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INFLAZIONE: IL TEMPO DEGLI AVVOLTOI!
Andrea Mazzalai
Come abbiamo spesso sottolineato in passato, come ha scritto lo storico Nial Ferguson, nel suo libro Soldi e Potere "l'esperienza del venir meno al debito mediante l'inflazione è per molti aspetti universale "....oserei dire forse storicamente ineccepibile.
Come ha ricordato in una recente intervista al Corriere della Sera nel dicembre dello scorso anno, l'attuale numero due di Morgan Stanley in Europa, Domenico Siniscalco, ricordato anche come ministro dell'economia, l' inflazione..."sottotraccia, è la soluzione a cui molti pensano...":
Dunque niente ondata internazionale di inflazione? «E' sempre una soluzione, quando c' è un' enorme massa di debito pubblico o privato. Sarebbe un rimedio pessimo, ma forse meno degli altri due possibili: l' insolvenza o il ricorso a prelievi di fatto forzosi. Sottotraccia, è la soluzione a cui molti pensano, ma finché non riprenderà la domanda nelle nostre economie e la disoccupazione non calerà, un rapido aumento dei prezzi nel 2010 mi pare difficile. Senza domanda non c' è inflazione».
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Alcune ipotesi contro-fattuali sulla presente crisi[1]
Luigi Pasinetti
Investimenti, profitti, crescita e distribuzione dei redditi
In un ormai famoso articolo nella «Review of Economic Studies» del 1956, Nicholas Kaldor aveva presentato una rassegna delle teorie della distribuzione del reddito.
Cominciava dai classici (Adam Smith e soprattutto David Ricardo), per poi proseguire con Marx, e quindi arrivare ai marginalisti neoclassici (con una lunga sintesi che includeva Walras/Wicksell/Mar-shall/Wicksteed). Ci si sarebbe aspettato che terminasse qui. Ma Kaldor aggiunse a questo punto anche una teoria kaleckiana basata sul grado di monopolio e soprattutto, a se stante e con inaspettata evidenza, una teoria «keynesiana» della distribuzione del reddito. Ciò destò sorpresa, perché nella Teoria Generale di Keynes (1936) non si trova alcuna esplicita formulazione di una teoria della distribuzione del reddito. In effetti, Kaldor aveva concepito una teoria di stampo keynesiano sì, ma nuova ed originale, che combinava e legava il concetto classico della «domanda effettiva», dovuta per la verità a Malthus più che a Ricardo, con le esigenze delle condizioni per il conseguimento della piena occupazione, cioè coi temi di cui si era essenzialmente occupato Keynes.
Il ragionamento di Kaldor era molto semplice, ma ricolmo di radicali conseguenze. Metteva in relazione la distribuzione del reddito tra profitti e salari con le esigenze della effettuazione di quegli investimenti che – incorporando il progresso tecnico e la disponibilità dell’aumento della popolazione lavoratrice – sono necessari per mantenere la piena occupazione in un processo di crescita economica: con questo, introduceva la distribuzione del reddito all’interno di un contesto teorico «keynesiano».
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Lettera a un giovane morto invano per una pace che non ci sarà
Restiamo Umani
Vik da Gaza city
Caro Vittorio,
da uno dei tanti inutili uffici pace messi su nei comuni d’Italia (per salvarsi la coscienza e continuare intrighi e politica di piccolo cabotaggio), l’amica Ornella ha fatto spuntare oggi sul video del mio PC, un comunicato di Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace, nel quale si annuncia che «il 29° Seminario nazionale» di tale organizzazione «che si apre oggi ad Assisi sarà dedicato a Vittorio Arrigoni». Chissà, ti dedicheranno pure strade, scuole, parchi!
Che ipocrisia!
Trovo indecente, subdola, viperina la prontezza con cui si gioca d’anticipo su ogni possibile concorrente e ci si appropria della tua morte. La lobby pacifista italiana ti vuole “santino pacifista subito”! Guai se, ragionando sulla tua uccisione, si uscisse dal piagnisteo! La spiegazione da far circolare nel “mercatino della pace” è una sola ed è già pronta: Lotti ha detto che la tua uccisione è «assurda». E chiude così qualsiasi interrogativo più scomodo.
Rassegniamoci, dunque?
È una buona, consolidata, abitudine italiota non andare a fondo sui “fatti di sangue”.
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Keynes e l’inelasticità degli investimenti
Beneath Surface
La domanda relativa a come e perché gli investimenti non reagiscano come si vorrebbe al Quantitative Easing e alla politica monetaria in genere ricorre con crescente frequenza. Con l’aiuto di Keynes cerchiamo di scoprire qualcosa in più.
Tanto i classici quanto Keynes ritenevano che un fattore determinante il livello degli investimenti fosse il tasso di interesse. Keynes però rimarcò anche che un ruolo altrettanto e più fondamentale la occupa la redditività attesa degli investimenti: se il loro rendimento è basso malgrado tassi di interesse bassi, allora potrebbe essere considerato, a livello aziendale, non profittevole indebitarsi per avviare detto investimento (vds nota 1).
Keynes dedicò il cap.XII del libro quarto della Teoria Generale al ruolo delle aspettative di lungo termine e all’efficienza del capitale in particolare, pur “perdendosi” in una lunga tirata sul deludente stato(all’epoca sua) della fiducia delle imprese nella stabilità delle proprie previsioni, minate dalla speculazione borsistica sui titoli aziendali (colpa la separazione fra proprietà e gestione, lo abbiamo visto con Schumpeter) trainata dagli animal spirits di cui ci aveva già parlato Forchielli.
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Fu davvero BlackRock a ispirare il "cambio di scena" del 2011 in Italia?
Maria Grazia Bruzzone
La RocciaNera negli opachi intrecci fra fondi di investimento e megabanche che si stanno comprando tutto
Il nuovo Limes su Chi ha paura del Califfo? è in edicola, puntualissimo e subito ripreso da tv e social media. Meno attenzione è stata data al numero precedente dedicato a Moneta e Impero (l’impero del dollaro, naturalmente) che proponeva, fra gli altri, un pregevole pezzo su “BlackRock, il Moloch della finanza globale”: un “fondo di fondi” americano con 30mila portafogli e $4,100 miliardi di asset ($4,652 secondo l’ultimo dato SEC, dic 2014) che non solo non ha rivali al mondo, ma è una delle 4-5 ‘istituzioni’ che ricorrono tra i maggiori azionisti delle principali megabanche americane, come vedremo. E non solo di queste: era anche il maggior azionista di DeutscheBank - la banca tedesca che nel 2011 ritirò per prima i suoi capitali investiti in titoli italiani, spingendo il nostro paese sull’orlo del ‘baratro’ e nelle braccia del governo Monti - rivela Limes – nonché grande azionista delle prime banche italiane, e di altre imprese. Sull’ influenza politica della RocciaNera non solo a Wall Street ma nella stessa politica di Washington insiste del resto l’articolo (di Germano Dottori, cultore di studi strategici alla Luiss).
Ma chi è, cos’è BlackRock, a cui l 'Economist ha dedicato una copertina? Come si colloca nel paesaggio finanziario globale?
IL CONTESTO. E’ quello della finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia.
Il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil globale dal 1970 al 2010, raggiungendo i $280mila miliardi – solo il 25% del quale legato agli scambi di merci. Mentre il valore nozionale dei ‘derivati’ negoziati fuori dalle Borse ( Over The Counter) a fine giugno 2013 aveva raggiunto i 693mila miliardi di dollari. Una gran parte sono legati al mercato delle valute. E al Foreign Exchange Market o Forex, si scambiano mediamente 1.900 miliardi di dollari al giorno. Fin qui Limes.
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La filosofia politica di Giorgio Agamben1
Concetti, metodi e problemi
di Jacopo D’Alonzo
0. Considerazioni preliminari
Agamben è divenuto negli ultimi anni uno dei filosofi italiani più in vista a livello internazionale2. Il progetto Homo sacer (HS), inaugurato nel 1995 con la pubblicazione del volume omonimo, si può senz’altro considerare come la ricerca che ha riscosso maggior successo di pubblico3. Le ra-gioni sono da ricercare anzitutto nello stile: conciso ed essenziale nell’apparato bibliografico ma allo stesso tempo ricco di riferimenti eruditi – che ne costituiscono spesso il marchio di fabbrica – illustrati attraverso un vocabolario minimale e una prosa piana. Molto più vicino alla critica letteraria che alla saggistica accademica, ogni libro di Agamben si rivolge ad un pubblico ben più vasto di quello dei soli specialisti.
A ciò si aggiunga l’attenzione prestata da Agamben ad alcune tematiche di stringente attualità: per esempio il significato delle misure d’emergenza, della decretazione d’urgenza, delle carceri e dei campi d’internamento per immigrati, il confine sempre più labile fra cittadino e potenziale criminale, la costante minaccia del terrorismo, e ancora la crisi della rappresentatività, della sovranità nazionale, oppure la centralità della finanza, dell’economia, il ricatto del debito, il valore politico assegnato a questioni che sembrano esulare dall’orizzonte della cosa pubblica (fine-vita, suicidio assistito, salute pubblica, etc.). L’opera di Agamben, forse più di altre, sembra cogliere il cuore problematico del nostro presente.
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La critica dell’economia politica, ieri e oggi*
di Sergio Cesaratto
1. A mo’ di premessa: la parabola dell’economia critica
Nel lontano 1973 due valorosi economisti sraffiani aprivano un (allora) influente articolo su marxismo ed economia con la seguente ottimistica affermazione: «[c]rediamo non si possa mettere in dubbio che la teoria economica, che ha dominato praticamente incontrastata per quasi un secolo, attraversa oggi una crisi profonda»1. Purtroppo questa veniva sostenuto proprio nel mentre nelle università degli Stati Uniti si consolidava la contro-rivoluzione monetarista che avrebbe rapidamente spazzato via quella keynesiana dei primi due decenni del secondo dopoguerra, preparando culturalmente l’avvento alla fine del decennio di Reagan e Thatcher. Naturalmente il clima in Italia era ancora ben diverso. Attraverso la fondazione della Facoltà di economia di Modena e l’esperienza delle 150 ore, la critica dell’economia politica, profondamente influenzata dall’opera di Sraffa, si fondeva, per esempio, con le esperienze operaie e sindacali più avanzate2. Di lì a pochissimo le cose sarebbero evolute in direzioni ben diverse anche in Italia.
Al formidabile impatto che il lavoro di Sraffa ebbe negli anni caldi del movimento operaio (e studentesco) contribuì da un lato, com’è evidente, la domanda intellettuale da parte dello stesso movimento di un’alternativa alla teoria economica dominante, ma anche l’eco dello scossone che il famoso “dibattito fra le due Cambridge” diede alla teoria economica.
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Lettera aperta a Contropiano, su green pass e dintorni
di Roberto Sassi - Nico Maccentelli - Valerio Evangelisti
Seguiamo Contropiano, ed occasionalmente vi collaboriamo, fin dalle sue origini, lo riteniamo un prezioso strumento di controinformazione e formazione politica, per questo ci siamo presi il tempo per riflettere e confrontarci prima di scrivere questa lettera.
Riteniamo profondamente sbagliato e dannoso l’approccio con cui è stato affrontato il problema del green pass ed in generale dell’emergenza pandemica, sentiamo l’urgenza di aprire un dibattito sul tema che consenta di rettificare queste posizioni.
Il vaccino senza alternative?
I compagni che difendono o tollerano il green pass partono da un assunto mille volte ripetuto dal governo: la vaccinazione universale è l’unico modo per sconfiggere il virus. Un’affermazione totalmente infondata. Sono molti i modi per affrontare la malattia, anche prevenendo il ricovero ospedaliero: ci sono decine di farmaci, spesso a basso costo, che hanno avuto ottimi risultati, anche nella cura a domicilio. In Cina (dove la libertà di scelta terapeutica è a fondamento del sistema sanitario fin dalle sue origini) è stata utilizzata con successo anche la medicina tradizionale, bloccando le ondate epidemiche prima ancora di disporre del vaccino.
Eppure, non appena qualcuno si alza a sostenere la possibilità di guarigione per altra via che non sia il vaccino, incorre in scomuniche, minacce, insulti.
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L'Euro preso sul serio
di Mimmo Porcaro
La questione dell’uscita dall’euro non può più essere esorcizzata. E così, opportunamente, Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo (due studiosi delle cui analisi ci siamo sempre giovati) hanno discusso in un denso articolo le tesi di Alberto Bagnai, che della moneta unica è lucido e tenace avversario. L’hanno fatto senza esorcismi, appunto, e senza eccessive semplificazioni (anche se, per dirne una, né dal libro dal blog di Bagnai si può dedurre che questi creda che la svalutazione risolve tutto o quasi), ma anche senza convincere chi, come noi, vede nelle tesi di Bagnai un importante contributo alla definizione di una strategia che liberi i lavoratori ed il paese dal giogo che da tempo è stato loro imposto. Vediamo meglio.
Bellofiore e Garibaldo ritengono che Bagnai ben descriva gli squilibri tra le economie dell’Unione europea ed il ruolo in essi giocato dalle bilance dei pagamenti, ma non credono che siano questi squilibri ad aver generato la crisi europea – che è piuttosto una conseguenza della crisi del capitalismo anglosassone e quindi del modello neoliberista in quanto tale – né credono che il recupero della sovranità monetaria e dunque della possibilità di svalutare possano risolvere i problemi dell’innovazione produttiva e della redistribuzione del reddito. Anzi: come l’esperienza italiana dimostra la sovranità monetaria e la svalutazione possono ben essere compatibili con politiche economiche pro-business; ed in più le svalutazioni di oggi (in un ambiente mondiale assai turbolento, conflittuale e segnato dalle incognite derivanti dalla crisi di un intero modello economico) possono avere esiti del tutto imprevedibili.
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BCE versus Costituzione italiana
di Gaetano Bucci*
Le politiche “neoliberiste” imperniate sul mix stabilità istituzionale - stabilità economico-finanziaria stanno ormai compromettendo le forme del vivere civile, la coesione sociale e gli stessi livelli di sicurezza dell’unità nazionale. Sussiste una correlazione stretta tra il declino della democrazia e la crescita delle diseguaglianze e, più in generale, tra la crisi del costituzionalismo e l’involuzione delle forme - dirette e indirette - di redistribuzione del reddito. Questa situazione di decadenza generale è stata provocata dalla disapplicazione del nucleo profondo della Costituzione, ossia dei Principi fondamentali e, in specie, di quelli contenuti negli articoli 1 e 3. La Costituzione è, infatti, la forma giuridica di un patto di convivenza sociale, la cui vigenza dipende dall’esistenza di un congruo equilibrio nei rapporti di forza tra i soggetti sociali in conflitto, che - nel corso dell’ultimo trentennio - è stato manomesso duramente.
L’epicentro della regressione subita dal nostro Paese è, tuttavia, ben oltre i confini nazionali e, specificamente, negli sconvolgimenti della globalizzazione trascinata dai mercati finanziari e coadiuvata da politiche economiche che, sin dalla metà degli anni Settanta, hanno incentivato, sulle due sponde dell’Atlantico, il varo di indirizzi legislativi volti a rimuovere i vincoli alla circolazione dei capitali, a promuovere le attività speculative delle banche e la formazione di una rete inestricabile di dipendenze reciproche tra i sistemi industriali e finanziari dei diversi Paesi, in cui è stata prodotta una massa di strumenti derivati complessi e sempre meno tracciabili.
L’Italia e l’Europa sono entrate in una fase estremamente critica, che pone a rischio i risultati di mezzo secolo di storia. I dati economici dell’ultimo decennio dimostrano come l’andamento del Pil sia caratterizzato da una stagnazione ininterrotta, gli indicatori fondamentali della produttività (innovazione tecnologica; ricerca; istruzione; efficienza delle istituzioni) risultino in picchiata e l’ammontare del debito pubblico ci esponga, costantemente, agli assalti distruttivi della speculazione.
Il trattato di Maastricht
Il meccanismo di funzionamento della moneta unica ha impedito l’utilizzo di due strumenti essenziali di intervento pubblico, ossia la possibilità di determinare il livello e la composizione della spesa pubblica e quella di scegliere le forme più idonee di tassazione e, dunque, di composizione fiscale [Pivetti p. 4].
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Il vincolo estero è irrilevante, anzi fondamentale
Sergio Cesaratto
Questo è il primo post che fa seguito alla promessa del libro di approfondirne parti, discutere critiche e quant’altro. Intenderei cominciare con la vexata quaestio del vincolo estero discussa nella quarta lezione del libro. Lo faccio perché è politicamente oltre che economicamente centrale.
La questione è posta semplicemente: “E’ la piena sovranità monetaria, vale a dire il possesso di una banca centrale di emissione di una valuta non convertibile, condizione necessaria e sufficiente per l’implementazione di politiche di pieno impiego?”. Questa è la tesi in genere sostenuta dagli esponenti e sostenitori della Modern Monetary Theory (MMT).
La tesi opposta è quella che vede nell’insorgere di squilibri nei conti esteri l’ostacolo principale alla conduzione di politiche di piena occupazione, problema a fronte del quale la piena sovranità monetaria può solo limitatamente essere d’aiuto. Per vincolo estero si intende l’insorgere di squilibri commerciali (e in generale di partite correnti) prima che le politiche fiscali e monetarie abbiano condotto l’economia in piena occupazione. Un MMT, Philip Pilkington (2013), definisce questa tradizione “kaldoriana” dal nome del grande economista eterodosso Nicholas Kaldor (1908-1986). Questo secondo punto di vista è spesso ricondotto anche all’economista britannico Anthony Thirlwall.
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Catastrofe o rivoluzione1
di Emiliano Brancaccio
L’ex capo economista del Fondo monetario internazionale ha sostenuto che per scongiurare una futura “catastrofe” serve una “rivoluzione” keynesiana della politica economica. La sua tesi viene qui sottoposta a esame critico sulla base di un criterio di indagine scientifica del processo storico definito «legge di riproduzione e tendenza del capitale». Da questo metodo di ricerca scaturisce una previsione: la libertà del capitale e la sua tendenza a centralizzarsi in sempre meno mani costituiscono una minaccia per le altre libertà e per le istituzioni liberaldemocratiche del nostro tempo. Dinanzi a una simile prospettiva Keynes non basta, come non basta invocare un reddito. L’unica rivoluzione in grado di scongiurare una catastrofe dei diritti risiede nel recupero e nel rilancio della più forte leva nella storia delle lotte politiche: la pianificazione collettiva, intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato. Una sfida che mette in discussione un’intera architettura di credenze e impone una riflessione a tutti i movimenti di lotta e di emancipazione del nostro tempo, tuttora chiusi nell’angusto recinto di un paradigma liberale già in crisi
Prologo
Per scongiurare una futura “catastrofe” sociale serve una “rivoluzione” della politica economica. Così parlò Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo monetario internazionale, in occasione di un dibattito e un simposio ispirati da un libretto critico a lui dedicato (Blanchard e Brancaccio 2019; Blanchard e Summers 2019; Brancaccio 2020). Che un grande cardinale delle istituzioni economiche mondiali adoperi espressioni così avventuristiche è un fatto inusuale. Ma l’aspetto davvero sorprendente è che tale fatto risale a prima del tracollo causato dal coronavirus. Tanto più dopo la pandemia, allora, diventa urgente cercare di capire se l’evocazione blanchardiana del bivio “catastrofe o rivoluzione” sia mera voce dal sen fuggita o piuttosto segno di svolta di uno spirito del tempo che inizia a muovere da farsa a tragedia. A tale interrogativo è dedicato questo scritto.
A chi intenda cimentarsi nella lettura, sarà utile lanciare un avvertimento. Sebbene intessuto di fili accademici, questo saggio risulterà estraneo alle pratiche discorsive dell’ordinario comunicare scientifico. Qui si cercherà infatti di rinnovare un antico esercizio, eracliteo e materialista: di intendere logos come scienza. Scienza non parziale ma generale, per giunta, quindi inevitabilmente colma di vuoti come un formaggio svizzero. Su questi vuoti, prevediamo, gli specialisti contemporanei avvertiranno insofferenza mentre sarà indulgente l’osservatore avvezzo alla critica e alla crescita della conoscenza (Lakatos e Musgrave 1976). Costui è consapevole che solo una visione generale consente di visualizzare quei vuoti, e quindi crea le premesse per tentare di perimetrarli e superarli.
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L’errore filosofico della decrescita
Antonio Allegra
Sostenere la «qualità» contro la quantità significa proprio solo questo: mantenere intatte determinate condizioni di vita sociale in cui alcuni sono pura quantità, altri qualità.
(Antonio Gramsci, Quaderno 10)
Il libro di Giovanni Mazzetti, dal titolo Critica della decrescita, Edizioni Punto Rosso 2014, benché sia stato scritto da un economista, porta a segno una critica al progetto politico della decrescita che non ricorre ad argomentazioni economiche ma filosofiche. Per essere più precisi, quella di Mazzetti si presenta come una «critica alla prospettiva culturale» dei sostenitori della decrescita (Latouche, Pallante), mettendone in evidenza contraddizioni oggettive e soggettive (intendendo con le prime quelle che sorgono dal confronto con la realtà storica, con le seconde quelle che sorgono dall’interno delle tesi di tale prospettiva). A nostro avviso le prime sono più importanti delle seconde, anche perché sono quelle quantitativamente e qualitativamente più consistenti.
La prima osservazione è di natura metodologica. Poiché, secondo la definizione datane dai suoi sostenitori, la decrescita non è una teoria ma un progetto politico che intende modificare una realtà, Mazzetti sostiene che, per capire cosa sia necessario fare e come cambiare tale realtà, occorre «verificare se, grazie al proprio sistema di orientamento, si è realmente in grado di individuare correttamente dove ci si trova e come [vi] si è giunti». Insomma, siamo sicuri di capire con le nostre categorie interpretative la realtà su cui si vuole intervenire politicamente?
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C'è una nuova superpotenza
di Marco d'Eramo
È nata una nuova superpotenza. Non è la Cina. Non è neanche uno stato sovrano. Non ha eserciti, eppure ci ha appena dimostrato che è capace di piegare anche la nazione che possiede il più devastante arsenale nucleare. Questa nuova superpotenza è un'agenzia di rating, cioè una ditta privata che valuta il livello di rischio rappresentato dall'investire in un'azione, in una valuta, in un'obbligazione. Più basso il voto (il rating), più alto il rischio e quindi più alta deve essere la remunerazione (il rendimento dei Btp per esempio).
Sapevamo già che il posto di lavoro di un insegnante greco, la pensione di un'infermiera spagnola o il ticket sanitario degli italiani dipendeva dai giudizi di queste agenzie, Moody's o Standard & Poor's (S&P's). Ma dubitavamo che potessero soggiogare anche gli orgogliosi Stati uniti, anche la «nuova Roma». E invece ci sbagliavamo.
Quando venerdì sera S&P's ha declassato il debito statunitense dalla tripla A (AAA) a AA+, un'era si è conclusa. Fino a pochissimi anni fa le agenzie di rating erano considerate, a ragione, il braccio armato del Tesoro statunitense nell'arena dell'economia mondiale. Come tali agirono per esempio durante la crisi messicana (1994), prima e durante quella asiatica (1997). Più di recente assecondarono la politica Usa di lasciare briglia sciolta alla bolla immobiliare Usa, dando voti altissimi non solo ai pacchetti finanziari in cui erano confezionati i mutui subprime, ma anche alla banca Lehman Brothers fino a poco prima che fallisse clamorosamente nel settembre 2008, innescando così la grande crisi.
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Strauss-Kahn: ecco la verità
di Giancarlo Marcotti
Sulla vicenda che ha portato in carcere l’ex DG del Fmi, Dominique Strauss-Kahn, ho già pubblicato due articoli.
Nel primo mi limitavo a mettere in dubbio la veridicità della ricostruzione degli avvenimenti, così come riportata da tutti i media mondiali (ma proprio tutti!!!), in altre parole mi chiedevo se Strauss-Kahn da “carnefice” non risultasse esso stesso la vittima predestinata di un perfido complotto.
Nel secondo toglievo ogni punto interrogativo in quanto l’evidenza degli eventi era tale che qualunque persona dotata di un cervello, anche minimamente funzionante, era in grado di giungere alla conclusione che Strauss-Kahn fosse stato fatto oggetto di una delle più barbare azioni persecutorie per motivi che, scrivevamo, “a noi risultano sconosciuti”.
Ora ritorniamo sull’argomento per dissipare anche questi ultimi dubbi: il movente c’è, eccome!
E’ sufficiente leggere l’articolo pubblicato sul giornale inglese Guardian lo scorso 10 febbraio, ecco il link che si riferiva ad un intervento dell’ex DG del Fmi ad un convegno tenutosi a Washington il giorno precedente.
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Idee per una sinistra nazionale e popolare
Ugo Boghetta, Carlo Formenti, Mimmo Porcaro
Quella che segue è la traccia per la discussione dell’assemblea autoconvocata “Per una sinistra nazionale e popolare”che, su iniziativa degli autori, si terrà a Bologna il 15 aprile 2018, presso l’Hotel Allegroitalia, viale Masini 3 / 4, alle ore 10
1
Le elezioni del 4 marzo ci hanno consegnato un quadro politico davvero nuovo. Il disagio, il rancore, la rabbia prodotta dalle politiche liberiste hanno rotto i vecchi equilibri e premiato M5s e Lega, ovvero quei populismi dati frettolosamente già per già spacciati. Tuttavia, la scomposizione e ricomposizione delle forze è solo agli inizi. Qualunque soluzione venga data al rebus della formazione del governo, essa non potrà che acuire i problemi. Un’ improbabile riedizione del patto del Nazareno approfondirebbe il solco tra l’elettorato ed il vecchio sistema politico. Un governo Lega-M5S farebbe esplodere le contraddizioni con Bruxelles, oppure le sposterebbe all’interno del governo e di ciascuno dei due partner. Un qualche governicchio di transizione, premessa di turbolenze future, sarebbe comunque schiacciato tra le urgenze dell’Unione europea e le impazienze popolari. Non c’è soluzione alla “questione italiana” perché nessuna delle forze in campo ha la volontà o la capacità di metter mano all’ormai ineludibile programma di ripubblicizzazione dell’economia e di piena occupazione, e di scontrarsi su questi punti definitivamente con Bruxelles, fino alla rottura. Non il PD né Forza Italia, ovviamente. Ma nemmeno il M5S a guida Di Maio, che ha già rassicurato gli investitori internazionali; e neppure la Lega, che vuol sostituire il liberismo bavarese con quello lombardo. Non si può uscire fruttuosamente dall’Unione europea (posto che lo si voglia) se si riduce il ruolo della politica alla lotta agli sprechi, se si vuole la spesa pubblica per appropriarsene privatamente, se si continua a volere la flat tax, le privatizzazioni, lo stato minimo.
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La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo
di Carlo Vercellone
Lo scopo di quest’articolo è di caratterizzare, nel quadro teorico post-operaista, il senso logico e storico della marxiana legge del valore, nel passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo. In questa prospettiva, l’analisi si svilupperà in tre stadi. Nel primo si proporrà di precisare cosa bisogna intendere per legge del valore/tempo di lavoro e in cosa consiste la sua articolazione alla legge del plusvalore di cui è una variabile dipendente e storicamente determinata. In riferimento a questa articolazione utilizzeremo la nozione di legge del valore/plusvalore. Nel secondo e nel terzo stadio, l’attenzione sarà focalizzata sulle principali dinamiche che spiegano la forza progressiva della legge del valore/plusvalore nel capitalismo industriale, quindi la sua crisi nel capitalismo cognitivo.
1. Due principali concezioni della legge del valore-lavoro
Nella tradizione marxista coabitano, come rileva Negri (1992), due concezioni della teoria del valore. La prima insiste sul problema quantitativo della determinazione della grandezza del valore. Essa considera il tempo di lavoro come il criterio di misura del valore delle merci. E’ quella che chiamiamo la teoria del valore tempo di lavoro. Questa concezione è ben definita, per esempio, da Paul Sweezy, quando afferma che in una società mercantile-capitalistica “il lavoro astratto è astratto soltanto nel senso, dichiarato nettamente, che sono ignorate tutte le caratteristiche speciali che differenziano un genere di lavoro dall’altro. In definitiva, l’espressione lavoro astratto, come risulta chiaramente dallo stesso uso che ne fa Marx, equivale a lavoro in generale; è ciò che è comune a ogni attività produttiva umana” (Sweezy, 1970, p. 35).
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“Se salta la moneta unica, potrebbe saltare anche il mercato unico”
Manuele Bonaccorsi intervista Emiliano Brancaccio
Siamo a un passo dal baratro: la recessione, la fine dell’euro e forse persino il default dell’Italia. Secondo Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica all’università del Sannio, tra i più noti esponenti del pensiero economico “critico”, occorre capire se in Germania i favorevoli all’euro prevarranno su chi vorrebbe ormai sbarazzarsi della moneta unica. E bisogna pure valutare il ruolo dei partiti socialisti europei, i quali si stanno rendendo conto della situazione e hanno avanzato proposte di riforma che vanno nella giusta direzione. Ma il rischio è che si stiano muovendo in ritardo.
Brancaccio, Berlusconi risponde alle sollecitazioni dell’Ue sostenendo che la libertà di licenziamento è una via per la crescita. È vero?
No. Le ricerche dell’ultimo decennio ci dicono che la precarizzazione del lavoro non riduce la disoccupazione e non fa crescere la produttività. Inoltre, agevolando i licenziamenti nei periodi di crisi, la flessibilità aggrava le recessioni. E’ vero peraltro che rendere i contratti ancora più precari indebolisce i lavoratori e può favorire la riduzione dei salari. Secondo alcuni economisti questo potrebbe accrescere la competitività dell’Italia. Il problema è che questa strada l’abbiamo già praticata, dagli anni ‘90, provocando una compressione salariale senza precedenti. Ciò nonostante la nostra posizione competitiva non è migliorata, anzi il disavanzo commerciale si è accentuato. È una politica fallimentare. Che non risolve le contraddizioni alla base della crisi, ma le amplia.
Per quale motivo?
Perché lo stesso fenomeno è avvenuto in tutta Europa. In particolare in Germania, dove nell’ultimo decennio i salari reali sono rimasti al palo, nonostante un forte aumento della produttività. Se il Paese leader dell’Ue insiste con una politica restrittiva e di competizione salariale, gli squilibri strutturali della zona euro sono destinati ad accentuarsi. In questo modo, infatti, la Germania contiene le importazioni, accresce le esportazioni e aumenta il suo surplus verso l’estero. Di conseguenza, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e la stessa Francia aumentano i loro deficit verso l’estero. La politica restrittiva e competitiva del Paese leader genera dunque uno squilibrio insostenibile.
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Freud, Marcuse e il disagio della civiltà
Written by Franco Toscani
1. Freud, il perdurare del disagio e l’enciclopedia delle scienze
Il Sigmund Freud che nel 1929 s’interroga sulla barbarie avanzante e sul “disagio della civiltà” (Das Unbehagen in der Kultur è il titolo definitivo dell’opera che ebbe come primo titolo Das Unglück in der Kultur, L’infelicità nella civiltà) - in anni che stavano preparando una delle tragedie più spaventose del XX secolo - costituisce uno stimolo potentissimo, anche per noi oggi, a porre domande essenziali sul radicamento forte del male nella costituzione psichica dell’uomo odierno, sul disagio grave del nostro tempo, sull’inciviltà di tanti aspetti della nostra civiltà.
Anche noi, infatti, in questo inizio del XXI secolo, in un’età così diversa da quella della prima metà del 1900, viviamo un peculiare disagio, un malessere, una insoddisfazione profonda, tensioni e contraddizioni che ci rodono continuamente, crisi aspre ed emergenze su cui torneremo alla fine di questo percorso.
Ciò che potremmo chiamare il perdurare del disagio è l’aspetto per noi più rilevante e significativo che è da pensare e che dà da pensare.
Cominciamo qui col raccogliere qualche spunto prezioso da questo grande saggio freudiano del 1929 - per la cui comprensione piena dovremmo riferirci pure ad altri scritti del suo pensiero più maturo, come soprattutto Die kulturelle’ Sexualmoral und die moderne Nervosität (1908), la conferenza Wir und der Tod (1915), Zeitgemässes über Krieg und Tod (1915), Jenseits des Lustprinzips (1920), Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), Die Zukunft einer Illusion (1927), il carteggio con Albert Einstein Warum Krieg? (1932), senza alcuna pretesa di analisi sistematica (che qui intenzionalmente non svolgeremo) e sottolineando pure l’apertura dell’approccio freudiano ad una tematica necessariamente multi e interdisciplinare, che rinvia il sapere della psicoanalisi, della psicologia sociale (la cui idea, come notò Herbert Marcuse, fu prospettata dallo stesso Freud in Massenpsycologie und Ich-Analyse), dell’antropologia, del diritto, della filosofia, della sociologia, dell’economia, della storia, etc; a un’ottica fruttuosa di enciclopedia delle scienze - ad una “enciclopedia fenomenologica delle scienze”(1)- pensò acutamente e suggestivamente in Italia, negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, il filosofo Enzo Paci, il cui tentativo meriterebbe oggi di essere ripreso criticamente e approfondito, finalizzata ad una comprensione unitaria e profonda della civiltà umana nel suo complesso o dell’“uomo planetario”, come direbbe Ernesto Balducci (2).
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La crisi del debito sovrano nell’Eurozona
da un dibattito sulla lista "Marxiana"
a cura di Francesco Macheda
Quali margini possiede la banca entrale europea (BCE) per arginare la crisi del debito sovrano che sta mettendo in serio pericolo l’esistenza stessa dell’eurozona? Che efficacia potrà avere un ipotetico ‘fondo europeo’ volto a garantire gli investimenti degli acquirenti dei titoli a rischio dei paesi maggiormente indebitati? Inoltre, quali potrebbero essere le possibili conseguenze di una politica maggiormente orientata a frenare la speculazione da parte della Bce e quali sono le resistenze politiche che ne frenano l’azione? In ultima istanza, il comportamento della banca entrale europea è minato da una pura cecità politica, oppure vi sono limiti strutturali che ne frenano l’azione?
Il dibattito sottostante svoltosi sulla lista “Marxiana” tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 2011 cerca di fare luce su queste problematiche.
Incipit del dibattito: articolo del Wall Street Italia dal titolo “Citigroup: senza l’intervento della Bce, l’Europa rischia il collasso” - 17 novembre
Se la Bce non mette mano al portafoglio, si rischia la catastrofe finanziaria. Potrebbe essere una questione di settimane o addirittura di pochi giorni, ma molto presto rischiamo di assistere inermi al default di Spagna e Italia.
E’ lo scenario delineato da Willem Buiter, capo-economista di Citi, in un’intervista concessa a Bloomberg Tv. “La Bce deve agire in fretta, ignorando le pressioni della Germania. Farsi carico dei debiti sovrani è l’unica strada per evitare un terremoto finanziario che finirebbe per trascinare nel baratro il sistema bancario europeo e, insieme, quello americano”.
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Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro
di Guglielmo Carchedi
Data la rapida sequenza degli avvenimenti, questo articolo sarà regolarmente aggiornato
Aggiornato all’11 Gennaio 2012
I. Una delle caratteristiche della crisi finanziaria scoppiata nel 2007 - e ancora irrisolta - è il suo intreccio con la crisi dell’euro. In sintesi, la tesi di questo articolo è che la crisi dell’euro è la manifestazione nella eurozona della crisi dei derivati. Questa, a sua volta, affonda le sue radici nella caduta secolare del tasso medio di profitto nei settori produttivi degli USA. Questa tesi è stata sviluppata in Dietro e Oltre la Crisi.1 Questo articolo prosegue su quella linea di indagine. A tal fine, sarà necessario riprodurre alcuni argomenti già presentati in Dietro e Oltre la Crisi, ma solo quelli strettamente necessari e in versione accorciata.
Consideriamo, per incominciare, i settori che producono beni materiali negli USA che per approssimazione possono essere considerati come rappresentanti di tutti i settori produttivi.
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Cosa possiamo fare?
di Andrea Zhok
Gli ultimi mesi hanno visto un’accelerazione dei processi di dissoluzione dei paradigmi democratici e dei diritti costituzionali inedita nella storia della Repubblica. Che di questa situazione una parte ampia della popolazione italiana non abbia alcuna contezza va registrato con rammarico, ma non può essere un motivo per rimanere alla finestra.
A) Qual è la situazione in cui ci troviamo?
Riassumiamo quanto accaduto negli ultimi mesi sotto il profilo democratico.
• Con la Certificazione Verde si è istituito di fatto un trattamento sanitario obbligatorio sotto mentite spoglie, in violazione dell’articolo 32 della Costituzione.
• Le massive proteste di piazza che si sono succedute per mesi in decine di città italiane sono state ignorate dall’esecutivo e rimosse dalla vista e dal giudizio dai media, salvo nelle occasioni in cui era possibile stigmatizzarne qualche eccesso. L’unica risposta alla protesta di milioni di persone è stata ad un certo punto l’imposizione di un divieto di manifestare, in violazione sostanziale dell’articolo 17 della Costituzione.
• Intanto su molti manifestanti, identificati nel corso di eventi pacifici, senza che gli venisse ascritto alcun reato, hanno iniziato a piovere provvedimenti di DASPO urbani, annuali o triennali.
• Per rendere facile l’operatività dei controlli e l’implementazione del sistema certificativo da inizio ottobre è stata modificata la normativa sulla Privacy, scavalcando il Garante e legittimando di default il trattamento dei dati personali da parte dell’amministrazione pubblica, ogni qualvolta venga dichiarato che tale trattamento avviene per ragioni di pubblico interesse.
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Le politiche di austerità: un'analisi critica
di Guglielmo Forges Davanzati*
1 – Alle origini della crisi
Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi scoppiata nel 2007 è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene definito il greed. La si risolve, o la si attenua, conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada.
La radicale debolezza di questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai esattamente in senso contrario.
La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala globale.
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Kit di pronto soccorso antifascista contro il nuovo lasciapassare. Un segnale importante che vale la pena amplificare
di Wu Ming
Clicca per ingrandire/scaricare l’infografica di Antifasciste contro il pass. Prima, però, ti chiediamo di leggere il testo qui sotto.
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Reddito di cittadinanza: una critica marxista
di Giulio Palermo1
Riceviamo dalla Federazione del PCI di Brescia e pubblichiamo quale contributo alla discussione. Da comunistibrescia.org
Il successo elettorale del Movimento 5 stelle ha portato il tema del “reddito di cittadinanza” (RdC) al centro del dibattito politico. Tecnicamente, la proposta pentastellata non è veramente un’applicazione del RdC ma è piuttosto una forma di “reddito minimo garantito”, uno strumento di sostegno finanziario simile al RdC, senza tuttavia gli stessi tratti di universalità. Ma non importa: mentre la crisi incalza, l’idea di aumentare i redditi, invece che di stringere la cinghia, piace un po’ a tutti. In effetti, le prime critiche che si sono levate contro il RdC non riguardano veramente i suoi limiti teorici bensì la sua mancata attuazione: in Italia, il RdC non ha veri oppositori, il problema è che i grillini non lo vogliono applicare veramente.
Sul piano teorico, il RdC, nella sua versione ideale, è difeso in particolare dagli economisti della scuola keyensiana. Secondo loro, questo strumento sostiene la domanda aggregata, la crescita e l’occupazione. I più radical, quelli che strizzano l’occhio a Marx, aggiungono che favorisce anche l’emancipazione dal lavoro salariato.
In questo articolo sostengo invece che il RdC non solo non può realizzare questi obiettivi ma finisce in realtà per andare in direzione opposta: aggravando la crisi, sviluppando il liberismo e accelerando i processi di precarizzazione del lavoro e di mercificazione della società.
Inizio inquadrando la proposta del Movimento 5 stelle nel dibattito teorico e mostrando i veri obiettivi perseguiti da questa forza politica. Contrariamente ai difensori dell’universalismo, argomento che le differenze tra la proposta di Di Maio & co e il modello ideale di RdC non depongono veramente a favore del secondo.
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Le lezioni del capitale
Che cosa ci rivelano l’assassinio di Gheddafi e l’osceno tripudio della Clinton
di Franco Soldani
Solo chi nuota controcorrente può sperare di risalire alla fonte.
Lao Tze
Premessa
A partire dall’11 settembre 2001, la data chiave con cui si apre veramente, e non solo sul piano cronologico, il nuovo secolo, le diverse amministrazioni statunitensi, coadiuvate in questo da tutto l’Occidente di cui sono la superpotenza dominante, ci hanno fatto precipitare in un mondo alla rovescia in cui viviamo ancora oggi. In particolare oggi direi, dopo dieci lunghi anni di rodaggio della nuova macchina della propaganda. E un decennio di stress collettivo a seguito della “war on terror” seguita a quell’avvenimento cruciale. Non a caso. Come ci spiega infatti Edward Hunter, <<la gente è molto più impressionabile dalla propaganda quando è già in un intenso stato di tensione>>. È per questo che tendono a tenerci permanentemente sulla corda. Con tutti i mezzi. Soprattutto, è appena il caso di dirlo, tanto è manifesta la cosa, con le varie forme di terrorismo che sanno orchestrare così bene.
Indipendentemente dalla nostra volontà e persino contro di essa, siamo ormai entrati in un lungo viaggio come quello di Alice, senza alcuno specchio però da attraversare. La sua superficie, anzi, ci rimanda nuovamente le immagini più consuete e ordinarie della realtà, e ci ripete di non aver nient’altro da mostrarci. Questo è tutto quello che c’è. E tu uomo più non dimandare.
Da questo punto di vista, la megamacchina in questione funziona ormai perfettamente e l’attuale presidente degli Stati Uniti, che ne ha preso formalmente il volante o, se si vuole, si è impadronito del suo joy stick, può con confidenza affidarsi al regno metaorwelliano che gli odierni Megamedia, con tutto il tenebroso fascino di una creazione dal nulla, hanno disegnato appositamente per noi. In questo reame delle loro brame finalmente realizzato si assiste ormai ad una inedita pièce postnovecentesca:
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La rottura strutturale del capitale e il ruolo della critica categoriale
Intervista a Robert Kurz della rivista online "Shift", Zion Ediçoes
Come si inquadra l’attuale crisi finanziaria nel contesto dello sviluppo della crisi strutturale del capitale?
É teoricamente sbagliato parlare di una crisi finanziaria indipendente, la cui «ripercussione» sulla cosiddetta economia reale sarebbe incerta ed eventualmente moderata. Espressa nei termini della teoria di Marx, la crisi finanziaria può essere solo una manifestazione della caduta delle condizioni della valorizzazione reale del capitale. Il sistema finanziario e del credito non é un settore autonomo, ma una componente integrante della riproduzione ampliata del capitale totale. Qui sorge una contraddizione che progressivamente si aggrava. L’espansione del sistema del credito in sé non è nuova, ha già percorso un processo secolare. Ciò riflette un meccanismo descritto da Marx come «aumento della composizione organica del capitale». Con l’aumento della scientificizzazione della produzione, cresce la proporzione di capitale costante (macchine, equipaggiamento tecnologico di controllo, comunicazioni e infrastrutture, etc.) in relazione al capitale variabile (forza di lavoro produttivo di valore). Corrispondentemente, crescono i costi preliminari per poter applicare in forma redditizia la forza lavoro, l’unica fonte di plusvalore. I costi preliminari crescenti esigono un anticipo del plusvalore futuro nella forma del credito per mantenere in corso l’attuale produzione di plusvalore, sempre più differito nel futuro.
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Per capire la crisi più lunga
di Ernesto Screpanti
Sei lezioni di economia (Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, 17 Euro) di Sergio Cesaratto è un libro importante che esce in un momento di grande confusione d’idee e di grande incertezza economica e politica. La lunga ondata di egemonia neoliberista che ha devastato il mondo negli ultimi 40 anni lo ha infine fatto naufragare nella grande crisi da cui non siamo ancora usciti. E ora il cittadino disorientato si guarda intorno in cerca di nuovi strumenti di comprensione della realtà. Questo libro di Cesaratto gli può essere d’aiuto, sia perché fornisce un’analisi approfondita della crisi in corso, sia perché lo fa usando strumenti teorici alternativi a quelli su cui si fonda l’egemonia liberista.
Il libro si divide in due parti. I primi tre capitoli presentano la ricostruzione storica di un sistema teorico di grande prestigio, che la teoria economica dominante però ha cercato di relegare nel sottomondo dell’eterodossia. Il primo capitolo espone l’approccio del sovrappiù sviluppato da Smith, Ricardo e Marx. Il secondo tratta della teoria neoclassica, versione raffinata di quella che Marx chiamava “economia volgare”. Il terzo si concentra sulla rivoluzione keynesiana. Ma non è un libro di storia del pensiero. Cesaratto presenta l’oggetto della sua ricostruzione come materia viva. Rilegge quella storia con gli occhiali di Marx, Keynes e Sraffa, e approda all’esposizione di un sistema teorico che è “se non del tutto giusto quasi per niente sbagliato”. In questo sistema i redditi non di lavoro sono spiegati non come remunerazioni dei contributi produttivi di fantomatici fattori di produzione, ma come un sovrappiù prodotto dai lavoratori.
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Il comune in rivolta
di Judith Revel e Toni Negri
Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.
Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:
1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche.
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La fabbrica del falso e la guerra in Libia
di Vladimiro Giacché
“Attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”
G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie del Geschichte, in Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971, Bd. 11, p. 403.
L’attacco della Nato contro la Libia iniziato il 19 marzo 2011 rappresenta un caso emblematico a più riguardi. In primo luogo, conferma in modo eclatante una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole e delle immagini è ormai parte della guerra stessa. In secondo luogo, evidenzia la confusione che regna in una sinistra che – anche quando si pretende “radicale” e conseguente – in Italia come in tutti i paesi occidentali, ha dimostrato una sorprendente arrendevolezza e subalternità rispetto alla propaganda e all’informazione ufficiale. Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto anche in questo caso – come già era accaduto per l’Iraq – gli stessi Paesi aderenti alla Nato si sono presentati all’appuntamento divisi: l’astensione della Germania già in sede Onu si è trasformata in decisa presa di distanza dalle operazioni, e la stessa Turchia ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla conduzione della guerra. Ma mentre ai tempi della guerra di Bush le divisioni nel campo imperialista avevano grandemente giovato al movimento per la pace, in questo caso nulla di questo è avvenuto. Lo stesso gruppo parlamentare della GUE al Parlamento Europeo si è spaccato, e nel nostro Paese si è assistito al grottesco spettacolo di un PD assai più guerrafondaio degli stessi partiti di governo, mentre SEL ha tenuto un atteggiamento inizialmente ondivago (con una parte della base favorevole all’intervento) e soltanto la Federazione della Sinistra ha avuto da subito posizioni intransigenti sull’argomento.
In questo articolo esaminerò i principali dispositivi che la fabbrica del falso ha posto in essere nel caso della guerra di Libia, e proverò ad individuare i motivi di fondo che hanno indotto molti, anche a sinistra, a cedere alla propaganda di guerra. Nel mio argomentare metterò in gioco lo schema interpretativo che ho esposto più diffusamente nel mio libro La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (DeriveApprodi, 20112). In questo testo proponevo un insieme di strategie di attacco alla verità non assimilabili alla menzogna pura e semplice. Vediamo come queste strategie sono entrate in gioco nel caso libico.
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