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Sul potere sociale della scienza e della tecnologia

di Sebastiano Isaia

Alcune riflessioni intorno alla natura storico-sociale della scienza e della tecnologia, sul concetto di uso capitalistico delle macchine, sul “neoluddismo” e sulla possibilità di una scienza e di una tecnica pienamente – o semplicemente – umane

kazimir severinovich malevich peasant woman with buckets and a childDopo millenni di illuminismo, il panico
torna a calare su di una umanità il cui
dominio sulla natura, in quanto dominio
sugli uomini, supera di gran lunga, in fatto
di orrore, tutto ciò che gli uomini ebbero
mai a temere dalla natura.
T. W. Adorno, Minima moralia.

Il capitale, forzando la scienza a servirlo,
costringe sempre alla docilità la mano ribelle
del lavoro (A. Ure, La filosofia delle manifatture).
E non solo la mano, se posso chiosare.

La miseria viene non tanto dagli uomini,
quanto dalla potenza delle cose.
E. Buret, Corso di economia politica.
Ma la «potenza delle cose» non è che la
potenza del Capitale!

La razionalità tecnica di oggi non
è altro che la razionalità del dominio.
M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo.

Qui di seguito riprendo parte delle considerazioni che su alcuni aspetti del capitalismo del XXI secolo ho svolto in diversi scritti (1) nel tentativo, non so quanto riuscito, di proiettare un cono di luce soprattutto su un punto del tema da me affrontato, la cui grande rilevanza teorica e politica certamente non sfuggirà al lettore, ossia sull’intima e inscindibile relazione che corre tra l’uso (capitalistico) della tecnologia e della scienza e la loro natura storico-sociale (capitalistica). Infatti, e sostenendo questo non credo di affermare chissà quale perla di saggezza “materialistica”, non ha senso alcuno parlare di scienza e di tecnologia prescindendo dal contesto storico-sociale che rende possibile la ricerca scientifica e la sua – oggi sempre più puntuale e rapida – applicazione tecnologica . Si tratta piuttosto, almeno per chi come me non è un intellettuale e si considera piuttosto un militante anticapitalista, di riempire di significati “filosoficamente” e politicamente orientati il concetto stesso di «contesto storico-sociale», così da mostrare fino a che punto l’attuale tecnoscienza sia – necessariamente – implicata nella produzione della Società-Mondo del XXI secolo. Il potere sociale della scienza e della tecnologia come potere sociale del Capitale, un potere che si fa sempre più oltreumano e disumano: è questa la tesi di fondo che informa la presente riflessione.

Questo sforzo critico mi appare tanto più significativo alla luce delle teorie che, di fatto, tendono ad accreditare non solo la possibilità ma persino la realtà, hic et nunc, di una tecnoscienza alternativa, se non addirittura rivoluzionaria, che si starebbe radicando ed espandendo nel seno del cosiddetto Capitalismo delle piattaforme, altrimenti detto Capitalismo cognitivo, oppure Capitalismo bio-cognitivo o altro ancora – in una sorta di gara a chi la spara più postmoderna in fatto di definizioni. «Per questo», scrive ad esempio Andrea Fumagalli, «diventa sempre più imprescindibile dotarsi di strumenti tecnologici e finanziari per sperimentare forme di esodo costituente e sovversivo in grado di erodere sempre più l’area della produzione di valore di scambio a vantaggio della produzione dell’essere umano per l’essere umano». Erodere dall’interno il capitalismo, creare al suo interno modi di produzione alternativi, uscire gradualmente dalla sfera del lavoro salariato senza prima abbattere lo Stato borghese (che idea vetusta!): è una vecchissima ricetta riformista, già a suo tempo derisa e bastonata criticamente dal comunista di Treviri, che i proudhoniani in salsa comunarda di oggi ripropongono come se fosse un piatto confezionato con cibi gustosi e freschissimi. Quando leggo frasi del tipo «produzione dell’essere umano per l’essere umano» (dove? come? quando?) mi chiedo che razza di «essere umano» (e di “Comune”!) hanno in testa certi intellettuali. Mah!

In questa illusione tecnoscientifica mi pare di poter cogliere anche la riproduzione dello schema storico che ha visto i nuovi rapporti sociali di produzione imporsi già, almeno in parte, nel seno della vecchia società, dissolvendola gradualmente con l’acido corrosivo della prassi sociale. Il potere economico della borghesia, ad esempio, storicamente si affermò nella società prima che i nuovi ceti imprenditoriali, commerciali e finanziari (una distinzione che nella genesi del capitalismo ha un valore molto relativo) assumessero in prima persona la direzione politica dello Stato, ponendo con ciò le basi per la rivoluzione capitalistica che conosciamo. Applicare questo schema storico nella società dominata dal Capitale non tiene conto, tra l’altro, di un fatto macroscopico e decisivo: «la classe storicamente rivoluzionaria» del XXI secolo non ha i mezzi, cioè i capitali, per affermarsi nella società sul piano economico senza prima spezzare il potere politico posto a difesa dei vigenti rapporti sociali capitalistici. A meno che non si pensi a una «classe  storicamente rivoluzionaria» di nuova concezione, la cui esistenza – o possibilità – non è colta dal mio modestissimo radar cognitivo, e anche questa è un’ipotesi da non scartare.

Con i miei diversi scritti sulla tecnoscienza e sul feticismo tecnologico ho inteso – e intendo – offrire il mio modesto contributo all’elaborazione di una critica autenticamente radicale del vigente regime sociale colto nella sua compatta, complessa, contraddittoria e bellicosa totalità; un regime sociale la cui conservazione ha molto a che fare con il continuo e sempre più rapido rivoluzionamento dei processi produttivi, della logistica, dei mercati (“reali” e finanziari), dei consumi e della nostra stessa esistenza. Più che “liquida”, come sostiene la teoria del celebre sociologo polacco Zygmunt Bauman scomparso recentemente, la vita mi appare impalpabile, proprio come vuole l’ideologia dell’immaterialità oggi alla moda, e chi non riesce, per un qualsiasi motivo, a tenere il passo delle innovazioni (tecnologiche e sociali); chi non è sufficientemente impalpabile e flessibile secondo le necessità dei tempi, non ha alcuna chance di uscire indenne dal Controllo di Qualità Totale che ha i suoi uffici aperti dappertutto e ventiquattro ore al giorno, ed è messo cordialmente alla porta: «Scartato! Si ripresenti dopo una consona riqualificazione». Per moltissima gente la vita impalpabile è dura come l’acciaio e il pensiero critico nuota controcorrente in un mare di acqua gelida. Questo sempre a proposito di “vita liquida”.

Come spesso mi capita, anche questa volta non ho trovato il tempo di rivedere i miei appunti, che difatti pubblico “tali e quali”, per usare il gergo caro a chi si occupa dei rifiuti, ossia senza alcuna revisione e correzione di qualche genere, confidando nella benevolenza del lettore. Mi scuso comunque per le eventuali ripetizioni di frasi e concetti.

 

1.

Per l’uomo vivere in società – o comunità – non rappresenta una maledizione, antropologica o divina che sia, come hanno sostenuto in passato – e come sostengono ancora oggi – non pochi filosofi e teologi, ma un’ineliminabile condizione di esistenza; la dimensione sociale è per l’uomo, almeno per l’uomo come lo conosciamo da svariati millenni, la sua stessa prima natura, prescindendo dalla quale non avremmo ciò che definiamo, appunto, uomo, nemmeno come sua semplice possibilità. La vecchia distinzione tra prima (quella naturale) e seconda natura (quella sociale) non tiene conto della totalità dialettica di elementi naturali e sociali che conferiscono alla specie umana la sua peculiarità e unicità su questo pianeta. Si tratta quindi, almeno per chi scrive, di immaginare una Comunità in grado di assicurare agli individui condizioni di esistenza pienamente – o semplicemente – umane: è ciò che chiamo, anche qui con scarsa originalità, Comunità Umana (2). Due condizioni, sotto questo aspetto, mi appaiono imprescindibili: il superamento della divisione classista degli individui e della stessa divisione sociale del lavoro, almeno come ce l’ha  consegnata il lungo retaggio storico che ci sta alle spalle (mi riferisco in primo luogo alla divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, la cui cattiva sostanza si ripropone in forme sempre nuove), e la creazione di condizioni materiali in grado di non esporre la Comunità umana al rischio di ricadere nel cieco dominio della natura e dei bisogni vitali, perché in tali circostanze potrebbe ritornare, per dirla con Marx, «tutta la vecchia merda» che ha preparato il terreno alla genesi della società divisa in classi. La paura, la scarsità e la miseria non sono mai state delle buone consigliere.

L’uomo è tale (naturalmente, storicamente e socialmente) nella misura in cui oppone resistenza, “materiale” e “spirituale”, alle cose e agli eventi, e non li subisce passivamente. Come ho scritto altre volte, balbettando abbastanza ignobilmente concetti hegelo-marxiani, l’uomo è la specie che pone la mediazione: «Medio, dunque esisto!». L’uomo pone il mondo come una mediazione tra sé e l’ambiente circostante, e lo fa naturalmente, spontaneamente, cioè a dire prima che la cosa diventi oggetto della sua riflessione, la quale peraltro non tarda a bussare alla sua porta: ed ecco la filosofia, la scienza, l’arte, la religione, e così via. Mediare significa comprendere, trasformare e padroneggiare il mondo, tanto quello “esterno” quanto quello “interno”, e senza soluzione di continuità reale e concettuale tra questi momenti: nel caso dell’uomo è impossibile immaginare un impulso ad agire per soddisfare una necessità vitale che sia privo di un qualche fondamento razionale, non importa quanto “sofisticata” e adeguata alla “verità oggettiva” sia la sua manifestazione.  «Gli uomini si distanziano col pensiero dalla natura per averla di fronte nella posizione in cui dominarla» (3). Padroneggiare il mondo con la testa e con le mani: questo concetto solo a certe condizioni designa una situazione di dominio e di sfruttamento della natura e degli individui.  Inutile dire che la scienza e la tecnica svolgono una grande funzione nella dialettica storico-sociale qui solo sfiorata; che contributo esse possono dare alla genesi e al mantenimento di una Comunità che fosse realmente umana?

 

2.

La scienza ha da sempre precisi connotati di classe; non perché, come appare ovvio, le leggi che essa scopre nella natura siano in qualche modo dettate dagli interessi economici e politici che fanno capo alle classi dominanti, ma nel senso che per un verso le scoperte scientifiche sono messe al servizio di quelle classi, e solo per questo esse assumono una dimensione genericamente sociale; e per altro verso la stessa esistenza della scienza e il suo progresso si danno sempre e necessariamente nel seno di una peculiare formazione storico-sociale. Sotto questo aspetto appare interessante quanto ebbe a scrivere Marx a proposito delle scoperte darwiniane: «È notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese.  Mentre Hegel nella Fenomenologia raffigura la società borghese quale “regno animale dello spirito”, in Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese» (4). E tuttavia nessuno – salvo i creazionisti e i teorici dell’Intelligent Design – può negare obiettività scientifica alle scoperte del grande scienziato inglese circa il processo di selezione naturale di animali e piante. Come si esprime la condizione sociale del XXI secolo nell’immagine scientifica del mondo che hanno in testa gli odierni scienziati? Un tema affascinante e importante che qui non tenterò nemmeno di abbozzare – anche per evitare di dire troppe sciocchezze!

D’altra parte la realtà oggettiva osservata dalla scienza non ci è data mai alla coscienza in modo immediato, nella sua purezza “ontologica”, come vuole il realismo ingenuo, ma appunto con la mediazione delle leggi scientifiche che vengono fuori dal processo conoscitivo, il quale non si limita affatto a rispecchiare il “mondo esterno”, come sostiene quella teoria “riflessiva” che oppone alla concezione metafisica di matrice idealistica (il mondo come mera rappresentazione del soggetto, come sua creazione mentale e sensoriale) una speculare concezione metafisica – l’oggettività del mondo come assoluta realtà che prescinde da qualsivoglia mediazione soggettiva. Per me invece la mediazione soggettiva si dà, eccome; ma per quanto mi riguarda essa non riguarda il soggetto robinsoniano della conoscenza, l’individuo isolato – “solipsistico” – che osserva e fa esperienza del mondo, ma la prassi sociale umana considerata nella sua totalità e nella sua peculiarità storico-sociale. Ma su questo aspetto del problema rinvio ai miei modesti appunti filosofici (5). Chiudo dunque la breve parentesi “gnoseologica” e riprendo il filo del discorso.

L’aspetto critico che occorre mettere a fuoco non è dunque rappresentato, almeno in questa sede, dalle leggi naturali che la scienza scopre nella natura, ma piuttosto dalle modalità teoriche e pratiche delle scoperte scientifiche, le quali rinviano direttamente alle pratiche e alle condizioni sociali che le traggono, per così dire, dall’astratta possibilità e conferiscono loro esistenza ed efficacia sociali. Come si dice, il problema sta “a monte” della scoperta, ossia in ciò che le sta alle spalle storicamente e socialmente; ed esso sta anche alle spalle del soggetto della scoperta, il quale può benissimo essere un genio assoluto nella sfera di indagine che lo interessa e lo occupa e non capire nulla di essenziale della prassi sociale generale che pure lo determina nella sua qualità di scienziato che in ottima fede crede di operare solo nell’interesse della verità e del bene comune. E come mi capita sempre, a questo punto mi viene in mente Einstein!  Mi scuso con i suoi numerosi cultori.

Per comprendere fino a che punto la conoscenza tecnica e quella scientifica (sempre posto il carattere relativo di questa distinzione) siano socialmente determinate, è sufficiente ricordare come le prime nozioni scientifiche e le prime applicazioni tecniche di esse sono state generate da esigenze riconducibili immediatamente alla sfera economico-organizzativa: misurare campi, dividere campi, misurare quantità discrete di cibo, immagazzinare cibo, tenere una contabilità dei generi di prima necessità, misurare il livello dei corsi d’acqua (e la quantità di limo: è il caso del Nilo ai tempi dell’Antico Egitto), creare argini lungo i fiumi, creare bacini artificiali, scambiare prodotti, viaggiare, registrare esperienze e osservazioni di vitale importanza (quel frutto è velenoso, quell’altro è commestibile, quella pianta è curativa, ecc.) e così via. La matematica, la geometria, l’astronomia, la fisica “teorica” e “applicata” eccetera sono dunque nate per rispondere a precise e vitali esigenze umane (6), e subito hanno alimentato la straordinaria creatività intellettuale degli uomini, che peraltro si è manifestata assai precocemente, già nei dipinti e nei manufatti artistici del Neolitico – ma già nel Paleolitico troviamo mirabili e potenti segni della creatività umana, che aveva modo di dispiegarsi nell’arte mimetica. Come capì Marx, e in parte travisò Freud, anche il mondo dei sensi è già, nel caso dell’uomo, un mondo pienamente storico.

Per l’uomo fare e pensare, con la razionalità tipicamente umana estranea a qualsiasi altra creatura vivente, sono due momenti inscindibili. Con ciò non intendo affatto prospettare, o suggerire, una superiorità di qualche tipo dell’uomo in quanto specie rispetto agli altri esseri viventi, la cui “prassi” è guidata dall’istinto o da qualche forma di intelligenza di cui ci sfugge il significato e che spesso semplicemente ignoriamo: mi limito a registrare un fatto, il quale beninteso si esplica ed è concettualizzato in modi diversi nelle diverse epoche storiche. Nella Genesi biblica, ad esempio, possiamo apprezzare un’espressione già molto sofisticata, nonostante le apparenze contrarie, del rapporto uomo-natura, con l’uomo posto al centro del Creato. Tra l’altro, molti ecologisti “fondamentalisti” hanno rimproverato a Papa Francesco di non aver messo in questione, nella pur apprezzata Enciclica Laudato Si’, l’antropocentrismo biblico (7). Questo solo per dire che anche il fondamentale e inscindibile rapporto che lega l’uomo alla natura va considerato alla luce del processo storico-sociale, mentre una sua lettura astrattamente antropologica o astrattamente filosofica (declinazione teologica inclusa) non è in grado di offrirci idee capaci di coglierne l’essenza. Alludo anche a una cattiva ecologia, quella che individua appunto in supposti vizi originari antropologici o filosofici (vedi la «concezione antropocentrica» di Galilei e di Cartesio demonizzata dagli “ecosofisti”) la radice dello sfruttamento e della distruzione della natura ad opera dell’uomo. Il fatto è, appunto, che non è mai esistita un’astratta umanità, né idee scisse da una precisa situazione sociale, e dicendo questo so di non affermare tesi condivisibili solo dai “materialisti storici”.

Le società che si sono fin qui succedute hanno in comune tra loro un aspetto fondamentale, che a mio avviso rappresenta la chiave che permette di penetrare a fondo le più importanti “leggi sociali” (da quelle che informano la prassi economica a quelle che in larga misura spiegano il famoso vissuto quotidiano di ogni individuo): la divisione classista degli uomini. Soprattutto a ragione di ciò si può, anzi si deve senz’altro attribuire alla scienza lo status di creazione classista, e ciò ovviamente vale per ogni realizzazione dell’intelligenza umana degli ultimi cinquemila anni – secolo più, secolo meno. Insomma, fin dall’inizio la scienza, come ogni altra creazione dell’umano intelletto (arte, religione, filosofia, ecc.), porta impresso sulla fronte il marchio realizzato dal vero vizio d’origine delle civiltà che si sono succedute nei millenni: la divisione degli individui in classi sociali.

Ci sono poi altri aspetti della questione da considerare. Ad esempio, una scoperta scientifica può rafforzare la classe contingentemente al potere, che difatti normalmente finanzia artisti e scienziati, una distinzione che peraltro un tempo aveva ben poco senso; oppure può indebolirla, cosa che necessariamente si risolve in un rafforzamento della classe concorrente che aspira alla conquista del potere. Insomma, l’effetto della scoperta scientifica non è mai “neutro”, semplicemente perché, come già detto, essa “cade” sempre nella dimensione del sociale, la quale è più o meno contraddittoria, competitiva e antagonistica. Nell’epoca antica le classi dominanti di molte comunità guardavano con molto sospetto alla traduzione in termini tecnologici delle scoperte scientifiche perché temevano che l’introduzione di nuovi mezzi tecnologici (per quanto oggi essi ci possano apparire primitivi) potesse alterare i fragili equilibri sociali della comunità stabilitisi nel corso di parecchi decenni, se non di secoli, e ciò dava luogo a una mentalità conservatrice che non promuoveva lo sviluppo tecnoscientifico. Questa dialettica ha attraversato tutte le epoche storiche, ma è diventata più evidente e dirompente nel momento in cui ha preso piede e si è rafforzata la sempre più dinamica economia borghese. L’antiscientismo che caratterizzò la Chiesa Romana nel momento in cui l’ascesa dei ceti borghesi minacciò di archiviare per sempre l’ancien régime, si spiega soprattutto con la rivoluzionaria concezione dell’uomo e del mondo che germogliava dalle attività sociali, non solo di natura economica, promosse dai ceti borghesi.

A partire grossomodo dalla fine del XV secolo, la relazione tra tecnoscienza e sistema di dominio apparirà dunque in tutta la sua potente evidenza. Un nome su tutti mi viene in testa a tal proposito, quello di Leonardo da Vinci: «Non c’è dubbio alcuno», scriveva Henry Grossmann, «che Leonardo non solo conoscesse le più importanti leggi della moderna meccanica, idrostatica e idrodinamica, dell’ottica e dell’aerodinamica, e di altre scienze affini e formulasse esattamente queste leggi, ma anche che egli ponesse i principi di una compiuta immagine meccanicistica del mondo» (8). Qui è da sottolineare il legame ipotizzato tra ricerca scientifica e una peculiare concezione (meccanicistica, nella fattispecie) del mondo. Continua Grossmann: «Se la generalizzazione del metodo di produzione capitalistico si realizzò nel XVI secolo, per cui si poté parlare per la prima volta in questo periodo dell’”era capitalistica”, gli inizi del modo di produzione capitalistico (e questi soprattutto sono importanti per la chiarificazione delle basi della concezione borghese del mondo) sono da far risalire più indietro».  Secondo Marx, ad esempio, nell’Italia del Nord (Lucca, Venezia, Milano, Genova, Firenze) «si incontrano sporadicamente fin dai secoli XIV e XV» i primi promettenti inizi della produzione capitalistica, per non parlare dello sviluppo di quelle attività commerciali, monetarie e creditizie che diedero un decisivo contributo alla dissoluzione della società feudale. Trovo particolarmente interessante, anche ai fini della nostra riflessione, la tesi centrale che sta al cuore dell’interessante saggio di Grossmann qui citato, che egli sviluppò in polemica con la concezione gradualista, politicista e “idillica” di Franz Borkenau: «Il pensiero meccanicistico e i progressi della meccanica scientifica durante i centocinquanta  anni del suo sviluppo dalla metà del XV secolo [stanno nel] più stretto rapporto con la prassi delle macchine» (9). E in che rapporto stanno l’immagine del mondo che si forma nella testa degli individui del XXI secolo con la prassi delle macchine “intelligenti”? Nel più stretto rapporto, si capisce! Scherzi a parte, cercherò di ritornare su questo punto.

Assai presto il Capitale ha imparato a servirsi della scienza per espandere il proprio potere sociale sull’uomo e sulla natura; per Marx si può parlare di capitalismo nell’accezione moderna del concetto solo con l’uso metodico e sempre più diffuso della scienza e della tecnologia – una distinzione peraltro molto relativa e anzi sempre più evanescente – nel processo allargato della produzione. È questa rivoluzione tecnoscientifica che, sempre secondo Marx, segna il passaggio dalla «sottomissione formale del lavoro al capitale» (caratterizzata dall’estorsione di plusvalore assoluto) a quella «reale» (caratterizzata dall’estorsione di plusvalore relativo): «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» (10). A un certo punto dello sviluppo capitalistico, la tecnoscienza diventa lo strumento di dominio e di sfruttamento di gran lunga più potente nelle mani del Capitale. Oggi, nell’epoca della sottomissione totale (o totalitaria: un concetto che investe l’intera società, l’intero mondo, l’intera esistenza degli individui) non solo possiamo affermare con sicurezza che la tecnoscienza si contrappone ai dominati come Capitale, nella sua qualità di rapporto sociale capitalistico (dalla Cosa feticistica al rapporto sociale che le dà senso e razionalità), ma che  tale contrapposizione non riguarda solo i luoghi di lavoro ma la società considerata nella sua generalità.

 

3.

Scriveva qualche mese fa Sandro Dell’Orco ricordando il 50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa di Adorno: «Il problema non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da cui è continuamente riprodotto. L’abolizione meramente economica del capitalismo – come i paesi socialisti hanno dimostrato – non solo non produce automaticamente la fine della condizione di possibilità del dominio, ma è compatibile con la sua degenerazione più brutale e totalitaria» (11). E qui veniamo a un tema a me assai caro, che però non svilupperò per l’ennesima volta, ossia alla vera natura sociale del cosiddetto «socialismo reale», la cui esistenza non dimostra affatto ciò che sostiene Dell’Orco, peraltro sulla scia di Adorno e della Scuola di Francoforte. Nell’ambito di quella Scuola fu soprattutto Herbert Marcuse che elaborò il concetto di «società industriale avanzata», seguendo il quale egli giun­se appunto ad assimilare il capitalismo occidentale con «le forme at­tuali di comunismo», dove l’errore evidentemente non stava in quella assimilazione, ma piuttosto nell’ac­creditamento comunista dei regimi “diversamente capitalisti” radicati in Russia, in Cina e altrove.

Scriveva G. D. H. Cole nel remoto anno di grazia 1961, in pieno boom economico postbellico: «La differenza fondamentale fra la civiltà occidentale moderna e tutte le altre civiltà che sono esistite in passato non è tanto che essa è dinamica mentre le altre erano statiche, perché la storia umana non è mai stata statica anche quando il ritmo delle trasformazioni tecnologiche era prossima a zero, quanto il fatto che le società industriali moderne hanno fatto del progresso, dell’ansia di cambiare, la loro seconda natura. […] L’uomo moderno è stato preso in un vortice immenso di sviluppo economico che finirà per inghiottirlo se egli non riuscirà a padroneggiare le forze che minacciano la società di distruzione» (12). Il concetto di società industriale moderna non coglie l’essenza della cosa: è il dominio sociale capitalistico, infatti, che ha fatto dello sviluppo economico un imperativo categorico e degli individui degli esseri sottoposti alla cieca brama di profitti. «L’uomo moderno» non ha mai padroneggiato le forze sociali che pure lui stesso realizza sempre di nuovo, soprattutto attraverso il lavoro, ma le ha piuttosto subite alla stregua di «potenze estranee e ostili». Oggi l’individuo è negato nella sua qualità di uomo, nell’accezione cara agli umanisti d’ogni tempo («l’uomo in quanto uomo»), e la società industriale moderna, ossia capitalistica, rappresenta e riproduce questa negazione. Come altri intellettuali del suo tempo vittime del velo tecnologico che copre la natura di classe della merce, della tecnoscienza e del lavoro salariato, Cole usava il concetto di società industriale moderna per dar conto anche del processo sociale in atto nei Paesi cosiddetti socialisti, i quali, pur avendo «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo», erano tuttavia segnati da contraddizioni sociali e da problemi esistenziali (alienazione, reificazione, aggressività, ecc.) assai simili a quelli che si potevano osservare in Occidente, nei Paesi a capitalismo per così dire conclamato (13). Di qui, l’individuazione della causa di quelle contraddizioni e di quei problemi appunto nel processo tecnico industriale, concepito in sé come “sviluppista”, alienante, reificante e via discorrendo.

L’ansia di cambiamento di cui parlava Cole è in primo luogo l’ansia del capitale di intascare profitti, ed è precisamente questa brama che costringe la società capitalistica a continui e sempre più frequenti cambiamenti, non solo in economia, ma in ogni aspetto della prassi sociale, coinvolgendo in profondità la stessa sostanza psicosomatica degli individui. La dimensione del capitalismo oggi è il mondo e, insieme, il corpo stesso degli individui, una risorsa economica capitalisticamente davvero generosa, un mercato perfetto scandagliato e coltivato con ossessiva e maniacale cura dagli specialisti del marketing. La biopolitica pensata da Foucault si è col tempo radicalizzata proprio secondo le previsioni di A. Rüstow: «L’economia del corpo sociale [è] organizzata secondo le regole dell’economia di mercato». La distinzione “ontologica” tra «corpo sociale» e corpo umano tende a evaporare sotto la pressione del “sociale”; ogni sogno notturno è una potenziale domanda rivolta al mercato, il quale è sempre pronto a soddisfare le richieste del cliente, anche quelle più “bizzarre”. «L’assurdità del capitalismo totalitario, la cui tecnica di soddisfazione dei bisogni rende quella soddisfazione impossibile, tende alla distruzione dell’umanità. […] Tutti questi sacrifici superflui sono necessari» (14).

Purtroppo chi si pone il problema circa la possibilità di una scienza, di una tecnologia e di un’attività lavorativa umanamente orientate si trova a dover fare i conti con la solita – comprensibilissima ma del tutto infondata – obiezione: «Abbiamo visto com’è andata a finire in Russia, in Cina e negli altri Paesi socialisti!» E di certo gran parte degli articoli e dei saggi apologetici che in questi giorni celebrano i cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre non aiutano a fare chiarezza e anzi alimentano nella testa di alcuni la convinzione che il capitalismo non abbia una reale alternativa, e nella testa di altri, magari dei più esposti alle micidiali conseguenze della crisi e della ristrutturazione capitalistica, la cattivissima idea che dopo tutto il «socialismo reale» non era poi così male.

 

4.

I nuovi sistemi digitali di controllo del lavoro, come quelli basati sulla tecnologia messa a punto dalla Motorola, permettono di calcolare in tempo reale, e con la precisione caratteristica delle nuove tecnologie “intelligenti”, la produttività oraria di ogni lavoratore. La singola ora di lavoro viene “virtualmente” dilatata attraverso un numero discreto di operazioni standardizzate e monitorate da un piccolo tablet che il lavoratore indossa come fosse un braccialetto elettronico. Secondo dopo secondo il lavoratore riceve ordini e informazioni dal tablet, e in ogni momento sa se sta rispettando – al secondo! – la tabella di marcia; egli soprattutto sa che in base ai risultati ottenuti gli verranno assegnati o tolti dei punti. Il cronometro di Frederick Taylor, al confronto, fa sorridere quanto a efficacia e a disumanità. Non mi sorprenderei se a fine giornata il lavoratore odiasse a morte la “macchina intelligente” che lo controlla e lo incalza secondo dopo secondo. «Concepito per un utilizzo continuativo, il tablet Wi-Fi ET1, è predisposto con un accesso protetto da password e può essere condiviso tra più lavoratori in modo immediato. Ogni lavoratore potrà accedere alle sole applicazioni abilitate, secondo il livello di responsabilità. Il manager potrà quindi controllare l’utilizzo e garantire che la produttività sul lavoro non sia compromessa. Grazie a una tecnologia delle comunicazioni innovativa e all’avanguardia, Motorola Solutions è un leader a livello globale in grado di offrire ai propri clienti soluzioni che consentano loro di agire al meglio nei momenti più cruciali» (Comunicato stampa Motorola). E per un’impresa capitalistica il momento cruciale per eccellenza è, come insegna Marx, quello dedicato alla creazione di plusvalore. Anche di questo controllo totale sulla prestazione lavorativa tiene conto il concetto di sussunzione totalitaria del lavoro da parte del Capitale – che scrivo con la C maiuscola non solo per un vezzo stilistico, ma soprattutto per sottolinearne la sostanza sociale di potenza astrattamente disumana: il rapporto sociale impersonale si fa cosa mostruosa avente un nome preciso: Capitale, appunto.

La tecnologia è ovviamente qualcosa che noi stessi creiamo con la nostra testa e con le nostre mani; tuttavia noi non controlliamo i presupposti sociali che la generano, che la rendono possibile nelle concrete configurazioni che sperimentiamo in ogni aspetto della nostra vita, né siamo in grado di determinare con la nostra cosiddetta libera volontà i “risvolti sociali” della sua applicazione. In altri e brutali termini, noi siamo, per l’essenziale, impotenti dinanzi a una nostra stessa creazione. Alla fine, ciò che davvero decide della questione è il legittimo interesse di chi finanzia il processo tecnologico e lo usa in vista del profitto e del controllo sociale. Naturalmente parlo di una legittimità che ai capitalisti deriva dalla vigente situazione storico-sociale, e non, o non solo, da un astratto diritto.

Il discorso di chi invoca maggiore “responsabilità sociale”, individuale e collettiva, nell’uso della tecnologia sorvola su questo decisivo aspetto del problema, e quindi esso ha il valore di una ideologia di vile conio che ha solo il merito, per così dire, di rendere manifesta l’impotenza sociale che come una maledizione colpisce l’intera umanità, sebbene in modi diversi in base alla classe sociale di appartenenza di ognuno di noi.

Per il filosofo di fama internazionale Remo Bodei, «Il mercato, come si può vedere, è da tempo diventato una potenza autonoma». Appunto, «da tempo», da moltissimo tempo, mi permetto di precisare, visto che Marx ne parlava già ai tempi dei suoi Manoscritti economico-filosofici. Quanto al «tramonto della democrazia rappresentativa», e al rischio di trovarci tra i piedi, dopo la stagione del “populismo”, «un tipetto come Goebbels», che Bodei paventa e denuncia, dal mio punto di vista occorre piuttosto, per un verso demistificare la natura di classe della «democrazia rappresentativa», la quale non ha scalfito, né avrebbe potuto farlo, la dittatura degli interessi che fanno capo alle classi dominanti, né poteva imbrigliare in qualche modo il carattere totalitario del Capitale; e per altro verso più che puntare i riflettori sui leader populisti e sui «tipetti» alla Goebbels pronti a scendere in campo, si tratta di illuminare criticamente la genesi sociale del materiale umano che rende possibile il successo di quei leader e di quei «tipetti». Sotto questo aspetto occorre dire che anche la «democrazia rappresentativa» (15) ha dato e continua a dare il suo grande contributo alla massificazione degli individui. È la prassi sociale nel suo complesso che atomizza e massifica gli individui, facendo di essi un gregge pronto a eseguire gli ordini impartiti dal Pastore di turno. È questo che accade quando gli uomini non controllano i processi decisivi che rendono possibile la loro stessa esistenza. Sotto questo riguardo non si può non rimarcare il fallimento cui è andato incontro il pensiero razionale, a cominciare da quello scientifico, il quale nel momento genetico della società borghese promise di liberare l’uomo una volta per sempre da ogni sorta di pregiudizio e di superstizione, dalla millenaria condizione di minorità intellettuale e psicologica nei confronti di un mondo che i più non riuscivano a comprendere. La fuoriuscita dell’uomo dalla condizione di minorità di cui egli stesso è l’artefice: in questo, secondo Kant, si compendia il significato ultimo dell’illuminismo. Ebbene, la dialettica sociale che ha reso possibile l’epoca dei lumi ha poi portato il pensiero razionale a servire quelle potenze sociali che fanno della libera volontà degli uomini una frase vuota, un simulacro che cela una condizione di “minorità antropologica” che per certi e fondamentali aspetti è ancora più gravosa di quanto non lo fosse quella vissuta dagli individui nelle società precapitalistiche.

Trovo tracce di questa pessima condizione anche nell’articolo di John Jost, co-Director del Center for Social and Political Behavior della New York University, pubblicato dal Sole 24 Ore del 14 gennaio e intitolato, assai significativamente, Cervelli di destra e di sinistra. La tesi esposta nell’articolo è, nella sua stupidità, abbastanza semplice: la distinzione politologica tra destra e sinistra può avere anche una spiegazione di natura neurologica: «Molti si sorprendono che possano esistere anche correlati neurofisiologici dell’ideologia politica. In un esperimento che abbiamo condotto con i miei colleghi, sono stati collocati degli elettrodi di registrazione sul capo di soggetti politicamente di destra o di sinistra, in modo da potere registrare specifiche onde cerebrali (Event-Related Potentials) mentre questi eseguivano un compito al computer, specificamente studiato per indurli a sviluppare uno schema di risposta dominante (vale a dire, abituale)». L’esperimento ha evidenziato, secondo lo scienziato sociale, l’esistenza di «differenze nel pattern di attivazione cerebrale e queste differenze erano localizzate nella corteccia cingolata anteriore, una parte del cervello preposta a cogliere e risolvere conflitti cognitivi. Nel loro insieme, questi risultati suggeriscono la stuzzicante possibilità che le differenze fra le ideologie destra-sinistra sono, tra altre cose, anche manifestazioni di processi psicologici (e neuronali) fondamentali che appartengono all’ambito dell’elaborazione dell’incertezza. […] Potrebbe darsi sia che le differenze osservate nell’attività e nelle strutture cerebrali contribuiscano all’emergere di ideologie diverse ma anche che sia l’adottare una specifica ideologia a produrre, nel tempo, tali differenze di struttura e funzione cerebrali. Nelle neuroscienze politiche questo è ancora una specie di dilemma dell’uovo e della gallina». In ogni caso, conclude Jost, l’aspetto neurologico dell’orientamento ideologico non va sottovalutato da chi intende reagire «alle minacce al buon funzionamento dei sistemi democratici che derivano dalla natura umana». Per quanto stupida possa apparire, non va nemmeno sottovalutata la tentazione delle neuroscienze a spiegare tutto (dalla religione al libero arbitrio, dall’amore all’odio, dall’arte alla filosofia, dall’infelicità alla felicità, dalla politica alla… lotta di classe?) in termini di processi biochimici e di scambi di informazioni fra neuroni.

La natura totalitaria del “sociale” in questa epoca storica si coglie anche nel tentativo praticato dalla scienza di ricondurre ogni manifestazione della vita umana alla sua base organica, al suo sostrato biologico, in modo da trovare un rimedio farmacologico praticamente per tutte le “problematiche” esistenziali. La mitica pillola della felicità pare sia dietro l’angolo, bisogna solo aver pazienza, e nel frattempo sopravvivere come meglio si può. Pure di prossima produzione sembra essere la pillola che cancella i cattivi ricordi, sviluppata in ambito militare dai soliti americani, preoccupati dai contraccolpi emotivi che le loro guerre «umanitarie» hanno sul morale degli ex soldati. La chimica ci salverà! Ovvero: chi ci salverà dalla chimica? Già sento l’obiezione dello Spettro di Treviri: «Ma il problema è poi la chimica?».

Ecco un altro esempio di come l’impotenza sociale e concettuale di cui parlo può esprimersi ai più alti livelli della nostra cultura: «La scienza», sosteneva il Nobel per la fisica Richard Feynman, «non ha uno scopo, diversamente dalla ricerca ingegneristica. I nostri maggiori progressi si devono a scienziati che non puntavano all’utilità ma al divertimento, alla curiosità, al desiderio di capire» (16). Tutte umanissime aspirazioni che il Capitale ha imparato a sfruttare al meglio. Come disse una volta Adorno, «prolungate, le linee conducono all’intreccio sociale», e «l’intreccio sociale» diventa sempre più ostile all’uomo, o meglio, a ciò che ne residua.

I cosiddetti “neoluddisti” accusano le persone che usano acriticamente e con entusiasmo le “tecnologie intelligenti” di essere «schiavi della tecnologia», ricevendone in cambio l’accusa di essere «dei perdenti» che non riescono a tenere il passo delle innovazioni; in realtà siamo tutti schiavi del rapporto sociale capitalistico, schiavi dell’economia orientata con assoluta – vitale – necessità al profitto, e in questo senso siamo tutti, “passatisti” e “servi sciocchi” della tecnologia, dei perdenti. Approcciare il problema in termini di “uso e consumo responsabile delle tecnologie” versus “cretinismo tecnologico” non ci fa compiere un solo passo nella giusta direzione. Dirimente è, sotto questo aspetto, cogliere la sostanza sociale della tecnoscienza, il suo essere Capitale all’ennesima potenza, e non qualcosa che quest’ultimo domina giungendo dall’esterno, impedendole una libertà di iniziativa che altrimenti essa avrebbe. Nulla è esterno al Moloch, nemmeno il corpo (soma, mente e psiche) ad alta composizione organica degli individui che hanno la ventura di vivere in questi tecnologici tempi. Come scrive Thomas L. Friedman nel suo ultimo e “rassicurante” saggio (Thank you for being late), «I tempi di reazione dell’umanità sono più rapidi: ci vogliono ora solo 10-15 anni per abituarci al tipo di cambiamenti tecnologici che un tempo venivano assorbiti nel corso di un paio di generazioni». Cosa deve avvenire nel corpo umano, sempre concepito nella sua totalità psicosomatica, per rendere possibile questa accelerazione nel processo di adattamento ai mutamenti tecnologici? E poi, chi non dovesse farcela ad adattarsi? Qui corre in aiuto Darwin: «Sono affari suoi!». Ovvero: «È la selezione sociale per adattamento, bellezza!». Comunque sia, Friedman scrive che in futuro «tutto andrà meglio»; peccato che lo dicesse anche nel 1999, nel suo peraltro interessante libro Le radici del futuro, salvo esternare pentimenti e autocritiche dopo il fatidico 2008, non appena la Grande Crisi iniziò a lasciare sul terreno morti e feriti chiudendo la stagione della “globalizzazione felice” – per i vincenti . Ma il celebre giornalista del New York Times è un inguaribile ottimista, nonostante «Le tre forze più potenti in atto nel pianeta – il mercato, Madre Natura, e la Legge di Moore (17) – stanno aumentando tutte, davvero in fretta, e tutte contemporaneamente». Sarebbe inutile spiegargli che la forza più potente in atto nel pianeta si chiama Capitale. D’altra parte chi scrive non è in grado di convincere chicchessia, figuriamoci un luminare della Scienza Sociale!

Scriveva Antoine E. Buret nel suo Corso di economia politica del 1842: «La miseria viene non tanto dagli uomini, quanto dalla potenza delle cose». Marx poi “scoprì” che la «potenza delle cose» non è in realtà che la potenza del Capitale. Insomma, più che sull’Internet delle cose sarebbe più interessante, e certamente assai più rivoluzionario, riflettere intorno all’uomo ridotto e trattato come cosa, come preziosa risorsa economica tanto sul versante della produzione (uomo-lavoratore, «capitale umano»), quanto da quello del consumo (uomo-consumatore).

Per il Capitale il mondo non è rotondo, come pensavano molti anticapitalisti del XIX secolo e della prima metà del XX, i quali confidavano nella fine del capitalismo una volta che esso si fosse impadronito dell’intero pianeta (18); per il Moloch che ci domina il mondo ha la forma e le dimensioni della sua inappagabile sete di profitti. Il Capitale produce continuamente, sempre di nuovo, il suo mondo, un mondo dai contorni potenzialmente illimitati, e i cui confini non vanno considerati in termini fisico-spaziali, ma squisitamente sociali (direi esistenziali, anche per civettare con la filosofia); e qui alludo anche ai meccanismi che informano il processo di accumulazione, i quali determinano, in ultima analisi, i periodi di espansione e i periodi di crisi, con ciò che ne segue sul terreno delle contraddizioni sociali. La tecnoscienza, che all’occhio comune appare socialmente neutra (salvo quando espelle capacità lavorativa dalle imprese e dagli uffici), è lo strumento che più di ogni altro rende possibile la creazione di “nuovo mondo”, ossia dello spazio di profittabilità per l’investimento capitalistico.

È cosa arcinota: più un’impresa di qualsiasi genere o un Paese investono in ricerca scientifica (teorica e applicata), e più essi si avvantaggiano nella competizione capitalistica con le altre imprese o con gli altri Paesi. Come già detto, in questo senso preciso è fondato parlare oggi di una scienza capitalistica: tutte le scoperte scientifiche e tutte le applicazioni tecnologiche di esse 1. sono rese possibili dal vigente regime sociale e 2. lo rafforzano sul piano economico, politico, militare e ideologico. Tutto questo, ovviamente e come abbiamo visto nel caso di Richard Feynman, alle spalle della coscienza che i singoli scienziati hanno della loro funzione sociale: è chiaro che essi credono, in ottima fede, di lavorare «per il bene dell’umanità». La tesi che sostiene il carattere essenzialmente neutrale, sul terreno del conflitto di classe, della ricerca scientifica è una mistificazione ideologica che la teoria critica della società ha sempre cercato di mettere a nudo.

Scrive Marco Minghetti sul Sole 24 Ore: «I tecnoentusiasti rivoluzionari sono il contraltare dei neoluddisti reazionari. Fra i due tipi umani tuttavia ritengo i secondi di gran lunga più pericolosi, perché unicamente regressivi e distruttivi, oltreché espressione di un establishment ultraconservatore: i primi al massimo sono ingenui, anche se non va mai dimenticato che i confini fra utopia immaginata e distopia reale sono spesso labili. Ed è proprio qui che i neoluddisti sono abilissimi: nel dare vita ai fantasmi collegati a minacce (che, sia chiaro, lo ripeto, certamente hanno un fondamento) di un futuro distopico in cui Internet diviene di volta in volta il contraltare contemporaneo del Grande Fratello orwelliano; del Vaso di Pandora fonte di calamità e catastrofi; del Peccato Capitale e di tutti i Vizi e le Perversioni;  di ogni genere di Follia, dalla Depressione alla Schizofrenia passando per le forme più smodate di Narcisismo». A mio modesto avviso, il «Peccato Capitale» si chiama Capitale, e non è affatto un Peccato, né la fonte «di tutti i Vizi e le Perversioni»: si tratta piuttosto di un “semplice” rapporto sociale, il quale sta a fondamento della situazione calamitosa e catastrofica che ci tocca vivere. Ma questa è un mia personalissima opinione, che naturalmente non può trovare alcun consenso da parte di chi propugna l’idea – l’ideologia – di un Capitalismo economicamente ed eticamente sostenibile/responsabile.

Leggo su un quotidiano (Il Tirreno): «Le lamentele sui computer e la tecnologia in genere oggi sono molto comuni, il che naturalmente non è lo stesso di una resistenza politica organizzata. A organizzarsi in qualche caso sono intellettuali ed esperti, però. Come Noam Chomsky, Steve Wozniak e Stephen Hawking, firmatari di una recente lettera sui pericoli dell’intelligenza artificiale. Neo-luddismo? Quando pensatori di formazione così diversa concordano faremmo bene ad ascoltarli. Credo che ci siano reali preoccupazioni nel lungo termine, e ciò che chiedono è che ci sia una partecipazione meditata e un consenso sociale sui nostri valori collettivi, di esseri umani. Si giunge così a uno dei miei punti: la tecnologia non è una qualche forza malevola esterna a noi stessi, a cui dobbiamo cedere responsabilità e controllo. È ciò che ne facciamo, ed è modellata dalle istituzioni e dalle relazioni di potere che noi creiamo. Ciò di cui abbiamo bisogno è più responsabilità, più partecipazione, più processi decisionali etici – non “meno tecnologia”». Per me si tratta invece di riflettere non solo sull’uso (capitalistico) della tecnologia, ma sulla sua stessa natura sociale, e ciò in intimo rapporto con le «relazioni di potere che noi creiamo».

In diversi scritti dedicati alla concezione feticistica della tecnologia ho cercato di affermare, seguendo come mi è possibile le buone orme di Marx, che quando analizziamo le più recenti rivoluzioni tecno-scientifiche non dobbiamo mai dimenticare la natura capitalistica di tali rivoluzioni: è infatti il Capitale che le rende possibili per soddisfare una sua vitale necessità (creare plusvalore), e dunque esso le promuove con cieca determinazione, senza cioè badare in anticipo ai possibili “risvolti negativi”. So bene che esprimendomi in questo modo mi espongo alla critica di chi potrebbe individuare nelle mie parole una personalizzazione (il Capitale che agisce secondo sue esigenze e secondo una sua razionalità, una sua intelligenza) di relazioni sociali impersonali e di una serie quasi infinita di prassi economiche; in realtà cerco solo di sintetizzare una lunga “filiera” di concetti che non afferiscono al solo momento economico. In ogni caso la metafora del Moloch, della Cosa (di questo mondo!), della marxiana potenza sociale che domina uomini e cose, va considerata, a mio avviso, più che adeguata a esprimere il risultato finale (che nessuno ha il potere di predeterminare razionalmente) di una complessa dialettica sociale. Chiamo Capitale le «relazioni di potere che noi creiamo».

Ebbene, criticando le insulse fantasticherie di chi paventa il dominio dell’Intelligenza Artificiale sull’uomo, come se essa non fosse Capitale alla più alta «composizione organica», Capitale all’ennesima potenza, ho inteso dire che non sono le macchine intelligenti che ci hanno dichiarato guerra (che ci rendono più produttivi, che ci rendono obsoleti, che ci controllano ovunque e comunque, ecc.), ma che sono piuttosto i rapporti sociali capitalistici che ormai da due secoli (anno più, anno meno) hanno dichiarato guerra all’umanità e alla natura.

Insomma, ai miei occhi «tecnoentusiasti rivoluzionari», «neoluddisti reazionari» e «progressisti responsabili e pragmatici» esprimono in modo diverso un’identica impotenza sociale e concettuale, proprio perché non afferrano con il pensiero la sostanza storico-sociale dei problemi posti all’umanità dalla tecnoscienza del XXI secolo.

 

5.

Fin qui ci siamo mossi sul terreno concettuale rubricabile come uso capitalistico delle macchine; si tratta adesso di fare un passo in avanti e di chiederci se ha senso parlare di un uso umano della tecnologia. La mia risposta è positiva; si tratta allora di capire di quale tecnologia si tratta: intendo forse alludere a un uso umano della tecnologia prodotta in regime capitalistico?

Intanto chiariamo cosa intendo per uso umano della tecnologia, e in generale della tecnoscienza. A mio avviso, e come ho già sostenuto nella prima parte di questo scritto, è umana, in un’accezione non banale e iperinflazionata dell’aggettivo, la Comunità che non conosce nessuna forma di divisione classista degli individui, nessuna divisione sociale del lavoro (almeno nella forma conosciuta nelle società classiste che si sono fin qui succedute), nessuna forma di coazione – economica, politica, ideologica, psicologica. Naturalmente sto parlando di una società che si è lasciata abbondantemente alle spalle il Capitale in ogni sua espressione economico-sociale: denaro, merce, mercato, lavoro salariato. Ebbene, solo nel contesto di una simile dimensione esistenziale tutte le attività degli uomini acquistano una natura autenticamente umana, né potrebbe essere diversamente, perché così come non si dà vera vita umana nella falsa, per mutuare Adorno, non sono neanche concepibili prassi disumane in una Comunità che fosse realmente umana. L’umanizzazione dell’intera esistenza umana, a partire dalle attività che rendono possibile la stessa esistenza “materiale” – peraltro inscindibile da quella “spirituale” – degli individui, conferisce ovviamente piena essenza umana anche alla scienza e alla tecnica.  Ma di quale scienza e di quale tecnica sto parlando? Su questa domanda ritornerò tra un attimo.

Continua. Forse.


Note
(1) Ne cito solo alcuni: Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico; Salvare il pianeta! Ma da quale catastrofe esattamente?; Aspettando il giorno del giudizio; Capitalismo e termodinamica. L’entropia (forse) ci salverà; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio.
(2) Di solito preferisco non adopero il termine “classico” Comunismo per non dare subito adito a odiosi equivoci, dal momento che per me 99 volte su 100 (e voglio essere di larga manica) nella storiografia e nella politologia con la parola Comunismo si allude a teorie e a prassi (pensiamo allo stalinismo in Unione Sovietica o al maoismo in Cina) che a mio avviso non solo non hanno nulla a che vedere con il progetto comunista, ma ne sono piuttosto l’esatto opposto, essendo ad esempio lo stalinismo e il maoismo non più che varianti nazionali e ideologiche del capitalismo mondiale. D’altra parte il concetto di Comunità Umana ingloba quello di Comunismo (nell’accezione marxiana del termine), il quale esprime immediatamente il carattere “economico” di una Comunità priva di classi sociali: la comunanza della “ricchezza sociale”. Il Comunismo come fondamento materiale di una Comunità umana: come volevasi dire!
(3) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 44, Einaudi, 1996.
(4) Lettera di Marx ad Engels del 18 giugno 1862, in Lettere sul Capitale, p. 44, Laterza, 1971.
(5) Il mondo come prassi sociale umana. Sulla cosiddetta concezione materialistica; Bisogno ontologico e punto di vista umano.
(6) «Lo sviluppo della prima forma di scrittura della storia, quella sumera, è noto con buona precisione. Per millenni, i popoli della zona avevano inciso nell’argilla solidificata alcune semplici forme, utili ad esempio per il conteggio delle pecore o delle qualità di grano. Verso la fine del IV millennio a. C., alcuni progressi nei metodi contabili e la standardizzazione dei segni e delle tecniche portarono rapidamente alla nascita di una vera e propria scrittura» (J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, p. 169, Einaudi, 2000).
(7) Vedi il post Qualche considerazione critica sull’enciclica francescana.
(8) H. Grossmann, Le basi sociali della filosofia meccanicistica e la manifattura, 1935, in A. V., Manifattura, società borghese, ideologia, pp. 72-75, Savelli, 1978.
(9) Ibidem, p. 94. «Tutte le contraddizioni qui illustrate in cui cade Borkenau non sono casuali, ma sono il risultato inevitabile del suo metodo, che assume come punto di partenza per l’analisi delle ideologie le lotte di partito. Con questo metodo egli vuole cogliere la legge fondamentale di una struttura architettonica spiegando la struttura del sesto piano a partire dal quinto, senza curarsi delle fondamenta e dei piani più bassi. Solo lo storico di oggi che guardi indietro può trarre dal materiale storico disponibile, attraverso un’analisi metodica delle forze produttive e dei rapporti di produzione dell’epoca, la totalità della sua situazione sociale, e solo a partire da questa ricostruzione complessiva può comprendere correttamente i singoli partiti e pensatori di questo periodo, ad esempio il programma di Machiavelli per l’unificazione d’Italia» (p. 128).
(10) K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 63, Newton, 1976. La tecnoscienza ha il potere di allungare il segmento di giornata lavorativa dedicata alla generazione di plusvalore, ossia di valore-lavoro non retribuito con il salario, a parità di giornata di lavoro o addirittura con una giornata lavorativa più corta. La giornata di lavoro perde i suoi vecchi connotati assoluti e diviene una grandezza relativa. Il Capitale realizza questa “magia” rendendo più produttiva la capacità lavorativa, in modo che essa produca di più (e possibilmente meglio!) nel minor tempo possibile. Accorciamento della giornata di lavoro (ad esempio, da otto e sei ore); allungamento del tempo dedicato al pluslavoro a parità di giornata lavorativa); aumento della produttività; espulsione di capacità lavorativa resa pletorica dalla tecnologia: tutti questi fenomeni sono l’espressione di uno stesso processo sociale.
(11) S. Dell’Orco, Per il 50° anniversario della pubblicazione di Dialettica Negativa, Sinistrainrete.
(12) G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, pp. 176-177, Garzanti, 1961.
(13) In realtà, il «socialismo reale» (in Russia, in Cina, ovunque), lungi dall’essere «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo» non era che un capitalismo di Stato (peraltro tutt’altro che “puro”!) a forte vocazione imperialistica, soprattutto sul versante “Sovietico”. Nel mio studio dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) provo a chiarire le cause e la fenomenologia della controrivoluzione che annientò totalmente le ancora fragili, limitate e contraddittorie conquiste rivoluzionarie rese possibili dal «Grande Azzardo» architettato dal Partito di Lenin.
(14) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo. p. 44. 
(15) Nel corso di un’intervista rilasciata a un programma televisivo (La gabbia, 11 gennaio 2017), Ernesto Galli della Loggia ha sostenuto che a causa della globalizzazione, delle migrazioni di massa, dell’ascesa degli ex Paesi in via di sviluppo (Cina e India in primis) e della disoccupazione creata dalle nuove tecnologie “intelligenti” in ogni settore economico (basti pensare ai licenziamenti in corso da anni nel sistema bancario americano ed europeo), l’Occidente deve al più presto escogitare un nuovo modello di democrazia rappresentativa. Infatti, il vecchio modello, reso possibile dal fatto che le élites potevano comprare il consenso delle masse attraverso la spesa pubblica, non è più praticabile alla fine del lungo ciclo che ha visto i Paesi occidentali – e il Giappone – detenere la fetta di gran lunga più grossa della ricchezza mondiale. La distruzione e la proletarizzazione del ceto medio in atto in Occidente è forse l’aspetto più eclatante e minaccioso del fenomeno appena accennato: corriamo il rischio, conclude il Nostro, che l’ondata di miseria sociale che viene da fuori, soprattutto dall’Africa, possa saldarsi con l’ondata di povertà che si alza dentro i nostri confini, a causa di una sperequazione sociale sempre più evidente. «L’Occidente deve ripensare la democrazia». Qui voglio sottolineare un solo punto della dichiarazione del celebre editorialista del Corriere della Sera, il quale la dice lunga sulla natura sociale della nostra democrazia: una volta le élites potevano comprare il consenso delle masse attraverso la spesa pubblica. Soprattutto il Mezzogiorno italiano sa qualcosa di questo virtuoso scambio.
(16) R. Feynman, Le battute memorabili di Feynman, Adelphi, 2017.
(17) Come postulano Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson nel loro libro The Second Machine Age, la Legge di Moore – la teoria secondo la quale velocità e potenza dei microchip raddoppiano ogni due anni – sta accrescendo la potenza di software, computer e robot con tale inesorabilità che ormai essi sostituiscono un numero crescente di posti di lavoro tradizionali da colletti bianchi e blu, producendone di continuo di nuovi, che richiedono tutti competenze sempre superiori. La rapida crescita dell’anidride carbonica nella nostra atmosfera, il degrado ambientale e la deforestazione provocati dall’aumento della popolazione sulla Terra — l’unica casa che abbiamo — stanno destabilizzando ancora più rapidamente gli ecosistemi di Madre Natura» (La Repubblica, 12 novembre 2014). Come si vede, le tre potenti forze di cui parla Friedman hanno una sola disumana sostanza: quella capitalistica.
(18) «Ma la terra è rotonda, il mondo degli uomini è limitato. Il riconoscimento di questo fatto, che quattro secoli fa ha accompagnato fin dall’inizio lo sviluppo del capitalismo, ora sta suggellando la sua prossima fine» (A. Pannekoek, I consigli operai, 1946, in Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, p. 116, Feltrinelli, 1970). La concezione che pensava nei termini di un limite fisico (la dimensione geoeconomica del mercato mondiale) la fine del Capitalismo è stata clamorosamente smentita dal processo reale dell’accumulazione capitalistica. Henrik Grossmann ha dato un importante contributo alla critica di quella concezione – vedi soprattutto il suo lavoro del 1928 Il crollo del capitalismo, Jaca Book, 1977.
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