivelatori di una situazione generale della filosofia (almeno in Italia), una situazione rispetto alla quale opere come la Storia del marxismo in cui questo testo è apparso rappresentano in via di principio una controtendenza. È su questa situazione che l’analisi critica di questo lavoro vorrebbe avviare una riflessione. È noto infatti che la filosofia soffre di una crisi durevole d’identità – come praticamente tutte le forme del sapere e della cultura, ma con caratteri specifici, in particolare nel contesto italiano.

Con il venir meno della centralità istituzionale e culturale che le aveva affidato il neoidealismo di Croce e Gentile, la filosofia in Italia ha non solo perduto l’evidenza del suo mandato sociale, ma è stata anche singolarmente incapace di riflettere su questa perdita. La filosofia italiana nelle sue correnti dominanti è stata in genere molto attenta al proprio statuto politico e ideologico, al proprio rapporto con le “grandi narrazioni” – marxista, cristiana, liberale – ma molto reticente o disattenta rispetto alla verifica dei propri strumenti, dei propri circuiti istituzionali (scuola, università, edizione…), delle proprie modalità di esercizio, della realtà dei propri produttori e consumatori… Così, si è prodotta una scissione tra le vette delle prospettive etico-politiche e gli automatismi non interrogati delle istituzioni del sapere e della cultura, tra l’elaborazione di “visioni del mondo” più o meno significative e la quotidianità dei manuali scolastici (nei licei) e dello specialismo erudito (all’Università). Alla fine del Novecento, con la crisi delle grandi prospettive e culture politiche, la situazione non è cambiata di molto. La struttura materiale della pratica della filosofia è rimasta determinata passivamente dai dispositivi istituzionali e dalla loro logica autoriproduttiva: nei licei, la dossografia storicistica dei manuali è stata tendenzialmente sostituita dalla centralità della didattica e della metodologia, all’Università lo specialismo tradizionale si è andato adeguando ai criteri internazionali di valutazione (impact factor, peer review…) da cui dipendono i finanziamenti e le carriere. In parallelo, al venir meno del mandato politico-ideologico, ha risposto la ricerca convulsa di una legittimità sociale attraverso i media, le psicoterapie “leggere” e la cultura-spettacolo: aldilà della sua esistenza scolastica e accademica, la filosofia popola quotidiani, settimanali e televisioni, il mondo del counseling e quello dei “festival” estivi. In tutti questi casi, le esigenze di grandi meccanismi economici e politici e di vasti corpi professionali impongono al campo filosofico una fisionomia ed un’evoluzione programmaticamente sottratte all’esplorazione delle possibilità intrinseche di quest’ultimo e ad un rapporto adulto e produttivo con dei soggetti interessati a tale campo per ragioni etiche, politiche e intellettuali.

Si dirà che tale è il destino di praticamente tutti i campi del sapere e di tutte le forme della cultura nel mondo contemporaneo. Ciò è senza dubbio vero, ma solo in parte. Se osserviamo le discipline letterarie, da un lato, e quelle scientifiche, dall’altro, non possiamo non constatare, proprio in Italia, un impegno teorico e pratico considerevole nei confronti delle proprie condizioni di esistenza, della presa di coscienza critica del proprio statuto sociale, dei propri interlocutori reali e virtuali: un impegno di cui il campo filosofico non offre molti esempi. Nel campo letterario, pensiamo ai dibattiti, che risalgono al dopoguerra, sull’introduzione dei metodi di analisi stilistica e poi strutturalista (contro il culto dell’intuizione estetica e dell’impressionismo), a quelli sul “pubblico della poesia”, sulla funzione della critica e dei suoi differenti generi, sulla letteratura nell’epoca dell’industria culturale di massa e dei media… Nell’ambito scientifico, si pensi invece ad opere come la Storia del pensiero filosofico e scientifico diretta da Ludovico Geymonat, agli interventi critici di un Lucio Russo sull’insegnamento delle scienze a scuola, e al lavoro di associazioni come l’ANISN (Associazione Nazionale Insegnanti Scienze Naturali) sull’insegnamento e la divulgazione scientifici. Insomma, altre discipline sono state capaci – sia pure con difficoltà ed esiti ambivalenti – di unire nella propria autoriflessione la coscienza lucida delle loro condizioni materiali di esistenza, la volontà di praticare e difendere le proprie specificità e il proprio valore culturale, e il rapporto con un pubblico non specialista ma colto e “impegnato”, a cui si devono ad un tempo rigore intellettuale e prospettive generali. Al contrario, le forme dominanti della filosofia hanno continuato e continuano ad occuparsi dei Grandi Temi metafisici e del Senso dell’Esistenza fingendo di non sapere – o meglio, occultando attivamente tramite queste logomachie – che la filosofia è, oltre che un atto del pensiero puro, una materia d’insegnamento, una disciplina accademica, un settore del mercato editoriale e audiovisivo, e (forse) un interesse ed una passione per dei soggetti pensanti, che si attendono e meritano di essere trattati come tali.

Sarebbe possibile aprire una riflessione su come evitare il monologo inverificabile, la vacuità pretenziosa e le valutazioni arbitrarie nella pratica filosofica? C’è da sperarlo. Vorremmo suggerire che una tale riflessione non potrebbe trascurare l’organizzazione concreta del lavoro filosofico, che è anche un certo rapporto con le sue condizioni materiali. Una tale riflessione cioè non potrebbe essere essa stessa monologica, ma dovrebbe necessariamente articolarsi alla messa a punto di gruppi e programmi di lavoro, strategie coerenti per iniziative editoriali e culturali, pratiche riflessive dell’insegnamento e della ricerca, organizzazione degli scambi e delle collaborazioni tra interlocutori diversi.

Queste forme di riflessione e di attività esistono già senza dubbio, forse non hanno mai smesso di esistere, e meriterebbero di non restare nella marginalità delle iniziative “private” dei soliti volenterosi di cui vivono, sfruttandole e ostacolandole al tempo stesso, le istituzioni in crisi. Sarebbe forse opportuno che un’inchiesta cominciasse su questi modi della filosofia che possono ancora sottrarla alla dissoluzione nella chiacchiera e negli automatismi istituzionali. Si tratta di un’aspirazione modesta e esigente ad un tempo, ma forse corrispondente a bisogni reali, e quindi potenzialmente salutare entro un campo, quello filosofico, così spesso diviso tra falsa modestia e false esigenze.


NOTE
[1] Per una presentazione dei singoli contributi, rimandiamo alle recensioni dettagliate di Paolo Favilli, (http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/05/10/la-nuova-storia-del-marxismo-in-italia/) e di Vittorio Morfino in corso di pubblicazione in Critica marxista.
[2] Come segnala Paolo Favilli nella sua recensione, questo sguardo autonomo sulle forme teoriche si può correlare al venir meno della connessione tra tali forme e “le forme assunte dall’antitesi dei subalterni”.
[3] F. Fortini, “Premessa” a Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Milano, Il Saggiatore, 1968, Milano, EST, 1998,  p. 23.
[4] F. Fortini, “Editoria di cultura e editori di moda” (1986), in Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Donatello Santarone, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003,  p. 445.
[5] Si veda a questo proposito Florence Caeymaex, communication présentée au colloque annuel du Groupe d’Etudes Sartriennes international, Université de Paris I (Panthéon-Sorbonne), Paris, 17 juin 2005, http://www.philopol.ulg.ac.be/telecharge....
[6] Ricordiamo solo Pour Marx (1965) e Lénine et la philosophie (1968) di Althusser e, di Sartre, il libro-dialogo con i dirigenti gauchisti On a raison de se révolter (1974). 

Add comment

Submit