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La VI Tesi tra Gramsci e Althusser

di Vittorio Morfino

rauschenberg1. La VI tesi di Marx

Le Tesi su Feuerbach sono un testo con uno statuto assai particolare all’interno della tradizione marxista. Scritte da Marx a Bruxelles nella primavera del ’45 probabilmente per fare il punto sul proprio percorso filosofico, sono state pubblicate per la prima volta da Engels in appendice al Ludwig Feuerbach nel 1888 con una serie di modifiche che avevano lo scopo di facilitarne la lettura e la comprensione e nella versione originaria da Riazanov nel 1925-1926 nel I volume del Marx Engels Archiv. Queste tesi hanno avuto grande peso nella storia del marxismo, nella misura in cui, nella loro sinteticità, sembrano essere il gesto teorico inaugurale di una nuova teoria. Il compito che ci porremo all’interno di questo saggio sarà quello di tracciare un tratto di questa storia limitatamente all’interpretazione della VI tesi, mettendola in tensione tra la lettura di Gramsci e quella di Althusser.

Ma prendiamo in primo luogo in considerazione la VI tesi nella sua materialità linguistica e nella rete di relazioni che stabilisce con le altre tesi. Essa recita:

Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Abstraktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse.

Feuerbach, der auf die Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher gezwungen: 1. von dem geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse Gemüt für sich zu fixieren, und ein abstrakt – isoliert – menschliches Individuum vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als “Gattung”, als innere, stumme, die vielen Individuen natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden (Marx 1958: 6).

Nel pubblicare questa tesi Engels ritenne necessario proporre alcune modifiche, che non ne modificano il senso.

Sostituì «inwohnendes» con «innewohnendes»1, e riscrisse l’intero secondo punto nei termini seguenti: «2. Kann bei ihm daher das menschliche Wesen nur als “Gattung”, als innere, stumme, die vielen Individuen bloß natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden»2 (Marx 1956: 534).

L’obiettivo delle tesi nel loro complesso, al di là della presa di distanza da Feuerbach, è quello di annunciare una nuova filosofia, quella che nella X tesi è definita come «neue Materialismus» (Marx 1958: 7). La parola d’ordine di questa nuova filosofia è «praxis»: è il concetto di praxis che segna la linea di demarcazione rispetto all’«alte Materialismus» (Marx 1958: 7) sulla questione dell’oggetto (I tesi), della verità (II tesi), dell’educazione (III tesi), dell’alienazione (IV tesi), della sensibilità (V tesi), della vita sociale (VIII tesi), dell’individuo (IX) e del rapporto con il mondo (XI tesi). Tuttavia la possibilità di tracciare questa linea di demarcazione continua attraversando terreni differenti (da quello gnoseologico a quello storico-politico) risiede nell’equivocità del concetto di prassi: nella prima tesi si presenta come «wirkliche, sinnliche Tätigkeit», «sinnliche menschliche Tätigkeit», «gegenständliche Tätigkeit» e «‘revolutionäre” (…), “praktisch-kritische” Tätigkeit» (Marx 1958: 5)(; nella seconda, come aggettivo riferito alla questione della verità («praktische Frage») e in persona, come «Praxis» (Marx 1958: 5); nella terza come «menschliche Tätigkeit oder Selbstveränderung» e come «revolutionäre Praxis» (Marx 1958: p. 6); nella quarta come avverbio riferito al rivoluzionamento del fondamento mondano («praktisch revolutioniert») e alla dissoluzione della famiglia terrena («theoretisch und praktisch vernichtet» (Marx 1958: 6); nella quinta come «praktische menschlich-sinnliche Tätigkeit» (Marx 1958: 6); nell’ottava di nuovo come aggettivo riferito alla vita sociale, «wesentlich praktisch», come «menscliche Praxis» ed in persona come «Praxis» (Marx 1958: 7); nella nona come «praktische Tätigkeit» (Marx 1958: 7), infine nell’undicesima sotto le spoglie del verbo «verändern» (Marx 1958: 7). Per schematizzare, si potrebbe dire che il significato del termine praxis oscilla tra due estremi, la sinnliche Tätigkeit e la revolutionäre Tätigkeit: da una parte dunque un materialismo dell’attività sensibile (contro il vecchio materialismo certo, ma anche contro l’idealismo che contro di esso ne concepisce la «tätige Seite» solo in modo astratto) capace di mostrare come lo sdoppiamento (Verdoppelung) prodotto dall’alienazione religiosa abbia le sue origini nell’auto-contraddittorietà (Sichselbstwidersprechen) del fondamento mondano (weltliche Grundlage); dall’altro un materialismo dell’attività rivoluzionaria capace di criticare e di modificare questo fondamento stesso. Che queste due “attività” siano una sola e medesima praxis, è la scommessa marxiana che fonda la problematica teorica delle Tesi.

Nella VI tesi il termine Praxis non compare né in persona né in una delle sue metamorfosi. Le formule che tracciano la linea di demarcazione tra il neue e l’alte Materialismus sono essenzialmente due: «ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse» e «geschichtliche Verlauf». Ciò che è reale, la Wirklichkeit più volte evocata nelle Tesi (4 come sostantivo, 2 come aggettivo, 1 come avverbio), è definita precisamente da queste due formulazioni: è una realtà sociale e storica. Se dunque si astrae, come fa Feuerbach, dalle «relazioni sociali» e dal «corso storico» si finisce per prendere gli individui isolati, che appartengono «ad una determinata forma di società» (Marx 1958: 7), per dei presupposti la cui unità può essere concepita solo attraverso l’unità naturalistica della Gattung. È interessante l’uso che Marx fa del termine “astratto”: un «Abstraktum» è l’essenza umana, se concepita come un universale generico che abita il singolo individuo e «abstrakt» è lo stesso individuo isolato, e tuttavia questo «abstrakte Individuum» non è il semplice prodotto di un’operazione mentale, ma è l’effetto di un processo storico e di una determinata forma sociale, che nella tesi X Marx definisce come «bürgerliche Gesellschaft» (Marx 1958: 7). Il vecchio materialismo, dunque, non solo astrae dalle relazioni sociali e dal corso storico creando degli “enti astratti” come gli individui isolati e il genere, ma presuppone (voraussetzen) quegli individui astratti, il cui essere astratto è precisamente un prodotto sociale. Il nuovo materialismo potrà allora togliere quest’astrazione, esibendo le relazioni sociali e storiche che li costituiscono, solo come «Standpunkt» di una «menschliche Gesellschaft» o di una «gesellschaftliche Menschheit» (Marx 1958: 7).

 

2. La lettura e la funzione delle Tesi in Gramsci

L’importanza che hanno le Tesi su Feuerbach per Gramsci, che egli ha letto e tradotto nella versione engelsiana3, è difficilmente sottovalutabile. Basti pensare al fatto che la parola chiave che Gramsci sceglie per simbolizzare la filosofia marxista nei Quaderni è praxis, la parola che abbiamo visto essere la chiave di volta delle Tesi. La filosofia marxista è una filosofia della praxis e la celebre “terrestrità” che la caratterizza è una traduzione del termine Diesseitigkeit della II tesi. Ma non solo. Numerosi passaggi dei Quaderni testimoniano apertamente la centralità attribuita loro da Gramsci. Nel paragrafo 18 del quaderno 13 Gramsci individua in esse il momento in cui sorge la filosofia di Marx:

La Miseria della Filosofia è un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach, mentre la Sacra Famiglia è una fase intermedia indistinta e di origine occasionale, come appare dai brani dedicati al Proudhon e specialmente al materialismo francese4 (Gramsci 1975: 1592).

Ma già nel paragrafo 3 del quaderno 4 Gramsci aveva individuato nelle Tesi un momento chiave dello sviluppo del percorso teorico di Marx, prima hegeliano, poi feuerbachiano ed infine marxista: le Tesi sono precisamente il momento in cui «appare nettamente» la «sua nuova costruzione», la «sua nuova filosofia»5 (Gramsci 1975: 424).

Esse sono, in particolare l’XI, il luogo in cui viene formulata la teoria «dell’unità della teoria e della pratica», il che significa «che la filosofia deve diventare “politica”, “pratica”, per continuare ad essere filosofia» 6 (Gramsci 1975: 1066). Proprio su questo punto Gramsci entra in polemica con Croce secondo cui nelle Tesi su Feuerbach «Marx “non tanto capovolgeva la filosofia hegeliana, quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia; e il filosofare soppiantava con l’attività pratica”». L’XI tesi non è affatto un gesto di ripudio della filosofia, ma solo l’energica affermazione dell’unità della teoria e della pratica:

Questa interpretazione delle Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una “terrestrità assoluta” – si può ancora giustificare con la famosa proposizione che «il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca», la quale non significa già, come scrive il Croce: «erede che non continuerebbe già l’opera del predecessore, ma ne imprenderebbe un’altra, di natura diversa e contraria» ma significherebbe proprio che l’“erede” continua il predecessore, ma lo continua “praticamente” poiché ha dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività pratica è contenuta anche la “conoscenza” che solo anzi nell’attività pratica è “reale conoscenza” e non “scolasticismo”. Se ne deduce anche che (…) il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma “generalizzate” nella realtà sociale. E l’attività del filosofo “individuale” non può essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa come politica, come funzione di direzione politica (Gramsci 1975: 1271-1273).

L’XI tesi è letta insieme alla seconda, come testimoniano i termini “terrestrità” e “scolasticismo”. Del resto, a questo proposito è interessante notare che nel tradurre l’XI tesi, pur non conoscendo il testo originario marxiano, elimina l’aggiunta engelsiana («aber») che pone in contrapposizione l’“interpretare” e il “cambiare” il mondo: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di mutarlo» (Gramsci 2007: 745). Tuttavia, per Gramsci, le Tesi non sono solo un punto dove qualcosa comincia, ma anche un gesto da ripetere, a cui ispirarsi in una nuova congiuntura filosofica. Nel paragrafo 10 del quaderno 10 II, Gramsci si chiede quale debba essere «l’atteggiamento della filosofia della praxis verso l’attuale continuazione della filosofia classica tedesca rappresentata dalla moderna filosofia idealistica italiana di Croce e Gentile» e se si debba intendere «la proposizione di Engels sull’eredità della filosofia classica tedesca (…) come un circolo storico ormai chiuso, in cui l’assorbimento della parte vitale dell’hegelismo è già definitivamente compiuto, una volta per tutte, o si può intendere come un processo storico ancora in movimento, per cui si riproduce una necessità nuova di sintesi culturale filosofica». La risposta di Gramsci trova ispirazione nelle Tesi su Feuerbach:

A me pare giusta questa seconda risposta: in realtà si riproduce ancora la posizione reciprocamente unilaterale criticata nella prima tesi su Feuerbach tra materialismo e idealismo e come allora, sebbene in un momento superiore, è necessaria la sintesi in un momento di superiore sviluppo della filosofia della praxis (Gramsci 1975: 1248-1249).

E ancora le Tesi sono il luogo a cui far ritorno per prendere posizione nel campo di battaglia teorico-politico a lui contemporaneo. Per esempio, nel paragrafo 39 del quaderno 5 le Tesi sono usate per criticare un passaggio in cui Ardigò afferma «che occorre lodare Bergson per il suo volontarismo»:

Questo punto di Ardigò (contenuto negli Scritti vari raccolti e ordinati da G. Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922) deve essere messo in rapporto con le tesi su Feuerbach di Marx e dimostra appunto di quanto Marx avesse superato la posizione filosofica del materialismo volgare (Gramsci 1975: 572).

Nel paragrafo 41 del quaderno 10 II invece le Tesi sono usate per respingere la critica di Croce al materialismo storico secondo cui in esso vigerebbe ancora un dualismo teologico che equiparerebbe la struttura ad un deus absconditus:

L’accusa di dualismo teologico e di disgregazione del processo del reale è vacua e superficiale. (…) non è vero che la filosofia della praxis “stacchi” la struttura dalle superstrutture quando invece concepisce il loro sviluppo come intimamente connesso e necessariamente interrelativo e reciproco. (…) Forse che la struttura è concepita come qualcosa di immobile ed assoluto o non invece come la realtà stessa in movimento e l’affermazione delle Tesi su Feuerbach dell’educatore che deve essere educato non pone un rapporto necessario di reazione attiva dell’uomo sulla struttura, affermando l’unità del processo del reale? Il concetto di “blocco storico” costruito dal Sorel coglieva appunto in pieno questa unità sostenuta dalla filosofia della praxis7 (Gramsci 1975: 1300).

Nel quaderno 11 Gramsci usa le Tesi contro Bucharin e in particolare contro un’idea di scientificità ingenua mutuata dalle scienze naturali, una ricerca delle «cause essenziali, anzi della “causa prima”, della “causa delle cause”» che abilita previsioni: 

Ma le «Tesi su Feuerbach» – scrive – avevano già criticato anticipatamente questa concezione semplicistica. In realtà si può prevedere “scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità. Realmente si “prevede” nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato “preveduto”. La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva (Gramsci 1975: 1403-1404).

Infine nel paragrafo 26 del quaderno 16 le Tesi sono evocate contro la celebre affermazione di Bernstein secondo cui «il movimento è tutto ed il fine è nulla» che nasconderebbe sotto un’apparenza dialettica, una concezione meccanicistica in cui «le forze umane sono considerate come passive e non consapevoli, come un elemento non dissimile dalle cose materiali, e il concetto di evoluzione volgare, nel senso naturalistico, viene sostituito al concetto di svolgimento e di sviluppo»:

Ciò è tanto più interessante da notare – aggiunge Gramsci – in quanto il Bernstein ha preso le sue armi nell’arsenale del revisionismo idealistico (dimenticando le glosse su Feuerbach) che avrebbe dovuto portarlo invece a valutare l’intervento degli uomini (attivi, e quindi perseguenti certi fini immediati e mediati) come decisivo nello svolgimento storico (s’intende, nelle condizioni date). (…) Senza la prospettiva di fini concreti, non può esistere movimento del tutto (Gramsci 1975: 1898-1899).

 

3. Il “posto” della VI tesi nel marxismo di Gramsci

Nel paragrafo precedente abbiamo visto non solo come Gramsci consideri le Tesi il vero e proprio luogo sorgivo della filosofia di Marx, ma anche come le abbia utilizzate: il riferimento fondamentale è certo all’XI tesi, che pone le basi della teoria dell’unità della teoria e della pratica, ma non mancano i riferimenti alla prima tesi, che pone il marxismo oltre idealismo e materialismo volgare, alla seconda con il suo legame tra verità e «carattere terreno del (…) pensiero» (Gramsci 2007: 743), e la terza sull’educazione degli educatori. Se tuttavia vi è una tesi che segna profondamente le caratteristiche del marxismo gramsciano, questa è senz’altro la sesta. Leggiamo in primo luogo la versione italiana che ci offre Gramsci:

6. Feuerbach risolve la realtà (variante: essenza) religiosa nella realtà (variante: essenza) umana. Ma la realtà umana non è una astrazione immanente nel singolo individuo. Nella sua realtà è l’insieme dei rapporti sociali.

Feuerbach, che non accetta la critica di questa natura reale, è perciò costretto:

a) a fare astrazione del corso della storia, a stabilire un sentimento religioso per sé, a presupporre un individuo umano astratto e isolato;

b) in lui perciò la natura umana può essere concepita solo come concetto generico (variante: specie), come generalità interna, muta, che unisce solo naturalmente la molteplicità degli individui (Gramsci 2007: 743).

Quello che si può notare da un punto di vista strettamente linguistico è la scelta di tradurre il termine tedesco «Wesen» con «realtà», nelle prime tre occorrenze, cosa che conduce poi Gramsci a tradurre «wirkliche Wesen» con «natura reale» (per non incorrere nell’espressione «realtà reale»), traducendo poi di conseguenza l’espressione «menschliche Wesen» con «natura umana». Il francesismo «ensemble» è tradotto con un calco nell’italiano «insieme», ma è interessante rilevare che nei Quaderni Gramsci riproduca l’espressione usando i termini «complesso» e «sistema»8; «Verhältnis» è tradotto con «rapporto» e «Gattung» con «concetto generico». Non sembra ben tradotto il «Fuerbach nicht eingeht…» con «Feuerbach (…) non accetta…», ma il senso generale non è compromesso.

Ma al di là delle questioni puramente linguistiche, ciò che Gramsci trae da questa tesi da un punto di vista strettamente teorico, facendone il centro gravitazionale della sua stessa filosofia, è la relazionalità e la storicità della natura umana.

Nel paragrafo 8 del quaderno 4 fissa il contenuto del novum marxiano proprio nel rifiuto di un concetto “astorico” di natura umana:

La innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli è la dimostrazione che non esiste una “natura umana” fissa e immutabile e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (…) come un organismo storicamente in sviluppo (Gramsci 1975: 430-431).

Nella seconda stesura di questo passaggio appare in piena luce la centralità della VI tesi rispetto alla novità introdotta da Marx:

La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia della praxis nella scienza della politica e della storia è la dimostrazione che non esiste una astratta “natura umana” fissa e immutabile (concetto che deriva certo dal pensiero religioso e dalla trascendenza) ma che la natura umana è l’insieme dei rapporti sociali storicamente determinati, cioè un fatto storico accertabile, entro certi limiti, coi metodi della filologia e della critica (Gramsci 1975: 1598-1599).

La natura umana è «l’insieme dei rapporti sociali storicamente determinati». Sull’elemento di trascendenza implicito in una concezione della natura umana «fissa e immutabile», Gramsci insiste nel paragrafo 35 del quaderno 7, commentando una celebre formula feuerbachiana:

D’altronde è anche vero che «l’uomo è quello che mangia», in quanto l’alimentazione è una delle espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione, ma allo stesso modo si può dire che l’«uomo è il suo appartamento», l’«uomo è il suo particolare modo di riprodursi cioè la sua famiglia», poiché l’alimentazione, l’abbigliamento, la casa, la riproduzione sono elementi della vita sociale in cui appunto in modo più evidente e più diffuso (cioè con estensione di massa) si manifesta il complesso dei rapporti sociali (Gramsci 1975: 884).

Nella misura in cui non è letta in modo “gretto” e “stolto”, l’espressione contiene dunque una sua verità, e tuttavia è la domanda stessa «che cos’è l’uomo?» che è messa in questione da Gramsci:

Il problema di cos’è l’uomo è dunque sempre il così detto problema della «natura umana», o anche quello del così detto “uomo in generale”, cioè la ricerca di creare una scienza dell’uomo (una filosofia) che parte da un concetto inizialmente “unitario”, da un’astrazione in cui si possa contenere tutto l’“umano”. Ma l’“umano” è un punto di partenza o un punto di arrivo, come concetto e fatto unitario? o non è piuttosto, questa ricerca, un residuo “teologico” e “metafisico” in quanto posto come punto di partenza? La filosofia non può essere ridotta ad una naturalistica “antropologia”, cioè l’unità del genere umano non è data dalla natura “biologica” dell’uomo; le differenze dell’uomo che contano nella storia non sono quelle biologiche (razze, conformazione del cranio, colore della pelle ecc.; e a ciò si riduce poi l’affermazione «l’uomo è ciò che mangia» – mangia grano in Europa, riso in Asia ecc. – che si ridurrebbe poi all’altra affermazione: «l’uomo è il paese dove abita», poiché la gran parte degli alimenti, in generale, è legata alla terra abitata) e neppure l’“unità biologica” ha mai contato gran che nella storia (Gramsci 1975: 884-885).

Tutto il passaggio è ispirato alla critica marxiana di Feuerbach della VI, alla critica di una Gattung intesa in senso naturalistico, nel cui apparente materialismo si cela in realtà un residuo teologico-metafisico. La risposta alla domanda sulla natura umana si trova in realtà nella VI tesi:

Che la «natura umana» sia il «complesso dei rapporti sociali» è la risposta più soddisfacente, perché include l’idea del divenire: l’uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali, e perché nega l’“uomo in generale”: infatti i rapporti sociali sono espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui unità è dialettica, non formale (Gramsci 1975: 885).

Nel paragrafo 12 del quaderno 16 troviamo una riflessione sulla questione del «Naturale, contro natura, artificiale, ecc.» al cui centro sta la questione della natura umana. Come stabilire il confine tra un «atteggiamento o costume» naturale e contro natura, posto che non è possibile fare appello alla «‘natura” come (ad) alcunché di fisso, immutabile e oggettivo». Il riferimento a comportamenti animali è secondo Gramsci fuorviante, in primo luogo perché spesso «le osservazioni sono fatte su animali addomesticati dall’uomo per il suo utile e costretti a una forma di vita che per gli animali stessi non è “naturale” ma è conforme ai fini dell’uomo», in secondo luogo, anche ammesso che certi atti si verifichino tra gli animali, non si potrebbe derivarne una norma di condotta precisamente perché “il naturale” è storicamente determinato:

La “natura” dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita; questa coscienza solo può indicare ciò che è “naturale” o “contro natura”. Inoltre: l’insieme dei rapporti sociali è contraddittorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento, sicché la “natura” dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi. Si sente dire spesso che una certa abitudine è diventata una “seconda natura”; ma la “prima natura” sarà stata proprio la “prima’? In questo modo di esprimersi del senso comune non è implicito l’accenno alla storicità della “natura umana”? Constatato che, essendo contraddittorio l’insieme dei rapporti sociali, non può non essere contraddittoria la coscienza degli uomini, si pone il problema del come si manifesta tale contraddizione e del come possa essere progressivamente ottenuta l’unificazione: si manifesta nell’intero corpo sociale, con l’esistenza di coscienze storiche di gruppo (con l’esistenza di stratificazioni corrispondenti a diverse fasi dello sviluppo storico della civiltà e con antitesi nei gruppi che corrispondono a uno stesso livello storico) e si manifesta negli individui singoli come riflesso di una tale disgregazione “verticale e orizzontale’ (Gramsci 1975: 1874-1875; cfr. seconda stesura di Q7, 153).

Nell’uso che ne fa Gramsci, la VI tesi sulla relazionalità e storicità del concetto di “natura umana” è letta insieme alla IV e in particolare all’affermazione della contraddittorietà della «weltliche Grundlage» («l’intima contraddizione della base mondana» (Gramsci 2007: 743), secondo la traduzione che ne fornisce Gramsci), ma anche alla «Prefazione del ’59» secondo cui questa contraddizione si manifesta nella coscienza attraverso forme ideologiche (nella traduzione proposta da Gramsci, «le forme ideologiche, nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli di questo conflitto e lo risolvono»)9 (Gramsci 2007: 746).

La contraddittorietà dell’insieme dei rapporti sociali, da cui deriva la contraddittorietà della coscienza degli uomini, potrà essere superata solo in un genere umano unificato a venire10, come Gramsci dice in un celebre passaggio del quaderno 11:

Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi. La questione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomo-massa di cui si fa parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente. Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi anche criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni consolidate nella filosofia popolare. L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventari (Gramsci 1975: 1376).

In un altro passaggio, il paragrafo 54 del quaderno 10 II, Gramsci sviluppa un altro aspetto della VI tesi, la critica dell’individuo isolato, concezione che Gramsci attribuisce al “cattolicesimo”, ma che in realtà è stata riprodotta da «tutte le filosofie finora esistite». È necessario allora «riformare il concetto di uomo»:

(…) occorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 2° e il 3° elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo che modifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte (Gramsci 1975: 1345).

Dallo sviluppo della critica marxiana della VI tesi all’individuo isolato, Gramsci trae una teoria dell’individualità come “centro di annodamento” di rapporti. A partire da queste basi, propone una teoria della “personalità”:

Se la propria individualità è l’insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti. (Gramsci 1975: 1345)

Tuttavia non è sufficiente secondo Gramsci conoscere l’insieme dei rapporti in un dato momento storico «come un dato sistema»,

importa conoscerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato (Gramsci 1975: 346).

Infine Gramsci sviluppa la questione delle possibilità per il singolo di cambiare realmente questi rapporti rispetto alle sue forze:

Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile. Società alle quali un singolo può partecipare: sono molto numerose, più di quanto può sembrare. È attraverso queste “società” che il singolo fa parte del genere umano. Così sono molteplici i modi con cui il singolo entra in rapporto colla natura, poiché per tecnica, deve intendersi non solo quell’insieme di nozioni scientifiche applicate industrialmente che di solito s’intende, ma anche gli strumenti “mentali”, la conoscenza filosofica. Che l’uomo non possa concepirsi altro che vivente in società è luogo comune, tuttavia non se ne traggono tutte le conseguenze necessarie anche individuali: che una determinata società umana presupponga una determinata società delle cose e che la società umana sia possibile solo in quanto esiste una determinata società delle cose è anche luogo comune. È vero che finora a questi organismi oltre individuali è stato dato un significato meccanicistico e deterministico (sia la societas hominum che la societas rerum): quindi la reazione. Bisogna elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose, di cui non può non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo è filosofo, ogni uomo è scienziato ecc.) (Gramsci 1975: 346).

La questione del resto era stata anticipata pochi paragrafi prima in un commento a un articolo di Aldo Capasso sulla questione del progresso e del divenire, che fornisce l’occasione a Gramsci di una riflessione sul nesso natura umana-progresso:

La questione è sempre la stessa: cos’è l’uomo? cos’è la natura umana? Se si definisce l’uomo comeindividuo, psicologicamente e speculativamente, questi problemi del progresso e del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si concepisce l’uomo come l’insieme dei rapporti sociali, intanto appare che ogni paragone tra uomini nel tempo è impossibile, perché si tratta di cose diverse, se non eterogenee. D’altronde, poiché l’uomo è anche l’insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si può misurare la misura in cui l’uomo domina la natura e il caso. La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire “libertà”. La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre “conoscerle” e sapersene servire. Volersene servire. L’uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo determinato e concreto (“razionale”) al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa. L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il “miglioramento” etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è “individuale”, ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente “politico”, poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua “umanità”, la sua “natura umana’ (Gramsci 1975: 1337-1338).

Tuttavia, la VI tesi si rivela uno strumento fondamentale per Gramsci, non solo nell’elaborazione della propria teoria, ma anche nel tracciare precise linee di demarcazione nel dibattito teorico a lui contemporaneo: lo storicismo crociano da una parte, il sociologismo buchariniano e l’economicismo dall’altra, letti attraverso le lenti dell’antitesi della I tesi tra idealismo e materialismo.

Nel paragrafo 8 del Quaderno 10 I Gramsci prende posizione contro l’immanentismo crociano e la critica rivolta al marxismo proprio in virtù di questa preoccupazione anti-teologica e anti-metafisica, secondo cui la «filosofia della praxis sarebbe teologizzante e il concetto di “struttura” non sarebbe che la ripresentazione ingenua del concetto di un “dio ascoso”». Gramsci la respinge affermando che è proprio il carattere speculativo della filosofia crociana che «lo accieca e lo devia» nella comprensione della filosofia della praxis: essa deriva certo «dalla concezione immanentistica, ma da essa in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità o a puro umanesimo». E qui entra in gioco in modo rilevante la VI tesi:

Se il concetto di struttura viene concepito “speculativamente”, certo esso diventa un “dio ascoso”; ma appunto esso non deve essere concepito speculativamente, ma storicamente, come l’insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini reali si muovono e operano, come un insieme di condizioni oggettive che possono e debbono essere studiate coi metodi della “filologia” e non della “speculazione”. Come un “certo” che sarà anche “vero”, ma che deve essere studiato prima di tutto nella sua “certezza” per essere studiato come “verità’ (Gramsci 1975: 1225).

E per tracciare in modo ancor più netto la linea di demarcazione, Gramsci congiunge la VI tesi, il concetto di insieme di rapporti sociali, con la IV tesi e l’VIII tesi che riconducono il «dominio indipendente nelle nuvole» e «tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo» alla «base mondana» e alla «vita sociale (che) è essenzialmente pratica» (Gramsci 2007: 744-745):

Non solo la filosofia della praxis è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come “soggettività storica di un gruppo sociale”, come fatto reale, che si presenta come fenomeno di “speculazione” filosofica ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi una unità morale. L’affermazione che si tratti di “apparenza”, non ha nessun significato trascendente e metafisico, ma è la semplice affermazione della sua “storicità”, del suo essere “morte-vita”, del suo rendersi caduca perché una nuova coscienza sociale e morale si sta sviluppando, più comprensiva, superiore, che si pone come sola “vita”, come sola “realtà” in confronto del passato morto e duro a morire nello stesso tempo. La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa11 (Gramsci 1975: 1225-1226).

Nel paragrafo 10 del quaderno 13 troviamo concetti molto simili. Riproponendo la critica «della posizione del Croce per cui, ai fini della polemica, la struttura diventa un “dio ascoso”, un “noumeno” in contrapposizione alle “apparenze” della superstruttura», pone il concetto di «sistema dei rapporti sociali» al centro di una definizione non metafisica della struttura:

In che senso si può identificare la politica e la storia e quindi tutta la vita e la politica. Come perciò tutto il sistema delle superstrutture possa concepirsi come distinzioni della politica e quindi si giustifichi l’introduzione del concetto di distinzione in una filosofia della prassi. Ma si può parlare di dialettica dei distinti e come si può intendere il concetto di circolo fra i gradi della superstruttura? Concetto di “blocco storico”, cioè unità tra la natura e lo spirito (struttura e superstruttura) unità dei contrari e dei distinti. Il criterio di distinzione si può introdurre anche nella struttura? Come sarà da intendere la struttura: come nel sistema dei rapporti sociali si potrà distinguere l’elemento «tecnica», «lavoro», «classe» ecc. intesi storicamente e non «metafisicamente» (Gramsci 1975: 1569).

Del resto già nel paragrafo 182 del quaderno 8 Gramsci definisce il concetto di «blocco storico» leggendo la VI tesi attraverso i concetti della «Prefazione del ’59», e questi infine nella prospettiva del «rovesciamento della prassi»12 (Gramsci 2007: 744), espressione con cui Gramsci traduce la «umwälzende Praxis» della III tesi, modificazione della «revolutionäre Praxis» (Marx 1958: 6) della versione originaria marxiana:

Struttura e superstrutture. La struttura e le superstrutture formano un “blocco storico”, cioè l’insieme complesso e discorde delle soprastrutture sono il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne trae: che solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della praxis. (Gramsci 1975: 1051-1052).

Il concetto di «insieme dei rapporti sociali» è precisamente lo strumento teorico che permette a Gramsci di respingere la critica crociana al materialismo storico: proprio perché la coppia struttura-sovrastruttura non è in alcun modo riducibile alla coppia noumeno-fenomeno, ma deve essere pensata come complesso sistema di rapporti.

In questo senso è rilevante anche la presa di distanza da ogni riduzione tecnologistica della struttura economica sulla base dello stesso concetto, concezione la cui origine Gramsci individua in Loria:

Dal saggio di B. Croce su Achille Loria (Materialismo storico ed economia marxistica) sembra che appunto il Loria sia stato il primo a sostituire arbitrariamente (o per vanità puerile di scoperte originali) l’espressione di «strumento tecnico» a quella di «forze materiali di produzione» e di «complesso dei rapporti sociali» (Gramsci 1975: 1439).

Gramsci rileva come nel tradurre un passaggio chiave della «Prefazione del ’59» Loria riduca «i rapporti di produzione, i quali corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di produzione» con «un dato stadio dello stromento produttivo corrisponde, e sovr’esso si erige, un dato sistema di produzione»13 (Gramsci 1975: 1439-1440). Di questa concezione riduzionista Gramsci riporta la critica di Croce:

Il Croce aggiunge che nella Critica dell’Economia Politica (vol. I, p. 143 n. e 335-6 n.) e altrove è messa in rilievo l’importanza delle invenzioni tecniche ed è invocata una storia della tecnica, ma non esiste nessuno scritto in cui lo «stromento tecnico» sia fatto diventare la causa unica e suprema dello svolgimento economico. Il brano della 〈prefazione a〉 Zur Kritik contiene le espressioni «grado di sviluppo delle materiali forze di produzione», «modo di produzione della vita materiale», «condizioni economiche della produzione» e simili, le quali affermano bensì che lo svolgimento economico è determinato da condizioni materiali, ma non riducono queste mai alla sola «metamorfosi dello strumento tecnico». Il Croce aggiunge poi che il fondatore della filosofia della praxis non si è mai proposto questa indagine intorno alla causa ultima della vita economica. «La sua filosofia non era così a buon mercato. Non aveva “civettato” invano con la dialettica dello Hegel, per andar poi a cercare le cause ultime»14 (Gramsci 1975: 1440-1441).

Lo strumento tecnico non può essere concepito come causa ultima, come fondamento dei rapporti sociali, ma è un elemento del complesso dei rapporti sociali di produzione e del sistema dei rapporti sociali. Questa stessa concezione è secondo Gramsci presente in Bukharin in modo «addirittura più criticabile e superficiale» (Gramsci 1975: 1441).
Nel paragrafo 10 del Quaderno 15 troviamo una precisa critica del sociologismo di Bucharin, proposta precisamente sulla base del rifiuto di una lettura “oggettivante” dell’espressione «insieme dei rapporti sociali»:

Se è vero che l’uomo non può essere concepito se non come uomo storicamente determinato, cioè che si è sviluppato e vive in certe condizioni, in un determinato complesso sociale o insieme di rapporti sociali, si può concepire la sociologia come studio solo di queste condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo? Poiché non si può prescindere dalla volontà e dall’iniziativa degli uomini stessi, questo concetto non può non essere falso. Il problema di che cosa è la “scienza” stessa è da porre. La scienza non è essa stessa “attività politica” e pensiero politico, in quanto trasforma gli uomini, li rende diversi da quelli che erano prima? Se tutto è “politico” occorre, per non cadere in un frasario tautologico e noioso distinguere con concetti nuovi la politica che corrisponde a quella scienza che tradizionalmente si chiama “filosofia”, dalla politica che si chiama scienza politica in senso stretto. Se la scienza è “scoperta” di realtà ignorata prima, questa realtà non viene concepita come trascendente in un certo senso? E non si pensa che esiste ancora qualcosa di “ignoto” e quindi di trascendente? E il concetto di scienza come “creazione” non significa poi come “politica’? Tutto sta nel vedere se si tratta di creazione “arbitraria” o razionale, cioè “utile” agli uomini per allargare il loro concetto della vita, per rendere superiore (sviluppare) la vita stessa (Gramsci 1975: 1765-1766).

La VI tesi è letta qui congiuntamente alla II, Bucharin è accusato di porre la questione della conoscenza dell’«insieme dei rapporti sociali» isolandola dalla praxis e dunque facendone una «quistione puramente scolastica» (Gramsci 2007: 743).

Questa duplice linea di demarcazione tracciata da un lato rispetto alla filosofia speculativa e dall’altra rispetto ad un materialismo riduzionista conduce Gramsci a proporre una propria originale lettura dell’espressione «insieme dei rapporti sociali» nella prospettiva dell’analisi di rapporti di forza. Nel paragrafo 17 del quaderno 13 Gramsci scrive:

La quistione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia perché una situazione di benessere è minacciata dal gretto egoismo di un gruppo avversario, come perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo e di ristabilire una normalità con mezzi legali. Si può dire pertanto che tutti questi elementi sono la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura dell’insieme dei rapporti sociali di forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se manca questo processo di sviluppo da un momento all’altro, ed esso è essenzialmente un processo che ha per attori gli uomini e la volontà e capacità degli uomini, la situazione rimane inoperosa, e possono darsi conclusioni contradditorie: la vecchia società resiste e si assicura un periodo di “respiro”, sterminando fisicamente l’élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l’instaurazione della pace dei cimiteri, magari sotto la vigilanza di una sentinella straniera. Ma l’osservazione più importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini ecc. L’elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza (Gramsci 1975: 1587-1588).

Siamo nel quaderno 13, il quaderno dedicato a Machiavelli e al moderno principe. L’espressione «insieme dei rapporti sociali» è letta attraverso la questione machiavelliana della fortuna, della virtù e dell’occasione e dei rapporti di forza. Da ciò nasce la straordinaria espressione: «fluttuazioni di congiuntura dell’insieme dei rapporti sociali di forza». È a partire da qui che Gramsci può elaborare un teoria dei rapporti di forza economici, politici e militari (e della loro relazione), vera e propria rielaborazione originale del materialismo storico, che gli permette di costruire una teoria della storia al di là della filosofia della storia della «Prefazione del ’59». L’«insieme dei rapporti sociali» non è abitato da alcuna essenza, nemmeno se pensata come telos che emerge da una contraddizione fondamentale: non è un caso allora che tutti i concetti originali di Gramsci15, il suo reale apporto al marxismo, nascano da questa lettura in termini congiunturali dell’«ensemble der gesellschaftliche Verhältnisse» della VI tesi su Feuerbach16.

 

4. Althusser e le Tesi su Feuerbach

Se Gramsci ha individuato nelle Tesi su Feuerbach uno dei luoghi chiave, insieme alla «Prefazione del ’59, in cui è espressa la filosofia di Marx, in Althusser esse hanno piuttosto il valore di una soglia, di un annuncio che tuttavia resta enigmatico.

Nella «Prefazione» al Pour Marx, descrivendo l’esperienza teorico-politica del dopoguerra come una «ricerca del pensiero filosofico di Marx» (Althusser 1962: 11) generata dalla percezione della precarietà del suo statuto, evoca le Tesi su Feuerbach come una fonte di una delle soluzioni illusorie date al problema dell’esistenza della filosofia marxista, «pensare (cioè) la filosofia stessa come impossibile»:

Conoscemmo allora – scrive Althusser – la grande e sottile tentazione della “fine della filosofia” a cui ci conducevano alcuni testi enigmaticamente chiari della Giovinezza (1840-1845), e della coupure (1845) di Marx. I più militanti e i più generosi vedevano nella “fine della filosofia” la sua “realizzazione”, e celebravano la morte della filosofia nell’azione, nella realizzazione politica e nel suo compimento proletario, mettendo senza riserve al loro servizio la famosa tesi su Feuerbach in cui un linguaggio teoricamente equivoco oppone la trasformazione del mondo alla sua spiegazione (explication). Da qui al pragmatismo teorico, non vi era, non vi è ancor oggi, che un passo (Althusser 1962: 18-19).

Per dissipare questa soluzione illusoria, come altre, e fornire una risposta alla questione circa la filosofia di Marx, Althusser propone come è noto una periodizzazione dell’opera di Marx e in primo luogo una precisa ricostruzione storiografica del cammino intrapreso da Marx in quelle che Althusser chiama Œuvres de la Jeunesse, di questi testi «apertamente filosofici» in cui si era creduto, «più o meno spontaneamente, di leggere la filosofia di Marx in persona» (Althusser 1962: 23). La ricostruzione di questo cammino era tutta tesa a individuare la differenza specifica della filosofia di Marx e per far questo era necessario rispondere alla questione fondamentale circa l’esistenza o meno, «nello sviluppo intellettuale di Marx, di una coupure epistemologica che segnava il sorgere (marquant le surgissement) di una nuova concezione della filosofia» (Althusser 1962: 24) . Lo studio dei testi del giovane Marx aveva dunque un’importanza al tempo stesso teorica e storica decisiva nell’individuazione dell’esistenza della coupure e del suo luogo storicamente determinato.

Com’è ampiamente noto Althusser fornisce nel suo testo le coordinate precise della coupure, che concerne al tempo stesso la fondazione di una teoria della storia e di una nuova filosofia: l’anno, il 1845; il luogo, l’Ideologia tedesca. Il 1845, dunque, è l’anno della coupure, l’anno in cui Marx scrive le Tesi. Qual è il loro statuto? Questa la risposta di Althusser:

Le Tesi su Feuerbach, che non sono altro che qualche frase, marcano il bordo anteriore estremo di questa coupure, il punto in cui nella vecchia coscienza e nel vecchio linguaggio, dunque con formule e con concetti necessariamente disequilibrati e equivoci, si apre già un varco (perce) la nuova coscienza filosofica17 (Althusser 1962: 25).

Le Tesi costituiscono dunque le «bord antérieur extrême» della coupure. E ancora, qualche pagina oltre, dopo aver fornito i termini della celebre periodizzazione (jeunesse, coupure, maturation, maturité), ritorna sulle Tesi:

I brevi lampi delle Tesi su Feuerbach illuminano (frappent de lumière) tutti i filosofi che vi si avvicinano, ma si sa che un lampo acceca più di quanto illumini, e che nulla è più difficile da situare nello spazio della notte che uno scoppio (éclat) di luce che la rompe (Althusser 1962: 29).

E aggiunge immediatamente:

Bisognerà pure una volta o l’altra rendere visibile ciò che è enigmatico in queste undici Tesi falsamente trasparenti (Althusser 1962: 29).

Althusser non manterrà la promessa contenuta in queste righe nelle pagine che seguono del Pour Marx, se non, come vedremo nel prossimo paragrafo, per quanto concerne la VI tesi. Troviamo invece alcune pagine di commento alle Tesi in due testi molto distanti tra loro sia cronologicamente sia stilisticamente, La querelle de l’humanisme del 1967 e Sur la philosophie marxiste del 1982.

Nel primo testo, riprendendo la questione della scansione dell’opera di Marx, Althusser individua nelle Tesi su Feuerbach, «alcune frasi scritte in fretta, ma molto ponderate» (Althusser 1995: 470), la rottura con l’umanesimo teorico:

Feuerbach è messo direttamente in causa, in persona, e sotto due rapporti che (si tratta di un fenomeno nuovo) sono per la prima volta nettamente distinti: sotto il rapporto della concezione dell’Uomo e sotto il rapporto delle sue categorie filosofiche di base (Althusser 1995: 470).

La prima questione è affrontata da Althusser attraverso un commentario della VI tesi, che lasciamo per il momento da un canto per ritornarvi nel paragrafo finale. La seconda questione, la critica delle categorie filosofiche dell’umanesimo, si riassume secondo Althusser nella «messa in questione delle categorie filosofiche fondamentali» che definiscono il campo dell’umanesimo teorico «come campo della relazione speculare Soggetto-Oggetto» (Althusser 1995: 473). Le tesi I, II, V, VIII, IX propongono precisamente una messa in causa della coppia categoriale Soggetto-Oggetto, la quale perde la sua orginarietà: «più profondamente (di questa coppia) le Tesi fanno intervenire la categoria di praxis storica» (Althusser 1995: 473). Si tratta, secondo Althusser, di una trasformazione rilevante dal punto di vista filosofico:

Essa significa in effetti che Marx trae determinate conseguenze dalla sua rottura (rupture) con l’Umanesimo teorico di Feuerbach, per quanto riguarda le categorie tipiche costitutive del campo della relazione speculare, e anche per ciò che concerne l’operazione tentata nei Manoscritti: Hegel in Feuerbach. In effetti, oltrepassare la coppia feuerbachiana Soggetto = Oggetto, è far agire la dialettica hegeliana sui concetti feuerbachiani di Soggetto e Oggetto stessi. La praxis storica è il concetto di un compromesse teorico, in cui questa volta, il rapporto anteriore è modificato: la praxis storica è ciò che resta di Feuerbach in un certo Hegel, è precisamente la trasformazione del Soggetto in praxis, è la storicizzazione di questo soggetto come soggetto (Althusser 1995: 473-474).

Nel testo del 1982 Althusser radicalizzerà questa lettura contrapponendo a un Marx filosofo della storia un Engels della fatticità della storia, l’Engels della «Situazione della classe operaia in Inghilterra, che si concludeva con la sconfitta del cartismo e in cui la storia universale andava in tutt’altro modo che negli schemi del Manifesto»:

Tutto lì dipendeva dalle condizioni di vita (Lebensbedingungen) e di lavoro (Arbeitsbedingungen) in cui si trovavano gli sfruttati, tutto lì risaliva al grande spossessamento (dépossession) dell’accumulazione originaria che aveva gettato questi uomini con la casa bruciata nelle strade e nelle braccia dei possessori locali dei mezzi di produzione. Non si fa questione di concetto, contraddizione, di negazione e negatività, di primato delle classi sulla lotta, di primato del negativo sul positivo. Ma una situazione di fatto, risultato di tutto un processo storico imprevisto ma necessario che aveva prodotto questa situazione di fatto: sfruttati nelle mani di sfruttatori (Althusser 1993: 18).

Il testo di Engels tuttavia fu dimenticato e la filosofia marxista si costituì invece come una filosofia della storia in cui il lavoro del negativo sfociava nella Rivoluzione finale. Althusser legge le Tesi su Feuerbach in questa prospettiva:

La “perla” più bella di questo malinteso resta e resterà per sempre la minuta (poiché tale è) delle Tesi su Feuerbach in cui tutti i malintesi sono raccolti nell’unità di 11 tesi sobrie ma perentorie e affrettate. Queste tesi, messe su carta da Marx con matita incalzata dall’urgenza, Engels doveva pubblicarle più tardi, in annesso all’Anti-Dühring (sic), qualificandole, oltre ogni decenza, come «il germe della nostra concezione del mondo», insomma come la promessa d’una rivoluzione in filosofia, garante di ogni rivoluzione possibile, inclusa quella politica (Althusser 1993: 19-20).

La rottura con Feuerbach è poi consumata «assai più nel nome di Fichte o di un amalgama tra Feuerbach e Fichte» (Althusser 1993: 20), mentre «rispetto a Hegel, esse sono piuttosto – e di gran lunga – un arretramento, un passo indietro rispetto alla critica a Fichte fatta da Hegel stesso» (Althusser 1992: 20). Il nucleo teorico fondamentale delle tesi è costituito secondo Althusser da un’«apologia della praxis identificata con la produzione soggettiva d’un Soggetto che non porta il suo nome (a meno che non sia il Soggetto di Feuerbach, l’umanità (…))», una praxis intesa come «soggettività umana» (Althusser 1993: 20).

Se la I tesi è un «omaggio reso solennemente alla filosofia di Fichte», la IV vede «intervento di temi feuerbachiani», in particolare quelli della «base terrestre, materiale» della famiglia celeste, e malgrado un «ritorno in forza di Fichte» nella V tesi, è l’ermeneutica di Feurebach che finisce per trionfare, per esempio nella VIII tesi, che Althusser definisce di un «idéalisme fabuleux»:

Il mondo diventa così un compendio completo e pieno di misteri che nascondono in sé o molto vicini a sé i loro segreti. Poiché contiene tutto il suo senso in sé e nell’uomo che ne è l’essenza, è sufficiente, grazie ad un buona ermeneutica, decifrarli per spiegarlo (Althusser 1993: 21).

L’XI tesi (che Althusser traduce dalla versione di Engels18) allora risulta un espediente «pour se tirer de ce pas dangereux» attraverso un «coup de clairon»:

È bello, ma non vuol dir niente. Che cosa ci si guadagna da questa frase singolare se non un po’ di confusione in più, poiché chi possono essere questi filosofi? (Tutti hanno voluto agire sul mondo, per farlo avanzare, come per farlo regredire o per mantenerlo nello status quo: a quali filosofi spetterà la missione storica «di trasformare il mondo»? Si noterà che Marx non fa carico ai filosofi di questo compito sovrumano ma a un enigmatico “si deve” che non è che un appello all’adunata, ma di chi? Mistero. Poiché nulla è detto delle classi sociali in questo testo stupefacente, è necessario pensare che tutto accade nella testa dei filosofi, o di chi? Di coloro che ripetono e di coloro che spiegano, piccola e trascurabile differenza (Althusser 1993: 21-22).

Il tono di questi passi è innegabilmente liquidatorio. Laddove l’Althusser del Pour Marx e della Querelle de l’humanisme vedeva nelle Tesi la tensione, lo sforzo di dire in un linguaggio vecchio dei concetti nuovi, in questo testo dell’82 le Tesi vengono considerate come un amalgama di soggettivismo fichtiano e materialismo feuerbachiano, materialismo illusorio perché incapace di rompere l’ermeneutica del celeste sulla base del terrestre, di pensare cioè in modo differente la Diesseitigkeit. Proprio esse sono alla base di un profondo malinteso sulla filosofia marxista nella misura in cui sono state considerate, «senza alcuna critica storico-filosofica, come dei testi da prendere alla lettera, alla loro lettera» (Althusser 1993: 22).

 

5. Althusser e la VI tesi 

In questo testo del 1982 non troviamo alcun riferimento alla VI tesi. Di contro essa è al centro della «Note complémentaire sur l’“humanisme réel”», i cui temi sono anticipati da un breve passaggio di «Marxisme et humanisme» di cui è difficile sottovalutare l’importanza. Il 1845 è l’anno della coupure e a partire dal 1845 «Marx rompe con ogni teoria che fonda la storia e la politica su un’essenza dell’uomo» (Althusser 1962: p. 223). Questo gesto ha delle conseguenze teoriche indissociabili fra loro: 1) la formazione di una teoria della storia fondata su concetti nuovi; 2) la critica delle pretese teoriche di ogni umanesimo filosofico; 3) la definizione dell’umanesimo come ideologia. Scrive Althusser:

In questa nuova concezione tutto si tiene (…) con rigore, ma si tratta di un nuovo rigore: l’essenza dell’uomo criticata (2) è definita come ideologia (3), categoria che appartiene alla nuova teoria della società (1). La rottura (rupture) con ogni antropologia o ogni umanesimo filosofici non è un dettaglio secondario: è tutt’uno con la scoperta scientifica di Marx. Significa che con un solo e medesimo atto Marx respinge la problematica della filosofia anteriore e adotta una problematica nuova. La filosofia anteriore idealista («borghese») riposava, in tutti i suoi campi e sviluppi («teoria della conoscenza», concezione della storia, economia politica, morale, estetica etc.) su una problematica della natura umana (o dell’essenza dell’uomo). (…) Questa problematica non era né vaga né debole (lâche). Era al contrario costituita da un sistema di concetti precisi, strettamente articolati gli uni agli altri (Althusser 1962: 223).

Questa problematica della natura umana implica i due postulati che Marx definisce nella VI tesi: «1. che esiste un’essenza universale dell’uomo; 2. Che questa essenza è l’attributo di “individui presi isolatamente” che ne sono i soggetti reali» (Althusser 1962: 223). Marx nella VI tesi ha di mira Feuerbach, ma in realtà Althusser ritiene che questi due postulati, complementari e indissociabili, presuppongano «toute une conception empiriste-idéaliste du monde» (Althusser 1962: 223):

Perché l’essenza dell’uomo sia attributo universale, è necessario in effetti che esistano dei soggetti concreti, come dei dati assoluti: il che implica un empirismo del soggetto. Perché questi individui empirici siano uomini è necessario che ciascuno porti in sé tutta l’essenza umana, se non di fatto, almeno di diritto: il che implica un idealismo dell’essenza. L’empirismo del soggetto implica l’idealismo dell’essenza e viceversa. Questo rovesciamento rispetta la struttura fondamentale di questa problematica, che rimane fissa. Si può riconoscere in questa struttura-tipo non solamente i principi delle teorie della società (da Hobbes a Rousseau), dell’economia politica (da Petty a Ricardo), della morale (da Descartes a Kant), ma anche i principi stessi della “teoria” idealista e materialista (premarxista) “della conoscenza” (da Locke a Feuerbach, passando per Kant). Il contenuto dell’essenza umana o dei soggetti empirici può variare (come si vede da Descartes a Feuerbach); il soggetto può passare dall’empirismo all’idealismo (come si vede da Locke a Kant): i termini in presenza e il loro rapporto variano solo all’interno di una struttura tipo invariante, che costituisce questa problematica: a un idealismo dell’essenza risponde sempre un empirismo del soggetto (o a un idealismo del soggetto, un empirismo dell’essenza) (Althusser 1962: 234-235).

I due postulati che Marx, nella VI tesi, ha di mira nella sua critica a Feuerbach definiscono in realtà la problematica della filosofia moderna, che seguendo il Marx della X tesi Althusser definisce “borghese”19. La critica di questi due postulati implica dunque non solo il rifiuto del modello fauerbachiano, ma la detronizzazione delle categorie di soggetto, empirismo, essenza ideale, da tutti i campi in cui esse regnavano: dall’economia politica, alla storia, alla morale, sino alla filosofia stessa. Nella VI tesi tuttavia sono solo annunciati i concetti di quella rivoluzione teorica che permette a Marx di ricusare la vecchia problematica: la scoperta del materialismo storico permette a Marx di fondare una nuova problematica che rimpiazza i vecchi concetti con concetti nuovi, «la vecchia coppia individuo essenza umana con dei nuovi concetti (forze di produzione, rapporti di produzione ecc.)» (Althusser 1962: 235). Ma non solo, perché questa scoperta porta con sé una nuova concezione della filosofia anch’essa annunciata nelle Tesi attraverso la parola d’ordine della praxis:

(Marx) rimpiazza i vecchi postulati (empirismo-idealismo dell’essenza) che sono alla base non solo dell’idealismo, ma anche del materialismo premarxista, con un materialismo dialettico-storico della praxis: cioè con una teoria dei differenti livelli specifici della pratica umana (pratica economica, pratica politica, pratica ideologica, pratica scientifica) nelle loro articolazioni determinate (propres), fondate sulle articolazioni specifiche dell’unità della società umana. Diciamo in una parola che al concetto “ideologico” e universale di “pratica” feuerbachiana, Marx sostituisce, una concezione concreta delle differenze specifiche che permette di situare ogni pratica particolare nelle differenze specifiche della struttura sociale (Althusser 1962: 236).

I concetti del materialismo storico «implicano e annunciano» dunque una profonda rivoluzione teorica, attraverso cui è possibile definire lo statuto dell’umanesimo, rigettarne le pretese teoriche, «riconoscendone al tempo stesso la funzione pratica di ideologia» (Althusser 1962: 236).

Ora, nella «Nota complementare sull’“umanesimo reale”», pubblicata nel 1965 sulla «Nouvelle Critique» e ripresa poi nel Pour Marx, Althusser ritorna in modo più ampio sulla VI tesi. L’occasione è fornita dalla polemica attorno all’espressione “umanesimo reale”, rispetto alla quale Althusser sostiene che il termine “reale” non ha una funzione conoscitiva ma «di indicazione pratica», è

l’equivalente di un segnale, di un cartello stradale, che indica quale movimento si deve fare ed in quale direzione, fino a dove ci si deve spostare per non trovarsi più nel cielo dell’astrazione, ma sul terreno reale (Althusser 1962: 254).

Il paradosso secondo Althusser consiste nel fatto che l’espressione “umanesimo reale” indica la strada che si deve percorrere per accedere ad una conoscenza scientifica degli uomini concreti, che è conoscenza dei rapporti sociali, conoscenza tuttavia rispetto a cui il concetto di “uomo” (e, di conseguenza, di “umanesimo”) non esercita alcuna funzione, sostituito da concetti quali modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione etc. etc.: «Questo concetto – conclude Althusser – in effetti ci appariva inutilizzabile dal punto di vista scientifico non perché astratto! – ma perché non è scientifico» (Althusser 1962: 255).

La VI tesi rappresenta per Althusser una perfetta mise en abîme di questo paradosso:

La VI tesi su Feuerbach dice proprio che “l’uomo” non astratto è «l’insieme dei rapporti sociali». Ora, se si prende questa espressione alla lettera, come una definizione adeguata, essa non vuol dire nulla. Si provi a darne una spiegazione letterale e si vedrà che non ce modo di venirne a capo, a meno di non ricorrere ad una perifrasi di questo genere: «se vogliamo sapere qual è la realtà, non quella che corrisponde adeguatamente al concetto di uomo o di umanesimo, ma che è indirettamente in causa in questi concetti, non è un’essenza astratta, ma l’insieme dei rapporti sociali». Questa perifrasi fa immediatamente apparire un’inadeguazione tra il concetto di uomo e la sua definizione: insieme dei rapporti sociali. Tra questi due termini (uomo/insieme dei rapporti sociali) c’è probabilmente un rapporto, ma non è leggibile nella definizione, non è un rapporto definitorio, non è un rapporto conoscitivo. Tuttavia questa inadeguazione ha un senso, questo rapporto ha un senso: un senso pratico. Questa manifesta inadeguazione designa un’azione da compiere, uno spostamento da mettere in atto. Essa significa che per incontrare e trovare la realtà a cui si fa allusione cercando non più l’uomo astratto ma l’uomo reale, si deve passare alla società, e mettersi ad analizzare l’insieme dei rapporti sociali (Althusser 1962: 254).

Tuttavia, a questo punto «éclate» un paradosso scandaloso: una volta che abbiamo fatto questo spostamento, scopriamo che la conoscenza dell’insieme dei rapporti sociali «non è possibile che a condizione di fare a meno completamente dei servizi teorici del concetto di uomo (nel senso in cui esisteva, nelle sue pretese teoriche anche prima di questo spostamento)» (Althusser 1962: 254-255):

Ecco il paradosso: il concetto pratico che ci indicava il luogo dello spostamento è stato consumato nello spostamento stesso, il concetto che ci indicava il luogo della ricerca è ormai assente dalla ricerca stessa (Althusser 1962: 255).

Nella VI tesi emerge secondo Althusser un fenomeno tipico delle transitions-coupures che «costituiscono l’avvento (avènement) di una nuova problematica», l’apparizione di concetti pratici, la cui caratteristica è precisamente di essere intérieurement déséquilibrés:

Da una parte appartengono al vecchio universo ideologico che serve loro da riferimento “teorico” (umanesimo); ma dall’altra riguardano un nuovo campo (domaine), indicando lo spostamento da effettuare per giungervi (Althusser 1962: 255).

 

6. Conclusioni 

Per tracciare un primo bilancio della ricostruzione in parallelo delle letture di Gramsci e Althusser della VI tesi è necessario in primo luogo mettere in rilievo un dato storico di primaria importanza: tra la lettura di Gramsci e quella di Althusser ha avuto luogo la pubblicazione di alcuni manoscritti inediti di Marx, la cui importanza può essere difficilmente sottovalutata sia dal punto di vista della ricostruzione del percorso marxiano, sia dal punto di vista più strettamente teorico: la Critica del diritto statuale hegeliano, i Manoscritti del ’44, l’Ideologia tedesca a cavallo degli anni Trenta e i Grundrisse dei Quaranta. Ora, messa in rilievo questa differenza nella possibilità di accesso all’opera marxiana, è interessante rilevare che il giudizio sulle Tesi su Feuerbach presenta delle forti analogie: in Gramsci si tratta del testo in cui emerge la filosofia della praxis, svolto poi nella Miseria della filosofia; in Althusser il testo che contiene il gesto stesso della coupure, che apre ad una nuova scienza e ad una nuova filosofia al tempo stesso, i cui nuovi concetti sono profondamente immersi nel linguaggio feuerbachiano della problematica antropologica. Tuttavia, l’approccio al testo nei due autori è differente: in Gramsci l’approccio storiografico è quasi del tutto assente20, egli usa le Tesi come materiale di costruzione della filosofia della praxis, pensandole immediatamente attraverso i concetti di altre opere di Marx, in primis della «Prefazione del ’59», ma anche del Manifesto e dei testi storici21 (Frosini 2009: 459) ; in Althusser l’approccio storiografico è invece di primaria importanza, trattandosi in lui di ricostruire il percorso di Marx, come risulta evidente da questo passaggio:

Rousseau diceva che con i bambini e gli adolescenti tutta l’arte dell’educazione consiste nel saper perdere tempo. L’arte della critica storica consiste allo stesso modo nel saper perdere abbastanza tempo perché i giovani autori diventino grandi. Questo tempo che noi perdiamo non è che il tempo che noi gli concediamo per vivere. È la necessità della loro vita che noi scandiamo attraverso la nostra intelligenza dei suoi nodi, dei suoi rinvii e delle sue mutazioni. Non vi è forse, in questo ordine, gioia più alta, che assistere così, una volta detronizzati gli Dei delle Origini e dei Fini, alla genesi della necessità (Althusser 1962: 67).

Questa differenza nell’approccio al testo delle Tesi ne produce un’altra che marca una differenza rilevante tra il marxismo di Gramsci e quello di Althusser. Se per entrambi gli autori il testo delle Tesi segna l’emergere della filosofia di Marx, il modo di leggerle presenta una differenza significativa: Gramsci, per usare una celebre espressione di Leggere il Capitale, legge le Tesi a libro aperto, come se, cioè, la verità della filosofia marxista fosse rintracciabile pienamente nella materialità del suo linguaggio, in presenza, allorché la lettura althusseriana è sintomale, tende cioè a mostrare i vuoti e le equivocità che si nascondono dietro un linguaggio che annuncia il novum, ma non è ancora capace di produrlo nel duplice senso del termine22. Non è un caso che uno dei limiti che Althusser individua nella filosofia di Gramsci è precisamente una totale aderenza alla concettualità espressa nelle Tesi. Così, in un commento degli anni Sessanta conservato negli Archivi23 (Althusser 1970: ALT2. A57-01.04) scrive:

E di fatto, quando lo si legge, penso che non si possa trattenersi dal vederlo ancora alle prese con Croce. Lo critica troppo per non essere ancora preso nelle sue maglie. Ha riconosciuto in Croce l’idealismo che ha messo in «evidenza il lato attivo della dialettica» (…) come tutti gli idealismi di cui parlano le Tesi, ma, per dio, nel linguaggio delle Tesi stesse, linguaggio sospetto, contaminato, dunque dubbio24.

Le due principali critiche che Althusser rivolge a Gramsci, l’incapacità di pensare la differenza tra scienza e ideologia e l’essenzialismo delle pratiche, sono entrambe riconducibili a una lettura “a libro aperto” delle Tesi: della II, che lega in modo immediato verità e pratica (Althusser 1996: 321); della VIII, che fonda la vita sociale in un concetto di praxis che, costituendo l’essenza interiore delle molteplici pratiche, ne cancellerebbe le differenze25.

Va tuttavia rilevato che anche la VI tesi costituisce un luogo attraverso il quale Althusser critica Gramsci. In un passaggio della Question de l’humanisme, di cui si è parlato sopra, Althusser ripete sostanzialmente l’argomento già espresso nella «Note complementaire sur “l’humanisme réel”», con un’aggiunta decisiva per il nostro percorso, il riferimento esplicito a Gramsci:

è sufficiente (…) comparare le interpretazioni un po’ precise di questa frase per convincersi che essa non è affatto chiara, peggio, che essa è, alla lettera, incomprensibile, e che lo è per delle ragioni. Queste ragioni riguardano il fatto che Marx non poteva enunciare ciò che tentava di dire, non solo perché non sapeva ancora dirlo, ma anche perché si impediva di dirlo (il s’interdisait de le dire), per il semplice fatto che cominciava la sua frase con l’espressione: «l’essenza dell’Uomo». Quando, dalla prima parola che si pronuncia, ci si ostruisce la via con un gigantesco “ostacolo epistemologico” (…), non si può che stare fermi (piétiner), o fare delle strane deviazioni per aggirare l’ostacolo. Queste deviazioni sono inscritte in questa frase necessariamente incompresa perché incomprensibile. Esempio celebre, perché se ne trova la traccia in Engels stesso (il parallelogramma delle forze) e, alla lettera (en toutes lettres), in Gramsci (Althusser 1967: 489).

Althusser ritiene che con l’espressione «insieme dei rapporti sociali» Marx abbia di mira la costruzione di una teoria della società e che, su questa via, l’espressione «essenza umana» costituisca un vero e proprio «blocco teorico».

Tuttavia, dalla ricostruzione che abbiamo proposto dell’uso gramsciano della VI tesi mi sembra emerga precisamente lo sforzo di costruire una teoria della società proprio a partire da ciò che Gramsci chiama «insieme/complesso/sistema dei rapporti sociali». E se è vero che Gramsci legge a libro aperto la VI tesi, cioè legge in essa immediatamente la verità della teoria di Marx e non lo sforzo che questi fa per liberarsi dell’antropologia feuerbachiana e per costruire una nuova teoria, non si può non rilevare che Gramsci pensa «i rapporti sociali» articolandoli attraverso i concetti del materialismo storico, sia come «rapporti sociali di produzione» contro ogni lettura essenzialista delle forze produttive, sia come «blocco storico» struttura-sovrastruttura, contro ogni lettura economicista. Ma, di più, nel suo ripensamento del materialismo storico all’ombra di Machiavelli, giunge a pensare l’«insieme di rapporti sociali» come rapporti di forza, si spinge oltre la topica per pensare questi rapporti stessi nella loro differenziazione e nella loro complessa articolazione attraverso il concetto di congiuntura. Senza voler schiacciare i due autori l’uno sull’altro, si tratta della direzione che, sia pure in assenza di un linguaggio adeguato per esprimerla, è indicata secondo Althusser dalla VI tesi, e che Althusser stesso svilupperà nell’«Oggetto del Capitale» giungendo a ridefinire la topica classica: l’unità della complessa struttura di rapporti che definisce un modo di produzione (con le sue istanze determinate che altro non sono che differenti pratiche) altro non è che l’unità di una congiuntura26. Certo, questa congiuntura corre il rischio di essere letta dal lato gramsciano come abitata da una praxis rivoluzionaria, metamorfosi di un soggetto umano pieno, di una Gattung feuerbachiana trasferita dalla fissità della natura alla processualità della storia (il cui telos è il genere umano unificato a venire)27, e dall’altro lato – dal lato althusseriano – come una combinatoria in cui gli elementi della combinazione sarebbero ancorati ad una regio idearum che ne fisserebbe ex ante le essenze e le variazioni possibili. Vi è una via stretta per leggere la VI tesi oltre i rischi opposti di storicismo e strutturalismo, la via che in entrambi gli autori passa per Machiavelli.


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Morfino V., La causalité structurelle, La pensée, vol. 382 (2015).

Note al testo 
  1. Balibar ipotizza che l’uso del verbo «inwohnen» sia in realtà sintomatico dell’intenzione marxiana di criticare, oltre al modello post-aristotelico di individuazione, anche un secondo modello: quello (post-)agostiniano (Balibar 2014: 154-156).
  2. A proposito della modifica engelsiana Macherey scrive: «… on remarquera … qu’Engels a rétabli dans sa version de passage du texte une référence explicite à l’essence “humaine”, alors que Marx s’était contenté, sans davantage préciser, de parler de l’“essence” en vue d’évoquer sa caractérisation en tant qu’essence générique, ce qui suggère que c’est en vertu d’une mécompréhension logique de la nature de l’essence en général, et non seulement des caractères propres à l’essence humaine, que Feuerbach a orienté sa démarche dans un certain sens, ce qui l’a conduit à s’enfermer dans un impasse: de ce point de vue, la correction apportée par Engels est discutable dans la mesure où, dans un souci de clarification, elle restreint en fait la portée de l’objection del Marx» (Macherey 2008: 158).
  3. Gramsci traduce le Tesi su Feuerbach da un’antologia di scritti marxiani, Lohnarbeit und Kapital. Zur Judenfrage und andere Schriften aus der Frühzeit (Leipzig, Reclam, 1919). A questo riguardo Cospito sottolinea che «le traduzioni dei passi antologici (…) non seguono, come sarebbe ovvio attendersi, l’ordine in cui compaiono nell’edizione originale, ma una successione diversa, che corrisponde ad una sorta di gerachia di valore in ordine decrescente. (…) Gramsci traduce infatti per prime le celeberrime Tesi su Feuerbach» (Cospito 2007: 25-26).
  4. Cfr «(…) dal punto di vista teorico, la Miseria della Filosofia può essere considerata in parte come l’applicazione e lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach mentre la Santa Famiglia è una fase intermedia ancora indistinta, come si vede dai brani riferentesi a Proudhon e specialmente al materialismo francese» (Gramsci 1975: 462). Non meraviglia che Althusser, in alcune pagine di estratti dalle Note su Machiavelli dei primissimi anni Sessanta, abbia ricopiato traducendolo questo passaggio (ALT2. A 31-05.06, foglietto non numerato).
  5. L’importanza attribuita alle Tesi su Feuerbach sembra contraddire quanto stabilito uno dei criteri metodologici stabiliti per studiare l’opera di Marx, la distinzione tra le opere che l’autore «ha condotto a termine e ha pubblicato, da quelle inedite, perché non compiute»: «il contenuto di queste deve essere assunto con molta discrezione e cautela: esso deve essere ritenuto non definitivo, per lo meno in quella data forma; esso deve essere ritenuto materiale ancora in elaborazione, ancora provvisorio» (Gramsci 1975: 420). Si può ipotizzare che le Tesi costituiscano un’eccezione a questo criterio in virtù della legittimazione engelsiana.
  6. Gramsci individua in un passo delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel la fonte di questa concezione marxiana. È interessante notare che mentre nella prima versione individua in questo passo una «’fonte” per la teoria dell’unità per la teoria dell’unità di teoria e di pratica» (ibidem), nella seconda versione il passo di Hegel è definito sì «“fonte” del pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che “i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta ora di mutarlo”», ma «elemento per la teoria dell’unità di teoria e di pratica» (Gramsci 1975: 1472).
  7. È interessante confrontare questo passaggio con la prima stesura; se infatti il centro dell’argomento rimane l’appello alla III tesi, nella prima versione vi è un riferimento alla negazione della negazione che scompare nella seconda: «Il Croce fa quistioni di parole: quando dice che per il materialismo storico le superstrutture sono apparenze (ciò che è vero nella polemica politica ma non è vero “gnoseologicamente”), non pensa che ciò può significare qualcosa di simile alla sua affermazione della non “definitività” di ogni filosofia? Quando dice che il materialismo storico stacca la struttura dalle superstrutture, rimettendo così in vigore il dualismo teologico, non pensa che questo distacco è posto in senso dialettico, come tra tesi ed antitesi e che pertanto ogni accusa di dualismo teologico è vacua e superficiale? Forse che la struttura è concepita come qualcosa di immobile, o non è essa stessa la realtà in movimento: cosa vuol dire M. nelle Tesi su Feuerbach quando parla di «educazione dell’educatore» se non che la superstruttura reagisce dialetticamente sulla struttura e la modifica, cioè non afferma in termini “realistici” una negazione della negazione? non afferma l’unità del processo del reale?» (Gramsci 1975: p. 854).
  8. Per «complesso» cfr. Q4, 49; Q7, 35; Q7, 80; Q11, 29; Q12, 1; Q15, 10. Per «sistema» cfr. Q4, 49; Q10, 9; Q12, 1; Q13, 10. È interessante notare che Macherey seguendo la lettura offerta da Balibar del termine «ensemble» in senso non totalizzante, scrive: «Peut-être Marx aurait-il pu aussi se servir du substantif das Komplex pour exprimer une idée de ce genre» (Macherey 2008: 151).
  9. Cfr. : «la tesi di Marx – che gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie – ha un valore organico, è una tesi gnoseologica e non psicologica o morale» (Gramsci 1975: 463).
  10. Cfr. questo passaggio: «L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano “spirito” non è un punto di partenza, ma di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario ecc. La scienza sperimentale è stata (ha offerto) finora il terreno in cui una tale unità culturale ha raggiunto il massimo di estensione: essa è stata l’elemento di conoscenza che ha più contribuito a unificare lo “spirito”, a farlo diventare più universale; essa è la soggettività più oggettivata e universalizzata concretamente. Il concetto di “oggettivo” del materialismo metafisico pare voglia significare una oggettività che esiste anche all’infuori dell’uomo, ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l’uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire ecc.». (Gramsci 1975: 1416). Cfr. anche: «L’“uomo in generale”, comunque si presenti, viene negato e tutti i concetti dogmaticamente “unitari” vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di “uomo in generale” o di “natura umana” immanente in ogni uomo. Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla “necessità” e non alla “libertà” che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Dunque, se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata, anche la filosofia della prassi: nel regno della “libertà” il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e della necessità di lotta. Attualmente il filosofo (della prassi) può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dall’attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia» (Gramsci 1975: 1487-1488).
  11. Cfr. : «Il termine di “apparente”, “apparenza”, significa proprio questo e niente altro che questo ed è da giustificare contro il dogmatismo: è l’affermazione della caducità di ogni sistema ideologico, accanto all’affermazione di una validità storica di ogni sistema, e di una necessità di esso (“nel terreno ideologico l’uomo acquista coscienza dei rapporti sociali»: dire ciò non è affermare la necessità e la validità delle “apparenze”?)» (Gramsci 1975: 1569).
  12. A proposito di questa traduzione Cospito scrive: «Qui (…) Gramsci segue una lunga tradizione italiana di fraintendimenti, derivata dalla nozione gentiliana di “prassi rovesciata”, da intendersi come “prassi che si rovescia (…) tornando dall’oggetto (principio) al soggetto (termine)” (…) in una sorta di prefigurazione di quella particolare forma di “ritorno a Hegel” da parte di Marx che la stessa filosofia gentiliana intendeva rappresentare. L’erronea traduzione-interpretazione di Gentile dell’espressione conclusiva della terza delle Tesi su Feuerbach regnerà incontrastata nel corso dei primi tre decenni del Novecento, accolta tra gli altri anche da chi, come Benedetto Croce e Antonio Labriola, non condivideva affatto l’impianto generale di quella lettura di Marx, e soprattutto da Rodolfo Mondolfo, che nel suo saggio del 1909 su Feuerbach e Marx (…) fondava sul concetto di “praxis che si rovescia” la sua immagine di un Marx “umanista”, capace di superare dialetticamente l’opposizione tra materialismo e idealismo» (Gramsci 2007: 815).
  13. Il tedesco di Marx recita: «Produktionverhältnisse, die einer bestimmten Entwicklungsstufe ihrer materiellen Produktivkräfte entsprechen» (K. Marx 1974: 8).
  14. Cfr anche Q11, 21 per una critica alla dipendenza dei progressi della scienza dagli strumenti scientifici che viene definito corollario «del principio generale, accolto dal Saggio, e di origine loriana, sulla funzione storica dello “strumento di produzione e di lavoro” che viene sostituito all’insieme dei rapporti sociali di produzione (Gramsci 1975: 1420-1421).
  15. In primis il concetto di intellettuale proposto da Gramsci, la cui specificità risiede precisamente nel pensare le attività intellettuali «nell’insieme del sistema di rapporti in cui esse (…) vengono a trovarsi nel complesso generale dei rapporti sociali» (Gramsci 1975: 1516; cfr. I stesura in Q4, 49). Naturalmente questa definizioni in termini relazionali/congiunturali del concetto di intellettuale intrattiene un rapporto di primaria importanza con i concetti fondamentali della teoria gramsciana: egemonia, apparati egemonici, società civile, Stato, forza, consenso, guerra di movimento, di posizione etc. Cito questo passaggio ad exemplum: «Da notare che l’elaborazione dei ceti intellettuali nella realtà concreta non avviene su un terreno democratico astratto, ma secondo processi storici tradizionali molto concreti. Si sono formati dei ceti che tradizionalmente “producono” intellettuali e sono quelli stessi che di solito sono specializzati nel «risparmio», cioè la piccola e media borghesia terriera e alcuni strati della piccola e media borghesia cittadina. La diversa distribuzione dei diversi tipi di scuole (classiche e professionali) nel territorio “economico” e le diverse aspirazioni delle varie categorie di questi ceti determinano o danno forma alla produzione dei diversi rami di specializzazione intellettuale. Così in Italia la borghesia rurale produce specialmente funzionari statali e professionali liberi, mentre la borghesia cittadina produce tecnici per l’industria: e perciò l’Italia settentrionale produce specialmente tecnici e l’Italia meridionale specialmente funzionari e professionisti. Il rapporto tra gli intellettuali e il mondo della produzione non è immediato, come avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è mediato, in diverso grado, da tutto il tessuto sociale, dal complesso delle superstrutture, di cui appunti gli intellettuali sono i «funzionari». Si potrebbe misurare l’“organicità” dei diversi strati intellettuali, la loro più o meno stretta connessione con un gruppo sociale fondamentale, fissando una gradazione delle funzioni e delle soprastrutture dal basso in alto (dalla base strutturale in su). Si possono, per ora, fissare due grandi “piani” superstrutturali, quello che si può chiamare della “società civile”, cioè dell’insieme di organismi volgarmente detti “privati” e quello della “società politica o Stato” e che corrispondono alla funzione di “egemonia” che il gruppo dominante esercita in tutta la società e a quello di “dominio diretto” o di comando che si esprime nello Stato e nel governo “giuridico”. Queste funzioni sono precisamente organizzative e connettive. Gli intellettuali sono i “commessi” del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso “spontaneo” dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce “storicamente” dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante1 al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2) dell’apparato di coercizione statale che assicura “legalmente” la disciplina di quei gruppi che non “consentono” né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo vien meno. Questa impostazione del problema dà come risultato un’estensione molto grande del concetto di intellettuale, ma solo così è possibile giungere a una approssimazione concreta della realtà. Questo modo di impostare la questione urta contro preconcetti di casta: è vero che la stessa funzione organizzativa dell’egemonia sociale e del dominio statale dà luogo a una certa divisione del lavoro e quindi a tutta una gradazione di qualifiche, in alcune delle quali non appare più alcuna attribuzione direttiva e organizzativa: nell’apparato di direzione sociale e statale esiste tutta una serie di impieghi di carattere manuale e strumentale (di ordine e non di concetto, di agente e non di ufficiale o funzionario ecc.), ma evidentemente occorre fare questa distinzione, come occorrerà farne anche qualche altra. Infatti l’attività intellettuale deve essere distinta in gradi anche dal punto di vista intrinseco, gradi che nei momenti di estrema opposizione danno una vera e propria differenza qualitativa: nel più alto gradino saranno da porre i creatori delle varie scienze, della filosofia, dell’arte, ecc.; nel più basso i più umili “amministratori” e divulgatori della ricchezza intellettuale già esistente, tradizionale, accumulata. L’organismo militare, anche in questo caso, offre un modello di queste complesse graduazioni: ufficiali subalterni, ufficiali superiori, Stato maggiore; e non bisogna dimenticare i graduati di truppa, la cui importanza reale è superiore a quanto di solito si pensi. È interessante notare che tutte queste parti si sentono solidali e anzi che gli strati inferiori manifestano un più appariscente spirito di corpo e traggono da esso una “boria” che spesso li espone ai frizzi e ai motteggi» (Gramsci 1975: 1518-1520).
  16. Rinvio qui ai lavori di Fabio Frosini (2010; 2009). In particolare nel primo testo Frosini individua due fasi nel ripensamento del rapporto struttura-sovrastruttura: una prima fase in cui vi è una netta discriminazione tra struttura e congiuntura, una seconda in cui in cui ogni struttura si rivela come una congiuntura attraversata da rapporti di forza (Frosini 2010: 189-204).
  17. Ivi, p. 25. In «Du Capital à la philosophie de Marx» Althusser scrive: «Siamo tutti alla ricerca di questa filosofia. Non sono i protocolli di rottura filosofica dell’Ideologia tedesca, che ce la presentano in persona. Non sono nemmeno, prima di questi, le Tesi su Feuerbach, questi pochi lampi accecanti, in cui la notte dell’antropologia filosofica si squarcia nell’istantanea fuggitiva di un altro mondo percepito attraverso l’immagine retinica del primo» (Althusser 19963: 26).
  18. «Les philosophes n’ont fait qu’interpréter le monde de différentes manières, mais il s’agit de le transformer» (Althusser 1992: 21).
  19. Nel suo commentario della IX tesi tuttavia Macherey fa notare giustamente che l’espressione «bürgerliche Gesellschaft» è un riferimento diretto alla terminologia hegeliana: «cette société moderne, Marx n’est pas encore, au moment où il rédige les thèses sur Feuerbach, au point de la comprendre comme société ‘bourgeoise’, au sens de la société qui est caractérisée par le fait que la bourgeoisie y joue le rôle de classe dominante» (Macherey 2008: 208).
  20. Va sottolineato tuttavia che in Q4, 1 Gramsci fissa una serie di precisi criteri metodologici per lo studio dell’opera di Marx. In alcune pagine di estratti commentati dalle Oeuvres choisis (1959) che portano il titolo di «Gramsci φ et pol» (1967) Althusser definisce questo passaggio un «excellent texte sur la méthode à respecter pour étudier Marx 77-81» (ALT. 057-01.06 f. 14; sott. di Althusser).
  21. Cfr. su questo punto (Frosini 2009: 45).
  22. È interessante rilevare che il concetto di lettura sintomale, dopo essere stato esposto in «Du Capital à la philosophie de Marx» ritorna nel paragrafo conclusivo di «Le marxisme n’est pas un historicisme»: «(…) (dobbiamo) sottoporre il testo di Marx non a una lettura immediata, ma a una lettura “sintomale”, per distinguervi, nell’apparente continuità del discorso, le lacune, gli spazi bianchi e le mancanze di rigore, il luogo in cui il discorso di Marx è il non detto del suo silenzio, che sorge dal suo stesso discorso» (Althusser 1996: 343).
  23. Si tratta di 3 pagine dattiloscritte di cui la prima porta il titolo «Sur Gramsci» senza numero, mentre le altre sono numerate (ALT2. A57-01.04). Sono pagine del 1970 a commento di un exposé di F. Regnault su Gramsci.
  24. «Et de fait, quand on le lit, je pense qu’on ne peut se retenir de le voir encore aux prises avec Croce. Il le critique trp pour n’être pas encore pris dans se mailles. Il reconnut en Croce l’idéalisme qui a mis en “évidence le côté actif de la dialectique” (…) comme tous les idéalismes dont parle les Thèses, mais hélas dans le langage des Thèses elles-mêmes, langage suspect, contaminé, donc douteux» (Althusser 1970: ALT2. A57-01.04, f. 1).
  25. «(…) en préférant le terme de praxis, Gramsci mettait l’accent, tout comme Marx que dans les Thèses sur Feuerbach parlait de “subjectivité” de la “praxis”, sur l’intériorité de toute pratique, à savoir l’activité (…)» (L. Althusser, Que faire?, ALT2. A26-05.07, p. 55).
  26. Rinvio al mio (Morfino 2015: 57-70).
  27. Così descrive questo rischio Althusser proprio in relazione alle Tesi su Feuerbach: «Le Tesi su Feuerbach non dichiarano forse che l’oggettività stessa è il risultato, tutto umano, dell’attività “pratico-sensibile” di questi soggetti? È sufficiente assegnare alla natura umana gli attributi della storicità “concreta”, per sfuggire all’astrazione e al fissismo delle antropologie teologiche o morali e per scovare Marx nella sua tana: il materialismo storico. Si concepirà, dunque, questa natura umana come prodotta dalla storia, cangiante con essa, l’uomo cangiante, come lo voleva già la Filosofia dei Lumi, con le rivoluzioni della sua storia, e colpito fin nelle sue più intime facoltà (il vedere, il sentire, la memoria, la ragione ecc. Helvétius l’affermava già, Rousseau anche, contro Diderot; Feuerbach ne fece un importante argomento della sua filosofia e, ai nostri giorni, una folla d’antropologi culturali vi si esercitano) dai prodotti sociali della sua storia oggettiva. La storia diviene allora trasformazione di una natura umana, che rimane il vero soggetto della storia che la trasforma. Si sarà così introdotta la storia nella natura umana, per rendere gli uomini contemporanei degli effetti storici di cui sono i soggetti, ma – ed è qui che tutto si decide – si saranno ridotti i rapporti di produzione, i rapporti sociali, politici e ideologici a dei “rapporti umani” storicizzati, cioè a dei rapporti interumani, intersoggettivi. Tale è il terreno d’elezione di un umanesimo storicistico» (L. Althusser 1996: 329).
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