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intrasformazione

Quando iniziò a fischiare la locomotiva dell’autenticità

Piero Violante

frank weston benson summer 1900Il libro La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia in Italia negli anni Settanta e Ottanta, a cura di Giuseppe Vacca, (Carrocci, 2015), si chiede perché il marxismo in Italia sia andato in crisi, si sia dissolto. I saggi, puntuali, mostrano la liquefazione marxista per un cambio di paradigma. Dal trenino dell’autonomia, nei primi anni Settanta, si passò al trenino dell’autenticità. Dalla linea Kant-Hegel-Marx-Bentam-Mill-Smart a cui si aggiunsero i vagoncini Habermas e Rawls (il paradigma americano), si passò alla linea Rousseau-Kierkegaard-Nietzsche-Heidegger-Adorno&Horkheimer-Foucault. Dal principio della coerenza, della coincidenza tra condotta e principio morale (il prof. Unrat dell’Angelo Azzurro) al principio della soddisfazione di sé che diviene plurale. Avanza questa secondo trenino via via che sminuisce la certezza nella vettorialità del tempo, che sminuisce la certezza del progresso. Lo aveva detto Rousseau, lo aveva indicato Diderot, lo riprende magistralmente Foucault. Nel Nipote di Rameau si afferma l’io debole che si adatta per trasformarsi. È di Marshall Berman il libro chiave dell’epoca del secondo trenino, The Politics of Authenticity, pubblicato già nel 1970. Ma è ancora un altro libro di Berman, maltrattato sia in Italia che altrove, The Experience of Modernity (1982, tradotto in Italia nel 1985) che per la prima volta propone una lettura modernista di Marx richiamando l’attenzione su un passo del Manifesto:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. […] Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si dissolve nell’aria tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhi disincantati la propria posizione e i propri rapporti reciproci.

Commentando questa pagina straordinariamente modernista, questo elogio sperticato di Marx del dinamismo “moderno” dei borghesi, Berman osserva che se l’impulso dialettico della modernità si rivolge contro i suoi primi animatori, i borghesi, costringendoli all’incessante mutamento, non può tuttavia lasciar fuori il proletariato e lo stesso comunismo. L’analisi marxiana della dinamica borghese della modernità renderebbe dinamica e non terminale la prospettiva del futuro comunista. “Anche ammesso –chiede Berman- che i lavoratori costruissero un efficace movimento comunista, e che questo movimento desse luogo ad una rivoluzione coronata da successo, come potrebbero mai riuscire a costruire una solida società comunista, in mezzo ai flussi instabili della vita moderna?”1 Se è corretta quest’analisi, la modernità andrebbe considerata come una variabile indipendente dei rapporti sociali e del sistema economico che li regge. La modernità nel momento in cui genera il capitalismo, animandolo, si autonomizza da esso. Scrive Berman:

“Che cosa impedirebbe alle forze sociali che hanno dissolto il capitalismo di dissolvere lo stesso comunismo? Se tutti i nuovi rapporti diventano obsoleti prima di riuscire a consolidarsi, come si potranno mantenere in vita la solidarietà, la fraternità e il mutuo soccorso?”2

Attraverso Marx con gli occhiali di Baudelaire Berman oppone una rivoluzione permanente in risposta alla rivoluzione permanente che è il capitalismo. Una rivoluzione che obbliga

“gli uomini e le donne moderne a desiderare il mutamento, ad essere non solo aperti ai mutamenti delle loro vite sociali e private, ma ad avvertirne effettivamente l’esigenza, a procurarseli e a realizzarli attivamente. Essi devono imparare a non rimpiangere « i rapporti stabili e irrigiditi» del passato, reale o idealizzato che sia, ma a compiacersi della mobilità, a progredire nel rinnovamento, a desiderare ardentemente futuri sviluppi nelle proprie condizioni di vita e nei propri rapporti con il prossimo.”3

L’avvento del socialismo non fermerebbe, né ostacolerebbe questo processo, ma al contrario lo accelererebbe e lo generalizzerebbe. Perry Anderson, in una severa ma argomentata stroncatura del libro, rinviene aria anni ’60 in queste asserzioni, che trova estranee al materialismo storico.4 Ribadisce che la rivoluzione è un termine che ha un significato preciso: il rovesciamento politico dal basso di un ordine statuale, e la sua sostituzione con un altro e che non c’è nulla da guadagnare a diluirla nel tempo o a stenderla a ogni settore dello spazio sociale. E ancora:

“Contro questi svilimenti del termine, con tutte le loro conseguenze politiche, è necessario insistere sul fatto che la rivoluzione è un episodio di convulsa trasformazione politica, compresso nel tempo e concentrato negli obiettivi, che ha un preciso inizio – quando il vecchio apparato è ancora intatto – e una precisa fine quando l’apparato è stato decisamente distrutto e ne è stato costruito uno nuovo. Ciò che distinguerebbe una rivoluzione socialista capace di creare una genuina democrazia postcapitalistica è che il nuovo Stato dovrebbe realmente essere uno Stato di transizione verso il limite praticabile della propria dissoluzione.”5

Anderson chiarisce infine che la modernità gli appare un concetto vuoto e scrive:

“Se ci domandiamo che cosa ne farebbe la rivoluzione, intesa come rottura puntuale e irreparabile con l’ordine del capitale, del modernismo, inteso come flusso di vanità temporali, la risposta è: certamente essa ne decreterebbe la fine. Perché una genuina cultura socialista sarebbe una cultura che non cercherebbe insaziabilmente il nuovo, e definito semplicemente come ciò che viene dopo, per consegnare rapidamente se stesso ai detriti del vecchio; ma piuttosto sarebbe una cultura che moltiplicherebbe il diverso, in una varietà di stili senza precedenti e di pratiche concorrenti. […] Il calendario cesserebbe di tiranneggiare o di organizzare la consapevolezza dell’arte. La vocazione di una rivoluzione socialista, in questo senso, non sarebbe né quella di prolungare, né quella di assecondare la modernità, ma quella di abolirla”.6

Questa riposta senza appello di Anderson dimostra che almeno un obiettivo Berman l’ha centrato e cioè quello di indicare ai marxisti che il vuoto, che essi temono e rifuggono, si estende dentro il marxismo e in tutto quello che, rifacendosi al marxismo, è stato concretamente realizzato. Mentre la ricetta di Anderson di abolire la modernità è la stessa applicata con un semplice atto amministrativo dallo stalinismo e dalla burocrazia del socialismo reale. La drastica e polemica conclusione fa torto ad Anderson irrigidendo le sue magistrali e filologicamente corrette argomentazioni. Ma lo scoglio sembra insormontabile: può essere accettata la modernità come variabile indipendente? Eppure l’analisi della produzione della merce di Marx ci appare la descrizione più adeguata della modernità. La creazione di nuove merci nasconde il sempre uguale ripetersi dei rapporti di produzione. Questo sempre eguale offerto come naturale, eterno va indagato invece come transitorio. Se la modernità è una variabile indipendente, perché stravolge il tempo psicologico della durata e della continuità per la frammentazione temporale che determina, intaccherà da dentro ogni forma istituzionale e sociale storicamente realizzata, ne denuncerà la transitorietà e imporrà la necessità del cambiamento, della trasformazione. Il libro di Berman è del 1982, la risposta di Anderson nel 1984, il muro di Berlino crollerà nell’89 seppellendo l’Urss. Non aveva ragione Berman nell’incitare gli uomini e le donne ad anelare al mutamento anzi a richiederlo positivamente, a cercarlo attivamente e a realizzarlo sapendo che è transitorio? Berman sembra qui ricongiungersi con Elias Canetti che additando l’antimetamorfosi come segno del Potere, scrive:

“Il potente conduce una battaglia ininterrotta contro la metamorfosi spontanea e incontrollata […] L’accumulo di anti mutamenti determina una riduzione del mondo. Per chi vi ricorre, la ricchezza delle forme fenomeniche non vale nulla e ogni molteplicità è sospetta. Tutte le foglie sono uguali, sono secche, sono polvere; tutti i raggi si spengono in una notte di ostilità.”7

Nei decenni nel frattempo trascorsi etichettati come post-moderni l’universalismo moderno appare sempre più infragilito. Un universalismo sempre più di e in transizione, ma la cui debolezza ingrandisce la sua funzione compensatoria. Nel tempo che ci trascina, gli uomini costruiscono valori comuni come una crosta di continuità che li preservi dallo sbandamento e dall’idolatria. Nell’età dell’infragilimento universalista si è tentati sempre più ad aprire l’armadio della storia per ritrovare antiche coperture metafisiche, psicologiche, istituzionali. La crosta è come un tetto, è un riparo. Ma questi tempi sempre più accelerati li rende sempre più fragili e transitori e il cittadino-viandante (Wanderer) contemporaneo sa che deve affrontare di nuovo il gelo dell’inverno e dello scontento. Berman scrive con l’ottimismo della volontà a desiderare il mutamento, ma nel tempo dalle aspettative diminuite il desiderio cede sempre più all’angoscia. Contro il dinamismo incontrollato si cerca riparo nella finzione ideologica della stabilità e della sicurezza. È questo il nuovo velo attraverso cui la soggettività scarnificata guarda il suo orizzonte? È qui che si annida la crisi del soggetto?

Il libro in particolare si chiede perché si sia dissolta l’école barisienne di cui Giuseppe Vacca è stato protagonista con Biagio di Giovanni. Al riguardo mi pare molto centrato il saggio di Onofrio Romano che chiude il volume: “L’ambigua potenza del marxismo all’alba del neo orizzontalismo”. Ne riassumo le argomentazioni. Secondo la sociologia della conoscenza esiste un rapporto tra struttura cognitiva di una teoria e struttura socio-istituzionale. Nella modernità, con l’affrancamento dell’intellettuale dalla funzione di custode dell’ordine, la teoria ha assunto una forma capovolta rispetto alla struttura organizzativa della società, al modello di regolazione dominante. Il rapporto tra teoria e società è stato improntato a un principio di reversione. Romano però osserva che dentro il moderno si è assistito a una costante alternanza egemonica tra un paradigma orizzontalista e un paradigma verticalista sia nello sviluppo delle teoria sociale, sia nel succedersi dei modelli di regolazione istituzionale. Il paradigma orizzontalista privilegia l’immanenza. Per comprendere la società occorre fare riferimento agli individui. L’ordine non emana da cabine centrali. Più gli attori sociali sono liberi di agire e interagire sulla base della loro preferenza, più la società nel suo complesso sarà felice. Per il paradigma verticalista la verità di un organismo sociale non sta nelle singole preferenze individuali, il sistema sociale non è la somma degli individui ma un’entità che funziona come un organismo che va saputo decifrare. Ci sono dimensioni trascendenti e invisibili che formano i soggetti. L’interazione tra i singoli non garantisce il risultato migliore, bisogna intervenire dall’alto per disegnare la realtà adattandola ai valori condivisi e ai principi di giustizia. Nella modernità si è assistito a una sorta di alternanza incrociata tra i due paradigmi. Quando la regolazione sociale si basa su un modello orizzontale, il pensiero si ristruttura attorno ad un paradigma verticale. E viceversa. Secondo Romano c’è una contraddizione interna al marxismo come teoria: denuncia l’insostenibilità della regolazione “orizzontale” ma scommette politicamente sul pieno dispiegamento della logica orizzontale. La contraddizione determina sia la vitalità teorica sia la vulnerabilità. L’école barisienne ha provato a mettere a valore questa contraddizione rimanendone vittima. L’orizzontalismo ottocentesco è messo in crisi dalle trasformazioni drammatiche della rivoluzione industriale. Da qui tre linee: a) smascheramento dell’orizzontalismo teorico con la denuncia della natura verticalista del sistema orizzontale; b) denuncia delle catastrofi della regolazione orizzontale; c) elaborazione di terapie verticaliste. Secondo Romano, Marx segue a e b ma è carente in c. Da qui il nodo dice della contraddizione marxiana. Alla fine dell’analisi appare il fantasma di un buon orizzontalismo, depurato dai rapporti capitalistici che non rende necessaria nuove forme verticali. Qui dice Romano l’ambiguità ma anche la capacità di adattamento e la fragilità del marxismo. Nella Grande Trasformazione (1944, ma tr.it. 1974) Polanyi denunciò con forza la non naturalità della società basata sul mercato autoregolato asserendo che l’idea stessa di mercato autoregolato

“non avrebbe potuto esistere per qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale della società: essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in un deserto. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi; ma qualunque misura avesse preso essa ostacolava l’autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così in pericolo la società in un altro modo. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso ed infine a far crollate l’organizzazione che si basava su di esso.”

Polanyi vedeva come esito della Grande Trasformazione quella che Romano indica come svolta verticalista e cioè, scrive Polanyj un processo democratico che coniuga sostanza della convivenza civile e società industriale nel rispetto dell’individuo e della libertà. Per Polanyj la democrazia è l’unica via per uscire dallo stallo essendo l’altra nella sua forte verticalizzazione il nazifascismo e lo stalinismo. Nel secondo dopoguerra il verticalismo ha il volto dice Romano del capitalismo societario ma anche aggiungerei dei diritti sociali incorporati nella carta costituzionale italiana. A petto della verticalizzazione dei sistemi regolativi il pensiero sociale pratica l’orizzontalismo. Denunciando gli effetti nefasti del disciplinamento sociale irradiato dall’alto delle istituzioni. Credo che in questo concorra anche la memoria del più pesante verticalismo fascista.

Dice Romano che il marxismo italiano si trova quindi a giocare dentro un quadro regolativo capovolto rispetto a quello di Marx in attacco all’orizzontalismo. Ebbene l’école barisienne costituirebbe il tentativo non di rimuovere optando per l’uno o l’altro polo - ma di tenere insieme e persino di mettere in valore l’ambivalenza marxiana con un (p.452)triplo movimento: smascheramento, denuncia, terapia. La partecipazione dei lavoratori contro la degenerazione burocratica. Il riferimento ad Ingrao (VI congresso del Pci). L’attacco al verticalismo fa leva sui fatti di Praga e cerca di incrementare lo imprinting gramsciana del partito di Togliatti. Denuncia lo sterile pedagogismo, la separatezza del Pci. Esempio dell’orizzontalismo di Vacca è Lukács o Korsch? (De Donato, 1969). Libro che ho molto amato. Lukács o della continuità e Korsch della frattura, condito con un attacco al verticalismo scientista di Della Volpe che è poi quello ereditato da Colletti. Korsch viene collocato nell’ambito di un marxismo critico dentro il quale si computa la scuola di Francoforte. Allora non si sapeva che la Scuola era nata dopo una settimana di studi svoltasi nella primavera del 1922 a Ilmenau in Turingia. Una foto di gruppo immortala l’evento. A mettere insieme il gruppo era stato Felix Weil, figlio di Hermann Weil mercante di grano che aveva lasciato la Germania per l’Argentina nel 1890 e si era fatto una fortuna esportando grano in Europa. Felix era nato a Buenos Aires nel 1898 e all’età di nove anni il padre lo spedisce a studiare a Francoforte dove si forma e si laurea con una tesi sulla “ Sozialisierung” che venne pubblicata su una rivista edita da Karl Korsch. Il sodalizio tra i due è all’origine della “Erste Marxistische Woche” che viene generalmente considerata come uno degli esprimenti o tentativi della sinistra socialista e comunista di riflessione sul carattere e sulla funzione della teoria e della prassi marxista. A quella settimana parteciparono Wittfogel, Sorge, Lukács, Pollack, Fogarasi che discussero sui nodi teorico di due libri Storia e coscienza di classe e Marxismo e filosofia. Alla fine della settimana Weil si orientò sulla possibilità di istituire una struttura stabile e autonoma dove continuare il dibattito e dove approfondire sostanzialmente la teoria e la prassi dei movimenti operai nella speranza di vedere sorgere, un giorno, vittoriosa una Germania consiliare. La discussione di Vacca, anche nella propensione per Korsch, mette gli orologi indietro e quel tempo – va detto - misura esattamente il ritardo del marxismo italiano.

Lascia perplessi, tranne alcune annotazioni di Petrucciani, l’assenza di un’analisi sugli sviluppi della Scuola di Francoforte e la ricezione dei marxisti italiani - il saggio di Rusconi su Habermas non colma la lacuna - , ma soprattutto manca un saggio sull’intreccio tra Adorno e Foucault in America e in Europa a partire dagli anni Settanta per arrivare al gran libro di Fredric Jameson Late Marxism (Verso, 1990) che riconosce la grande attualità sia di Adorno che della sua profezia di “sistema totale”. Perché scrive Jameson se è vero che il discorso dialettico di vecchio stampo di Adorno era in qualche modo incompatibile con gli anni Settanta, oggi [negli anni Novanta, ndr] è possibile che Adorno diventi l’analista dei nostri tempi, tempi in cui il tardo capitalismo

 “has all but succeeded in eliminating the final loopholes of nature and the Unconscious, of subversion and the aesthetic, of individual and collective praxis alike, and , with a final fillip, in eliminating any memory trace of what thereby no longer existed in the hencefoth postmodern landscape. It now seems to me possible, that Adorno’s Marxism, which was no great help in the previous periods, may turn out to be just what we need today”.

Della scuola francofortese, con in testa Marcuse, di cui si dimentica il fondamentale saggio del 1964 Ragione e Rivoluzione, si dimentica il progetto adorniano di recuperare una vita non parcellizzata insieme al rifiuto di una vita ideologicamente omogeneizzata. Per sfuggire da un lato all’alienazione borghese e dall’altro alle false totalità fasciste, naziste, staliniste. Insomma una terza via. Credo che tra i motivi di debolezza del marxismo italiano ci sia una non sufficiente riflessione sulla scuola di Francoforte facilmente liquidata da Colletti che nel frattempo invocava l’analisi del feticcio che rimane il nerbo teorico dei francofortesi che sull’austromarxismo. È vero a metà degli anni Settanta vi fu uno strano rigurgito e uscirono alcuni libri ma poi ci fu silenzio. Eppure l’austromarxismo poteva venire in soccorso dei teorizzatori dell’uso alternativo del diritto e nell’analisi dello Stato e delle istituzioni. Alla fine degli anni Settanta c’erano a disposizione gli scritti giuridici di Renner. L’orizzonte austromarxista era anch’esso una terza via non indagata neppure da Gramsci. Romano vede in Vacca e nell’école un ritorno di un buon provvidenzionalismo orizzontalista. Un socialismo senza statalismo e autoritarismo, al di là del piano e del mercato. Una chiara prospettiva orizzontalista indulgente alle richieste dei movimenti antiautoritari. E invece furono (p.459) travolti dall’orizzontalismo. Al convegno del 1973 su Pci, il Mezzogiorno e intellettuali con la reprimenda di Napolitano, con una proposta di riforma –giudica Romano- “neutra, concreta impolitica” che trionferà all’inizio degli anni Ottanta sotto l’egida simbolica della marcia dei quarantamila: il nuovo dispositivo “techno-nichilista”. Scavalcati dall’orizzontalismo (p.461) sarebbe necessaria la costruzione di un verticalismo progressivo. Suggerisce Romano, e su questo il libro si conclude. Paradossalmente il libro s’interroga sulla crisi del marxismo di quegli anni, ma in un periodo in cui Marx sembra essere tornato. Nell’aprile del 2012 questa rivista ha pubblicato un bel saggio di Oliviero Calcagno e Gianfranco Ragona che ragiona sulle ragioni di questo ritorno determinato anche dalla ripresa dell’edizione storica critica delle opere complete di Marx ed Engels. La “marxistische Renaissance” è scandita in Italia da convegni (2004, Napoli: “L’opera di Karl Marx”); giornate di studio (Bergamo 2005) e soprattutto libri: Da Marx a Marx? l’imponente storia dei marxismi in Italia di Cristina Corradi. Sino all’ultimo saggio Karl Marx (La Terza, 2010) del compianto Nicolao Merker. E qui vorrei ricordare insieme a Figurelli sia il libro sia l’uomo, da poco scomparso, come uno degli studiosi italiani più acuti di Marx e del marxismo. Penso soprattutto al suo libro sul socialismo vietato (Laterza, 1996) lucida e attenta disanima dell’austromarxismo, come variabile rimossa (dallo stalinismo e non solo a Mosca) della storia del marxismo europeo.


Note
1 M. Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna 1985, p.136
2 Ivi, p.137
3 Ivi, p.127-128.
4 P. Anderson, Modernity and Revolution, in “New Left Review”, I, 144 ( March-April 1984), pp.96-113
5 Ivi, p.112
6 Ivi, p.113
7 E. Canetti, Massa e potere, Rizzoli, Milano 1972, p.415

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