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I guru pentiti rileggono McLuhan
Carlo Formenti
Il testo che segue riproduce parte del terzo capitolo del saggio Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, che sarà in libreria il 27 aprile prossimo per i tipi di EGEA. Invece di evidenziare i tagli con puntini di sospensione, si è preferito giuntare le parti estratte tramite interpolazioni ad hoc, per cui il testo presenta alcune varianti rispetto all’originale (sono state eliminate anche le note). Per le tesi dei tre autori citati, vedi Andrew Keen, Dilettanti.com, De Agostini, Milano 2009; Jaron La-nier, Tu non sei un gadget, Mondadori, Milano 2010; Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?, Cortina, Milano 2011
Qualche anno fa rilasciai all’«Espresso» un’intervista nella quale sostenevo che la maggioranza dei blog contenevano patetici esercizi di scrittura spacciati per letteratura sperimentale, oscene esibizioni di emozioni e sentimenti personali, polemiche da bar e auspicavo che questa spazzatura sprofondasse nell’oblio, restituendo alla rete la vocazione di canale di controinformazione. Successivamente ho fatto autocritica, non perché mi sia convinto che i blog siano migliori di come li avevo descritti, ma perché ho capito di avere dimenticato la lezione di McLuhan, secondo cui ciò che importa è l’architettura di un medium, più dei contenuti che veicola: a contare non è che cosa si pubblica bensì la facilità con cui chiunque, anche soggetti privi di ogni competenza culturale e tecnologica, viene messo in condizione di pubblicare.
Prima di celebrare quest’evoluzione come un passo sulla via della «democratizzazione della comunicazione», tuttavia, occorre rispondere al seguente interrogativo: chi «possiede» i contenuti «autoprodotti» dall’utente comune, chi detiene il controllo sui loro effetti politici ed economici?
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Il potere alienato dalla folla
di Toni Negri
La raccolta di saggi «Il comunismo del capitale» di Christian Marazzi ripercorre le trasformazione del capitalismo contemporaneo dove la finanza è diventata strumento di governo dello sviluppo economico. La dismissione del welfare state e la precarietà dei rapporti di lavoro risultano, così, due momenti della appropriazione privata del «comune». Il libro dell'economista di origine svizzera non si limita, però, a una rassegna dei cambiamenti avvenuti, ma si pone l'obiettivo di fornire strumenti per la trasformazione
Sono stati scritti in un decennio, questi saggi di Christian Marazzi raccolti nel volume Il comunismo del capitale (Ombre corte, pp. 160, euro 23). Hanno il buon sapore che si sentiva nel bel volume che ha reso questo economista di origine svizzere abbastanza noto in Europa e negli Usa: Il posto dei calzini (pubblicato dalla casa editrice Casagrande nella Svizzera italiana e ripreso poi da Bollati Boringhieri). Lì, per la prima volta, il postindustriale era coniugato con la sovversione femminista ed il postmoderno trovava non una voce debole o molle per dichiararsi (come ci avevano abituato i suoi fondatori) ma mostrava i muscoli della rivoluzione sociale.
Leggo qui con voi le prime due parti di questo libro: la prima, «Biocapitalismo e finanziarizzazione» e la seconda, «Il lavoro nel linguaggio». Parto da una questione posta da Marazzi che sembra, a prima vista, bizzarra e mi chiedo con lui: perché i manager sono spesso dislessici? Perché - risponde Christian -se la difficoltà di focalizzare e decodificare i fonemi sviluppa nei dislessici, in generale, la capacità di vedere o percepire molto rapidamente il quadro d'assieme, il contesto nel quale si trovano ad operare i manager trasforma la condizione dislettica nella facoltà di alterare e creare percezioni, organizza un'estrema consapevolezza dell'ambiente nel quale sono immersi. Pensiero ed intuito si applicano insieme su scene multi-dimensionali e qui esprimono potenza e creatività.
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Operai della conoscenza
Sergio Bologna
Milano centro, zona Missori, filiale italiana di una multinazionale del fashion. Ci lavora da quattro mesi, dalle 9 alle 18 (ma in genere la gente si ferma un’ora in più) e piace a Luca quel lavoro, 26 anni, laurea specialistica con lode. Non ha voluto fare il dottorato né prendere una borsa per l’Olanda, una terza lingua straniera da imparare gli pareva troppo, in fin dei conti il suo inglese è migliore dell’italiano del capo. Non gli hanno dato una lira e per altri due mesi sarà così, il suo è uno stage, un tirocinio semestrale gratuito, nemmeno un ticket ristorante. Ma l’altro giorno la vice del capo lo chiama e gli fa capire che «piace» alla ditta e alla fine dei sei mesi chissà che non gli venga proposta un’assunzione. A termine, ovviamente. Se tutto va bene e lui ci sta, saranno cinquecento euro al mese per un anno, ma poi magari «salta fuori un indeterminato».
Nel 2009 il 13% dei laureati nelle diverse università lombarde che sono entrati nel mondo del lavoro hanno dovuto passare per la porta stretta dei tirocini gratuiti. Una volta, dopo il tirocinio, c’era «il tempo determinato», oggi nella maggior parte dei casi c’è un altro tirocinio. Fino a ieri si pagava sui settecento/ottocento euro un contratto a termine a tempo pieno, oggi siamo arrivati a cinquecento. Almeno così è nel mondo della cosiddetta «creatività».
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Un contadino nella metropoli degli anni ‘70
di Alessandro Barile
Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Pgreco 2023, pp. 352, € 20,00.
La ripubblicazione di Un contadino nella metropoli a dieci anni dalla morte del suo autore, Prospero Gallinari (1951-2013), è opportuna almeno per due motivi. Il primo, rimettere in circolazione un libro stranamente introvabile, nonostante la prima edizione affidata a Bompiani, la notorietà della persona, l’attenzione (a volte genuina, più spesso morbosa) riguardo agli anni Settanta e alla lotta armata nel nostro paese. Vi è poi l’occasione di celebrarne il ricordo a dieci anni dal suo funerale-evento: al cimitero di Coviolo, Reggio Emilia, il 19 gennaio 2013 si convocarono spontaneamente un migliaio di persone, compagni di tutta Italia, reduci e giovani, brigatisti, non brigatisti, anti-brigatisti, chiunque si sentì toccato da una morte che sembrava trascinare con sé un’intera epoca. Una foto di gruppo, tra parenti spesso litigiosi, eppure accomunati, e non solo dal ricordo umano.
Ma la ripubblicazione di questo libro di «ricordi di un militante delle Brigate rosse» può servire anche ad altro, forse di più importante, o almeno di più utile. È un libro di memorie, e come tale è andato a suo tempo ad ampliare la già vasta produzione memorialistica sugli anni Settanta. Una memorialistica che, negli ultimi venti anni, ha dapprima lasciato spazio alla contro-memorialistica delle vittime (delle vittime reali ma, molto più di frequente, delle vittime indirette: familiari, amici, conoscenti); per poi cedere il passo a una storiografia che si è andata occupando molto di anni Settanta e del loro enigma indecifrato. La ricostruzione storica è rimasta però alquanto sterile. Nell’attuale, spasmodica, convalida di un suo statuto scientifico, la ricerca storica ha generato una tecnicizzazione degli eventi studiati. Siamo stati così invasi di libri sul lungo Sessantotto italiano, sulla lotta armata e sulla «strategia della tensione», sui profili umani e su quelli disumani.
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Per una critica dell'immaterialismo storico
Mario Tronti
Ce n’è per tutti, in questo libro di voluta e bentornata «polemica ideologica, al limite del pamphlet», come si esprime lo stesso autore: Carlo Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro. I lettori di «alfabeta2» ne hanno già saggiato un brano nel numero precedente. Ce n’è per tutti i novatori, che sono una tribù, accampata nei deserti dell’Occidente, comunicatori di un senso comune intellettuale di massa, con i suoi riti e miti, le sue credenze, i suoi tecnologici fondamentalismi. Sono gli utopisti, in buona e cattiva fede della rivoluzione digitale, «evangelisti del software libero, teorici dell’economia di rete come “economia del dono”, entusiasti del Web 2.0 come strumento di “democratizzazione” di imprese, istituzioni e mercati», oltre che, naturalmente, profeti di una paradisiaca liberazione dal lavoro materiale.
Colpiti dal fuoco, niente affatto amico, di Formenti, sono qui i novatori della struttura, più sopportabili, certo, degli insopportabili novatori della sovrastruttura. I primi infatti sognano la fine del lavoro sans phrase, in virtù dell’avvento dell’immateriale nel mondo e in attesa – si tratta di pazientare solo qualche giorno – della fine del capitale, qui e ora. I secondi, non sognano, vedono un’economia finalmente libera da lacci e lacciuoli della politica, una società finalmente libera dalle ingerenze dello Stato, e cittadini finalmente liberi dalle tutele dei partiti. Un altro mondo finalmente non possibile, ma reale: meraviglioso intreccio – si dice qui – di neoliberismo e di «taylorismo digitale».
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Una repubblica fondata sull'ozio
In difesa di Keynes
di Luigi Cavallaro
Risparmio, austerità. Il mantra dell'Unione Europea ha valore per gestire un bilancio familiare, ma non indicano nessuna possibile uscita dalla crisi. Un percorso di lettura a partire da un volume dell'economista greco Yanis Varoufakis
«Ha una ricetta per salvare le casse dello stato?», chiesero una volta ad Alberto Sordi. «È una ricetta semplicissima», rispose l'Albertone nazionale: «Si chiama risparmio. Si prendono i conti dello stato e si dice per esempio: tu, magistrato, guadagni un milione al mese di meno; tu, deputato, due milioni di meno; tu, ministero, devi diminuire le spese per la carta, il telefono, le automobili (il che sarebbe anche positivo per il traffico e l'inquinamento), e così via, informando mensilmente gli italiani, alla televisione e sui giornali, dei risparmi ottenuti. Allora si potrebbero chiedere sacrifici a tutti: diventerebbe una gara a chi è più bravo».
Era il 1995 e c'era ancora la lira, ma quella ricetta di politica economica ha lasciato il segno. Si dovrebbe chiamarla Sordinomics, in omaggio alla lingua madre della «scienza triste», perché non c'è dubbio che ad essa si ispirano le prescrizioni dell'Unione europea e, qui da noi, il loro esecutore (alias l'esecutivo) e i suoi tanti corifei, che non mancano un solo giorno d'informarci non solo dei risparmi ottenuti, ma soprattutto di quelli che si potrebbero ottenere se solo non avessimo sul groppone una «casta» di nullafacenti affamati e corporativi.
Nel paese della banane
In effetti, è una constatazione di senso comune supporre che un individuo che si sia indebitato oltre il limite consentitogli dal proprio reddito debba ridurre i propri consumi e risparmiare di più per ripagare gli interessi e il capitale preso a prestito.
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Insolvenza di classe
di Gigi Roggero
Uno spettro si aggira per il mondo: l’insolvenza. In dicembre la Banca d’Italia ha rinnovato l’allarme: il 5% delle famiglie italiane che ha fatto un mutuo non riesce a pagarne le rate. La percentuale sale al 19% tra i disoccupati, a cui vanno aggiunti gli alti livelli di insolvenza tra precari e persone a basso reddito. Ma non è tutto: i dati sono ricavati da un’inchiesta del 2007, dunque è chiaro come il numero delle persone che non restituiscono i soldi prestati sia in vertiginosa crescita. La quota di insolventi rappresenta un record in Europa, ma com’è ampiamente noto il trend è europeo e globale. La crisi cominciata nel 2007 ha proprio in questo fenomeno un elemento fondante. Negli Stati Uniti sono figure molto specifiche quelle che – per pagarsi una casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria o la mobilità – hanno fatto ricorso ai subprime, da cui il nome dei mutui: disoccupati, donne single, molti afro-americani, latinos, ampi settori della working class e della middle class in rapida proletarizzazione. Nel frattempo, il debito studentesco – progressivamente ingigantitosi negli ultimi vent’anni – ha raggiunto livelli esplosivi. Per frequentare un’università si accumulano decine di migliaia di dollari, il che significa una drastica riduzione del salario monetario spesso prima ancora che esso sia effettivamente percepito. Il non ripianamento del debito in tutte le sue forme – per scelta e soprattutto per impossibilità – ha fatto saltare il sistema.
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Lo Stato in guerra
di Emilio Quadrelli
Note per una lettura della fase imperialista contemporanea
“La guerra è sviluppata prima della pace: modo in cui certi rapporti economici come lavoro salariato, macchinismo ecc., sono stati sviluppati dalla guerra e negli eserciti, prima che nell'interno della società borghese. Anche il rapporto tra produttività e rapporti di traffico diviene particolarmente evidente nell'esercito.” (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica 1857 – 1858, Volume I)
Forse è ancora presto per dire se il 14 dicembre ha rappresentato un’autentica svolta e le masse sono tornate a essere prepotentemente protagoniste della scena politica. Alcuni indicatori, non solo il non ritiro della “Riforma Gelmini" bensì la sua approvazione ma, soprattutto, la decisione con cui Marchionne ha chiuso la “partita Fiat”, porterebbero a dire che i bagliori del 14 dicembre non sono ancora gli incendi di Mosca 1905. Così come, se non è del tutto certo che, la medesima data, possa passare alla storia come il 23 frimaio di Silvio Bonaparte è per lo meno ipotizzabile che le forze della controrivoluzione non sembrano essere state scosse più di tanto dagli avvenimenti di piazza. Resta, ed è un dato politico di grande importanza, che un movimento di massa, non ascrivibile unicamente al mondo dell’Università, ha rotto gli argini della pacificazione sociale.
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La società della miseria (2)* [nuova stesura]
Count Down
I. Diversamente da quanto solitamente immaginato, la politica non ha mai avuto alcun ruolo rilevante nelle società capitalistiche. Essa ha goduto dei favori della crescita economica un tempo (Golden Age) come è caduta in disgrazia quando si è entrati in una fase di pronunciato declino economico.
I. 1 Il tanto sbandierato "primato della politica" è stato un riflesso proprio della ingovernabilità dei processi economici - come la religione lo fu di quelli naturali - da quando l'economia è divenuta una dimensione sovra-determinante gli individui a tutti gli effetti, sicché quel "primato" nel contempo ha fatto da "visione del mondo" con cui gli apparati politico-istituzionali sorti col capitalismo hanno rappresentato e legittimato loro stessi, come un tempo, appunto, gli apparati religiosi
II. A partire in specie dal secondo dopoguerra, il capitalismo ha intrapreso una notevole fase di crescita economica, caratterizzata da consistenti investimenti in capitale fisso ed ampio incremento dell'occupazione. La crescita dei primi si è accompagnata - come sempre nella storia di questo sistema sociale - alla crescita della seconda.
III. In questa fase il capitalismo ha portato a compimento la sua più essenziale natura, quella di trasformare la popolazione in una massa di lavoratori salariati.
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La decrescita non è un'alternativa
di Pierluigi Fagan
“Tis the time’s plague when madmen lead the blind”.
W. Shakespeare King Lear (Atto IV°, scena prima)
Le opinioni ed il dibattito su quel composito mondo di stimoli ed idee che cade sotto il termine -decrescita-, partono da un assunto. Questo assunto risale al momento nel quale questo termine, ed il successivo movimento di idee che lo seguì, nacque.
Eravamo ai primi degli anni ’70 e a cominciare dall’economista franco-rumeno N. Georgescu Roegen, ma in contemporanea nel movimento dell’ecologismo scientifico e nelle analisi del Club of Rome, nonché in certa cultura sistemica, si prese coscienza del semplice fatto che una crescita infinita (modello economico dominante) in un ambito finito (pianeta), era impossibile. Prima che impossibile era assai dannoso per le retroazioni che si sarebbero innescate sia in termini ecologici, sia negli stessi termini economici termini che avrebbero portato con loro, pesanti conseguenze sociali, alimentari, sanitarie, culturali, geopolitiche, paventando la formazione di chiari presupposti catastrofici. L’intuizione della decrescita, una sorta di cassandrismo destinato come tutti i cassandrismi a risultare antipatico e sospetto di eccesso paranoide, nasceva quindi da uno sguardo in prospettiva e nasceva proprio nel momento in cui la società della crescita era al culmine dei suoi gloriosi trenta anni di galoppata.
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I conflitti svelati nella società della conoscenza
Enzo Modugno
Il ministro Mariastella Gelmini non si sta sbagliando, al contrario, come tutti i suoi predecessori sta portando avanti il lungo processo di razionalizzazione capitalistica dell'istruzione, anche se la crisi ne mostra gli aspetti peggiori. Non sarà quindi una migliore riforma della scuola che potrà arrestarlo. Perché questo processo di razionalizzazione deve rendere permanente l'espropriazione capitalistica dell'intelligenza collettiva che costituisce oggi l'essenza stessa di questo modo di produzione, e non saranno i governi a fermarlo. Ma le lotte degli studenti e dei lavoratori, attaccandolo, possono riuscire a renderlo impraticabile.
Le conoscenze sono ormai le merci più diffuse, algoritmi che si vendono sul mercato mondiale, e anche il sapere, come le ferrovie, è stato privatizzato: è antieconomico produrre conoscenze nelle università statali e l'imprenditoria italiana non ha interesse a svilupparvi la ricerca. Le conoscenze sono merci come le altre, si possono comprare a prezzi migliori.
Il nostro sistema scolastico invece deve produrre qualcosa di più urgente per il buon andamento dell'economia: chi vede solo le cose prodotte non si accorge, ha scritto Marx, che i lavoratori sono un prodotto essenziale del processo di valorizzazione del capitale.
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Meno occupazione e stato in ginocchio con i tagli lineari
Domenico Moro
Il decreto legge 95 del 2012 prevede la riduzione della spesa pubblica di 26 miliardi in tre anni, di cui 4,5 nel 2012, 10,5 nel 2013 e 11 nel 2014. Per raggiungere questo obiettivo il governo Monti ha predisposto una spending review, che nell’intenzione dovrebbe favorire tagli non lineari ma selettivi, in modo da mantenere inalterato il servizio erogato dalla P.A. La spending review prevede l’intervento su varie direttrici: la soppressione di enti, il tetto allo stipendio dei manager pubblici, le procedure d’acquisto per ridurre i costi di beni e servizi, il riordino degli enti territoriali, la dismissione di immobili dello stato e la riduzione del personale. L’aspetto sicuramente più grave della spending review è la riduzione del personale statale. Il 25 settembre è stata adottata la circolare firmata da Patroni Griffi, il ministro della P. A. La riduzione prevista è del 20% sul costo delle dotazioni organiche del personale dirigente e del 10% del personale non dirigente, in pratica decine di migliaia di persone.
La gestione verrà centralizzata presso il Dipartimento della Funzione pubblica. Le singole amministrazioni dovranno inviare le proposte di tagli entro il 28 settembre (enti pubblici e agenzie) e il 4 ottobre (amministrazione dello stato). Entro il 31 dicembre 2012 verranno quantificati i tagli e comunicata agli interessati la data di cessazione del rapporto di lavoro. Il Dpcm che metterà in mobilità i dipendenti è previsto entro il 31 marzo 2013, mentre entro il 31 maggio 2013 è prevista l’individuazione del personale da collocare in part time. Il provvedimento interesserà tutto il personale pubblico con l’eccezione del comparto sicurezza, il personale operativo operante nei presso gli uffici giudiziari e il personale della magistratura.
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Mettersi di traverso. Per una critica del biocapitalismo contemporaneo*
Sergio Bologna, Dario Banfi
Tutti i sistemi totalizzanti tendono a ridurre l’umanità a un insieme di corpi senz’anima, senza personalità, il capitalismo per primo e il biocapitalismo quasi ci riesce(1). Il problema sta nel rifiuto di subire, di sottomettersi, è l’eterno problema della libertà dell’individuo, qui sta il senso del discorso sulla coalizione. Ma la libertà non è scindibile dalla conoscenza e pertanto l’affermazione che l’informatica ha creato una diversa epistemologia significa che ha modificato i parametri del processo conoscitivo liberandolo in parte dalla dipendenza dell’insegnamento, del lavaggio del cervello, e dalla dipendenza dei procacciatori/manipolatori d’informazioni, aprendo lo spazio a una, seppur parziale e in permanente tensione, autonomia dell’individuo. Parlando il linguaggio dei simboli ha ridotto lo scarto tra la parola e i suoi effetti, il gesto e i suoi riflessi. Ha abbassato la statura dell’autorità, le ha tolto il piedestallo, contribuendo in questo senso alla de-professionalizzazione.
La nascita e lo sviluppo delle «nuove» professioni» avviene proprio nel periodo in cui questo passaggio di civiltà comincia a compiersi. Non hanno un percorso di formazione precostituito, non possiedono conoscenze alle quali corrisponde un ambito di giurisdizione ben definito, vivono di relazioni più che di competenze, la loro autorità è sancita dal mercato non dalle credenziali, a loro non servono i paludamenti del professionalismo, anzi sono d’impaccio. Ma il termine generico di «nuove professioni» comprende anche alcune antiche esercitate in maniera nuova o, per meglio dire, svolte in contesti di mercato talmente diversi da quelli che in origine le aveva viste nascere, che possono essere considerate «nuove».
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Pašukanis ieri e oggi. Una introduzione
di Carlo Di Mascio
Da Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar Edizioni, Firenze, 2013, pp. 268.
I.
Norberto Bobbio, in un saggio pubblicato nel 1954 dal titolo Democrazia e dittatura, osservava che gli enormi progressi, che l’Unione Sovietica stava in quel tempo compiendo in direzione di uno Stato fondato sul diritto, dovevano in gran parte essere ascritti alla cosiddetta «riscoperta del diritto», e ciò in particolare per merito della scuola facente capo a Vyšinskij, la quale, concependolo «come complesso di norme coattive imposte dalla classe dominante al fine di salvaguardare le relazioni sociali ad essa vantaggiose», si poneva in netta sintonia con quanto tracciato dalla più avanzata dottrina borghese di matrice kelseniana, tendente a considerare il diritto «come una tecnica speciale per la organizzazione di un gruppo sociale (qualunque esso sia)». Ma per Bobbio questi progressi dovevano ritenersi attribuibili anche ad un altro motivo, e cioè alla piena «sconfessione delle dottrine giuridiche estremistiche di Pašukanis e compagni, secondo cui il diritto era una sovrastruttura della società borghese e come tale destinato a scomparire con l’avvento della società socialista»1.
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Precarietà operaia: leva decisiva per l'affossamento del capitalismo?
di Karlo Raveli
La ricetta liberista di precarizzazione massiccia e crescente, per di più nella logica dell'economia transnazionale della conoscenza, è lo sbocco politico principale della classe oligarchica per rompere tutte le possibili egemonie, passate e future, di settori lavoratori più stabili della classe.
Dal lavoratore professionale – egemone da Marx a Luxemburg – al lavoratore-massa fordista, e passando poi per l'impiegato toyotista, il liberismo ha registrato molto bene questa necessità di scomposizione permanente della classe antagonista per sviluppare il suo dominio.
Ma non la pseudo-classe lavoratrice, bensì La classe: operaia.
La primitiva lettura marxista del lavoratore professionale (accompagnato dalla comparse di un esercito 'industriale' di riserva) come equivalente determinante della classe – da cui sorge la confusione o sinonimicità dei due termini, operaio e lavoratore, è la peggior zavorra ideologica che trasciniamo da ben oltre un secolo.
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COVID. I vaccinati si ammalano più degli altri: cosa cambia con la “scoperta” dell’ISS
di Mariano Bizzarri
Variante Omicron 5, reiterazione dei vaccini, efficacia di quelli a mRna, eventi avversi: gli ultimi studi sul Covid stanno smontando molte tesi ideologiche
È quantomeno curioso che nessuno in Italia – né enti istituzionali, né l’Accademia e tantomeno i politici – avvertano l’esigenza di promuovere un momento di riflessione pubblica su quanto è successo in Italia con la comparsa del Covid dai primi del 2020 in poi.
Eppure, tanti sono gli interrogativi sospesi – da come è iniziata l’epidemia alla tempestività e appropriatezza delle misure predisposte – e che oggi tornano ad incombere a fronte dell’incertezza delle prospettive che si profilano al nostro orizzonte. Ci sarà una recrudescenza della pandemia? Quali vaccini dovremo utilizzare? Non dovremmo sviluppare una strategia diversificata? È pronto il nostro sistema sanitario a farvi fronte?
Non sono questioni di scarsa irrilevanza ed è scandaloso che l’informazione debba limitarsi a riportare le esternazioni – spesso strampalate, quando non addirittura ispirate ad una visione catastrofista priva di qualunque fondamento – di un manipolo di esperti, invero conosciuti ormai più per le loro intemerate televisive che per le ricerche che realmente conducono in laboratorio o nei reparti.
Proviamo noi a formulare – quantomeno – le domande fondamentali.
Punto primo: è cambiato non solo il profilo epidemiologico ma anche il quadro clinico, dato che l’attore prevalente è ormai Omicron, parente alla lontana del Sars-CoV-2 che– con le sue varianti principali Alpha e Delta – ha alimentato i primi due anni di epidemia. Omicron – a prescindere dall’efficacia dei vaccini – ha considerevolmente ridotto l’impatto sul sistema sanitario perché, anche se più contagioso, si accompagna ad un ridotto tasso di occupazione dei reparti di medicina e di terapia intensiva.
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Il sapiente e il parassita
Alberto De Nicola e Francesco Raparelli
Società della conoscenza tra comando e libertà
Chi ha tradito la società della conoscenza? Questo è il leit motiv che percorre buona parte dei materiali raccolti dal quarto numero di Molecole. Meglio ancora, chi ha tradito Delors?, e chi la strategia di Lisbona? Come dire, tutto sembrava filare liscio, il progetto era solido, le intenzioni altrettanto, qualcuno deve aver manomesso la macchina. Chiaramente, guardando alla triste scena italica, questa posizione sembra non solo giusta, ma imprescindibile. Berlusconi e Bossi sono l’incarnazione politica della «società dell’ignoranza», tra Bunga bunga e dito medio la loro ricetta è trasparente: distruggere la formazione, azzerare la mobilità sociale, difendere (male) la piccola e media impresa, favorire la fuga dei cervelli. Se poi pensiamo a Brunetta e Sacconi il ritornello non cambia: «cari giovani, abituatevi a fare lavori umili e manuali», ha detto a più riprese Sacconi, mentre Brunetta è l’esempio più riuscito di «anti-intellettualismo di Stato» (vedi Common, numero 0, Derive Approdi 2010). Insomma l’anomalia Italia vede nella guerra all’intelligenza – guerra che coincide fino in fondo con il controllo delle forze produttive – il suo punto d’espressione privilegiato.
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Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre
Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre – per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese contro la tirannia tecnocratica sovranazionale e dei trattati europei
Siamo di fronte a una delle più grandi mistificazioni politiche e culturali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
La contro-riforma costituzionale adottata dal governo Renzi, il c.d. DDL Boschi, viene presentata, dal governo e dalla quasi totalità dei media nazionali, come la più importante razionalizzazione delle istituzioni mai realizzata nel nostro paese, dopo decenni di politica degenerata e corrotta, da parte di una classe politica “nuova”, giovane e risoluta. In realtà, con questo disegno di legge costituzionale, di cui va considerata la sinergia con la “nuova” legge elettorale, l’Italicum, siamo di fronte ad una delle più grandi mistificazioni, politiche e culturali, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, pari se non peggiore della stessa “riforma” costituzionale di Berlusconi, Bossi e Fini del 2005, sonoramente battuta col voto referendario del 25-26 giugno 2006 dalla maggioranza del popolo italiano.
L’attuale classe politica non appare certo migliore di quella del recente passato, soltanto perché giovane e, nella propria autorappresentazione, nuova. Essa agisce con grande determinazione e sfrontatezza, verbale e legislativa, oltre a scontare un vuoto culturale e del rispetto delle regole democratiche senza precedenti nel periodo repubblicano.
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Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
Il 15 giugno 2016, il tribunale di Torino ha condannato Roberta, ex studentessa di antropologia di Ca’ Foscari, a 2 mesi di carcere con la condizionale per i contenuti della sua testi di laurea, conseguita nel 2014. Per scrivere la tesi «Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità», Roberta ha trascorso due mesi sul campo durante l’estate del 2013, ha partecipato a varie dimostrazioni in Valsusa, intervistando attivisti e cittadini. Coinvolta insieme a lei in questo procedimento giudiziario era Franca, dottoranda dell’Università della Calabria, che come Roberta era in Valle per ragioni di ricerca, che compare con Roberta nei video e nelle foto analizzati dalla procura ma che a differenza di Roberta è stata assolta da tutti i capi d’imputazione.
A differenza di Franca, Roberta è stata condannata a 2 mesi di reclusione con la condizionale. Nonostante le motivazioni della sentenza saranno rese pubbliche tra 30 giorni, la ragione della sua condanna è stata attribuita all’utilizzo, nella sua tesi di laurea, del “noi partecipativo” interpretato dall’accusa come “concorso morale” ai reati contestati. Di fatto, i video e le foto scattate durante le manifestazioni parlano chiaro: le due donne sono lì, presenti, anche se in disparte. È stato dimostrato in tribunale che nessuna delle due imputate ha preso parte a momenti di tensione.
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Conoscenza, cultura, competenza*
di Sergio Bologna
Come difendere il valore del lavoro intellettuale e creativo: un contributo alla discussione
Dovessi raffigurarmi il paradiso me lo immaginerei come una biblioteca (H. Müller)
A Roma il moto di rivolta dei lavoratori della cultura, dello spettacolo, dei media, è partito col piede giusto. I simboli contano. E’ cominciato da una biblioteca, dalla Biblioteca Nazionale. Non importa se allora la protesta è riuscita o meno, ma aver scelto una biblioteca come punto di partenza ha avuto il potere di evocare valori universali e contraddizioni importanti della nostra epoca. Cosa viene in mente a sentir dire “biblioteca”, oltre a servizio pubblico, bene comune? Provo a elencare alcune parole-chiave.
Conservazione della memoria, ricerca, silenzio, palestra della mente.
Difficile stabilire una gerarchia, ma conservare la memoria è una funzione essenziale, un cardine della civiltà, la metterei al primo posto. La Biblioteca è il luogo dove sono custoditi, salvati, i documenti con i quali si può visitare il passato e dunque conoscere meglio il presente. Senza biblioteche non c’è storia, senza storia non c’è cultura. Sono luoghi che resistono alla cancellazione permanente insita nel nostro modo di vita.
Ricerca, paziente, ostinata, che avanza passo dopo passo – l’opposto della frettolosa ricerca via Internet.
Educazione della mente, non performance. Riflessione, non prestazione. Ultimo luogo pubblico dove trovi quel bene prezioso, sempre più raro, che è il silenzio.
In una biblioteca non c’è il vuoto degli spazi pubblici inutili, tanto cari agli architetti di certi musei o gallerie d’arte.
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La rottamazione dell'intelligenza
Franco Berardi Bifo
Non bisogna pensare che quello italiano sia un caso isolato, o una controtendenza. La tendenza universale della fase finale della mutazione neoliberista era stata anticipata da Michel Foucault: nelle sue parole deve portare alla formazione del modello antropologico dell’homo oeconomicus. L’espansione delle competenze cognitive sociali per affrontare la crescente complessità del mondo tecnico e sociale, fondamentale nella storia della civiltà moderna, è stata invertita, bruscamente e drammaticamente.
«Tutti devono sapere» è lo slogan di una campagna di informazione e denuncia sulla riforma Gelmini che partirà a metà del mese di maggio nelle scuole di Bologna. Tutti devono sapere che in Italia si è avviato un processo di smantellamento del sistema di produzione e trasmissione del sapere, destinato a produrre effetti devastanti sulla vita sociale dei prossimi decenni.
Taglio di otto miliardi di finanziamenti per la scuola pubblica mentre il finanziamento alle scuole private viene triplicato. Gli effetti di questo intervento sono semplicissimi da prevedere.
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I disaccordi tra le classi dirigenti dell’eurozona sono un’opportunità per la lotta di classe
Angie Gago
L’aggravamento della crisi in Irlanda dimostra tre elementi importanti. Primo, che i salvataggi delle banche uniti ai tagli sociali e occupazionali non rappresentano affatto l’‘unica soluzione possibile’ alla crisi -come continua a predicare la classe dirigente mondiale- al contrario la peggiorano. Quando è scoppiata la crisi, tre anni fa, il governo irlandese ha garantito tutti i depositi bancari, aumentando così il debito pubblico e creando tra gli investitori internazionali la convinzione che la solvenza dello Stato irlandese era intimamente legata a quella delle sue banche private. Quando le banche coinvolte cominciarono a perdere importanti clienti, tutto affondò, aprendo così una nuova crisi politica. Il governo di Dublino fece ‘i compiti’ che gli chiedevano gli organismi neoliberisti internazionali, tagliando molti miliardi della sua spesa pubblica. Ma servì a poco per frenare la caduta; rappresentarono al contrario un disincentivo economico.
Il ‘salvataggio’ dell’Irlanda da parte dell’UE e del FMI dimostra che la crisi internazionale continua ad avanzare, con lo Stato spagnolo nell’occhio del ciclone.
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Paradigma Covid: collasso sistemico e fantasma pandemico
di Fabio Vighi
A un anno e mezzo dall’arrivo di Virus, qualcuno forse si sarà chiesto perché la classe dominante, per sua natura senza scrupoli, abbia messo nel congelatore la macchina del profitto a fronte di un patogeno che si accanisce quasi esclusivamente contro i soggetti improduttivi – quegli ultra-ottantenni che, tra l’altro, da tempo mettono a dura prova il sistema pensionistico. Perché, improvvisamente, tutto questo zelo? Cui prodest? Solo chi non conosce le mirabolanti avventure di GloboCap (capitalismo globale) può illudersi che il sistema chiuda i battenti per spirito caritatevole. Ai grandi predatori del petrolio, delle armi, e dei vaccini, non frega proprio niente dell’umanità.
Quale emergenza?
Prima di entrare nel vivo della discussione facciamo un passo indietro all’estate 2019, quando l’economia mondiale, a 11 anni dal collasso del 2008, era di nuovo sull’orlo di una crisi di nervi.
Giugno 2019: La ‘Banca dei Regolamenti Internazionali’ (BRI), potentissima ‘banca centrale di tutte le banche centrali’, con sede a Basilea, lancia un grido d’allarme sulla sostenibilità del settore finanziario. Nel suo Rapporto Annuale la BRI evidenzia il forte rischio di “surriscaldamento [...] nel mercato dei prestiti a leva”, dove “gli standard del credito si sono deteriorati” e “sono aumentate le obbligazioni garantite da collaterale (CLO).” Si tratta di prestiti erogati a società iper-indebitate che vengono poi messi sul mercato come bond. In parole povere, la pancia dell’industria finanziaria è di nuovo piena di spazzatura.
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Piccole bombe nucleari crescono
La fusione fredda e le nuove mini armi atomiche
di Emilio Del Giudice
Incontro sul libro inchiesta Il segreto delle tre pallottole di Maurizio Torrealta e Emilio Del Giudice (Edizioni Ambiente, collana Verdenero, 2010) alla libreria Odradek di milano, 1 ottobre 2010
Una delle caratteristiche della società moderna, che sembra fondata sull’abbondanza e sulla disponibilità dell’informazione, è la capacità di mantenere segreti. E li mantiene proprio grazie all’enorme quantità di informazione che viene rovesciata sulla testa delle persone le quali, non avendo più punti di riferimento, assumono, rispetto all’informazione che ricevono, un’attitudine passiva. Convinti di sapere tutto proprio perché hanno ricevuto un mare di notizie i cittadini, paradossalmente, non sanno niente. E non esiste modo migliore per nascondere la verità che fare riferimento non a bugie plateali ma a verità parziali.
Alcuni giornalisti chiesero, durante una conferenza stampa del portavoce del governo israeliano, se era vero che nel 2006, sul fronte del Libano, Israele avesse usato armi nucleari di tipo nuovo. La risposta del portavoce fu: “noi dichiariamo che l’esercito israeliano non ha mai fatto uso di armi vietate dalle convenzioni internazionali”. Il che è verissimo, l’arma di cui parliamo non è vietata dalle convenzioni internazionali, per il semplice motivo che è un arma di tipo nuovo, e quindi non è prevista nelle convenzioni internazionali; nessuno ufficialmente sa dell’esistenza di questo tipo di arma e dunque essa non è un’arma vietata.
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L’ipotesi della instabilità finanziaria e il ‘nuovo’ capitalismo
di Riccardo Bellofiore*
Questa introduzione ha un triplice obiettivo. Chiarire organicamente, passo passo, in modo il più possibile elementare, un pensiero non sempre facile, come quello esposto nel libro che qui si presenta. Integrare le tesi di questo volume con gli sviluppi contenuti nei due libri successivi di Minsky, così come nella sua ultima riflessione sul money manager capitalism e sulla ‘cartolarizzazione’, fornendo così al lettore un quadro aggiornato e d’insieme. Mostrare infine la sorprendente attualità dell’approccio dell’economista americano, quale rivelata dalle dinamiche del ‘nuovo’ capitalismo e dal ritorno della crisi finanziaria (e reale). Una interpretazione ‘finanziaria’ della teoria di Keynes
Il pensiero di Hyman P. Minsky ha ruotato attorno a tre questioni. Innanzitutto, una rilettura di Keynes come economista monetario eterodosso che sottolinea il ruolo essenziale dei mercati finanziari e l’intrinseca non neutralità della moneta. In un mondo caratterizzato dall’incertezza, le oscillazioni degli investimenti privati determinano il ciclo, mentre gli investimenti sono a loro volta influenzati dai rapporti finanziari. Di questo versante della riflessione di Minsky fanno parte integrante il c.d. Modello ‘a due prezzi’ e la ripresa delle equazioni di Kalecki per la determinazione dei profitti.
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Per una discussione su Siria, guerra e internazionalismo
di Emilio Quadrelli - Giulia Bausano
I piemontesi hanno commesso un errore enorme fin dall’inizio, contrapponendo agli austriaci soltanto un esercito regolare e volendo condurre una guerra ordinaria, borghese, onesta. Un popolo che vuole conquistarsi l’indipendenza non deve limitarsi ai mezzi di guerra ordinari. L’insurrezione in massa, la guerra rivoluzionaria, la guerriglia dappertutto, sono gli unici mezzi con i quali un piccolo popolo può vincerne uno più grande, con i quali un esercito più debole può far fronte ad un esercito più forte e meglio organizzato (K. Marx, F. Engels, Sui metodi di condotta della guerra popolare d’indipendenza)
Gli scenari che si sono delineati giorno dopo giorno in Medio Oriente sono una puntuale conferma di come, dentro la crisi sistemica del modo di produzione capitalista, la tendenza alla guerra diventi l’elemento cardine intorno al quale ruota per intero l’attuale fase imperialista. Nel mirino delle consorterie imperialiste sono entrate soprattutto quelle entità statuali che, a lungo, hanno mantenuto una posizione poco prona agli interessi del capitalismo internazionale e delle sue principali articolazioni. Buona parte di tali realtà statuali, nel corso della Guerra fredda, avevano optato per una alleanza, pur con gradi e modalità tra loro differenti, con il Blocco sovietico o la Cina dell’epopea maoista e, dopo l’89, pur all’interno di uno scenario radicalmente modificato, avevano manovrato per mantenere la propria autonomia politica e militare concedendo, almeno sul piano politico, il meno possibile agli imperativi degli organismi imperialistici internazionali, FMI e non solo. In altre parole hanno manovrato dentro i nuovi scenari internazionali cercando di scambiare una certa arrendevolezza sul piano economico in cambio di una non negoziazione della propria autonomia e sovranità politica e militare. Un fenomeno che, con gradi e modalità diverse, ha caratterizzato gran parte di quei governi che al termine delle lotte anticoloniali hanno dato vita a regimi nazionali democratico – borghesi più o meno progressisti.
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L'esaurimento dell'attuale fase storica del capitalismo
di Guglielmo Carchedi
Una tesi fondamentale per la teoria della storia e della rivoluzione di Marx è che “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso” (Per la Critica dell’economia politica, prefazione). Ora, se il marxismo è una scienza, ciò deve essere verificato empiricamente. Ma questa verifica è importante anche per un altro motivo. Come dice Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. (Quaderni del carcere , «Ondata di materialismo» e «crisi di autorità», volume I, quaderno 3, p. 311, scritto intorno al 1930). La verifica empirica ci permette anche di capire perché e soprattutto come il vecchio muore.
Nella fase storica attuale – e cioè dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi – il capitalismo incontra un limite sempre più insormontabile a causa della contraddizione tra la crescita della forza produttiva del lavoro da una parte e il rapporto di produzione, quello tra lavoro e capitale, dall’altra. Questa contraddizione si sta facendo sempre più dirompete e il capitalismo sta esaurendo le sue capacità di svilupparsi nel contesto di questa fase storica. La forma concreta presa da questa contraddizione, da questa sua crescente incapacità di svilupparsi, sono le crisi sempre più violente.
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Le false pensioni
di Galapagos
L'Ocse ha diffuso ieri un rapporto sulla spesa pensionistica nel 2005. Quello che ne emerge sono dati terrificanti per l'Italia: spende per la previdenza il 14% del Pil, quasi il doppio rispetto ai paesi concorrenti. Dopo la diffusione del rapporto c'è stata una corsa a reclamare una nuova riforma. In testa al gruppo, si è messo a tirare Enrico Letta. Ma c'è un «inghippo»: i dati Ocse sono palesemente falsi (magari ai pensionati italiani finisse veramente il 14% del Pil) e confrontano metodologie fra loro non confrontabili. Vediamo perché.
Con una premessa: oggi l'Ocse presenterà le nuove previsioni sulla crescita del Pil: l'anticipazione è che la ripresa slitterà al 2011. Nel frattempo, però, da Parigi chiedono una riforma che deve essere pagata dai lavoratori (quelli italiani sono già i più tartassati dal fisco) e non dal capitale finanziario che ha generato le bolle speculative che hanno innescato la recessione dell'economia mondiale.
Da parecchi anni in Italia viene pubblicato (a cura di Roberto Pizzuti) dal Dipartimento di economia pubblica dell'Università La Sapienza di Roma, un «Rapporto sullo stato sociale» che spiega - da tutti apprezzato - quello che l'Ocse nasconde. Apparentemente si tratta di questioni metodologiche, ma non lo sono. La spesa previdenziale pubblica è estremamente disomogenea rispetto a quella degli altri paesi.
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Lavoro autonomo in crescita anche se colpito dalla crisi
di Sergio Bologna
Nella costellazione della precarietà, il lavoro autonomo non gode certo di buona salute, anche se è spesso il modo per evitare una disoccupazione di lunga durata. In assenza di politiche del lavoro, la sua unica possibilità per sopravvivere ai colpi della crisi è riappropriarsi delle risorse destinante alla formazione
Nella provincia di Milano, la più ricca d’Italia (in termini di valore prodotto, non di reddito pro capite), secondo alcune statistiche recenti, riguardanti il primo semestre 2009, le assunzioni a termine avevano toccato punte dell’80%, portando l’incidenza di questa forma contrattuale al 56% dell’occupazione totale dipendente. Se a questo si aggiunge un 12% tra lavoro interinale e intermittente, risulta che nelle nuove assunzioni i lavoratori dipendenti con contratti a tempo indeterminato stanno sotto la soglia del 30%, ma di questi un quarto circa ha un contratto part time. Aggiungiamo le collaborazioni occasionali, cresciute del 30% nello stesso periodo, e mettiamoci su il dato impressionante che il 38,9% degli assunti a tempo indeterminato dopo 18 mesi ha cambiato lavoro – ed avremo un’idea, parziale ma non distorta, di quanto siamo diventati «flessibili». La precarietà, condizione tipica del lavoro autonomo e parasubordinato, si sta estendendo a macchia d’olio a tutti i rapporti di lavoro, quindi deve essere assunta come il punto di partenza di qualunque discorso sulla condizione umana oggi.
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La rivalutazione del renminbi fra mito e realtà
Alberto Bagnai
Il tasso di cambio del renmbimbi è un falso problema economico: ecco perché non sarà la rivalutazione della moneta cinese a salvare gli Usa e l'Europa
I giornali plaudono alla promessa di Hu Jintao di lasciar fluttuare il cambio del renminbi in risposta alla lettera di Barak Obama, che il 16 giugno si è rivolto ai “colleghi” del G-20 richiamando la loro attenzione sul fatto che “tassi di cambio determinati dal mercato (nota del traduttore: liberi di fluttuare) sono essenziali per la vitalità dell’economia globale”. Il commento più lucido mi sembra quello di Federico Rampini: “Bel colpo, Hu Jintao!". In effetti, dimostrando disponibilità alla soluzione di un falso problema economico, Hu Jintao ha spostato la pressione politica di Obama (leader del principale importatore mondiale) sull’altro grande esportatore mondiale, la Germania, creando a quest’ultima un vero problema politico.
Ho detto falso problema economico? Come? Ma se gli economisti concordano sul fatto che il disallineamento del cambio cinese è il motore primo degli squilibri macroeconomici globali? Veramente questa è la visione del problema tramandata dai media italiani, che si allineano, in questo come in altri casi, alle posizioni espresse dalle istanze più conservatrici degli Usa. Le indicazioni della letteratura scientifica sono tutt’altro che unanimi. Vale la pena di richiamarle succintamente.
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