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Una recensione a "Colonialismo cognitivo"*
di Alessandro Pallassini
Introduzione
In che rapporto stanno scienza, religione e capitalismo? E’ questa una delle tante domande a cui il nuovo libro di Franco Soldani cerca di dare risposta.
Il testo si inserisce nel solco delle analisi che l’autore porta avanti da ormai quasi due decenni e ne rappresenta, allo stesso tempo, sia una sintesi, che un approfondimento. In particolar modo, il lavoro si pone come conclusione provvisoria delle tematiche affrontate negli ultimi lavori dell’autore, riprendendo le analisi de Le Relazioni Virtuose (Ed. UNI Service, Trento, 2007) e de Il Pensiero Ermafrodita della Scienza (Ed. Faremondo, Bologna, 2009) per quanto riguarda la teoresi del rapporto tra scienza e capitale e, dall’altro lato, de Il Principio Determinante (Ed. Faremondo, Bologna, 2006) e de Il Porto delle Nebbie (Ed. Faremondo, Bologna, 2008) per quanto riguarda gli inganni del capitale e le cortine fumogene che esso ci pone costantemente davanti agli occhi. Ma i temi affrontati aprono anche nuovi orizzonti di indagine e tracciano nuove prospettive per chi voglia liberarsi dai condizionamenti a cui la società in cui viviamo ci sottopone.
Nello specifico, Colonialismo Cognitivo incentra le proprie analisi sul rapporto tra religione, capitalismo e scienza e ha come obiettivo quello di fornire una chiave di lettura alternativa della realtà in cui siamo immersi e crediamo di operare liberamente. Soldani non solo prende le distanze dal pensiero “alternativo” dell’occidente, in particolar modo da quello marxista nelle sue variegate declinazioni, ma cerca anche di mostrare come l’intero pensiero occidentale, a partire dalla sua genesi nella Grecia classica, determini una progressione e uno sviluppo funzionale all’affermazione del capitalismo così come oggi ci si mostra.
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Un passaggio essenziale nella teoria di Marx
di Gianfranco La Grassa
Si tratta di un brano, un semplice e solo brano delle migliaia di pagine scritte da Marx e spesso pubblicate dai suo successori, magari con aggiunte non sempre messe in evidenza nella loro non stesura (o almeno non completa e letterale) fatta proprio da lui. Ma non m’interessa nulla di tutto questo. L’importante è fissare le parti salienti di una teoria scientifica e mostrarne la rilevanza ancora attuale e, ancor più, laddove essa va rielaborata alla luce dell’esperienza storica di un secolo e mezzo! Riporto quindi un brano tratto dal III Libro de “Il Capitale”, cap. XVII.
«Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui REALMENTE ATTIVI NELLA PRODUZIONE, DAL DIRIGENTE ALL’ULTIMO GIORNALIERO [maiuscolo mio].
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Fredrich Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”
di Alessandro Visalli
Un giovane di ventiquattro anni, figlio di un industriale tedesco con una importante filiale Manchester, scrive nel 1844 e pubblica quasi subito un libro che resterà come esempio di inchiesta sul campo e di vivida descrizione degli orrori lasciati dal primo capitalismo industriale nella regione in cui questo si sviluppa. Un classico della scienza sociale che evita accuratamente, pur nella crudezza delle descrizioni, ogni intonazione moralistica per cercare di individuare, con la freddezza dell’anatomopatologo, le ragioni dell’inumano spettacolo che ci sottopone. La storia del libro è di occasione: il padre, che aveva una fabbrica in renania, cerca di allontanare il figlio dalle sue cattive compagnie (il circolo degli hegeliani di sinistra a Berlino) e lo manda ad occuparsi appunto della filiale di Manchester.
Contemporaneamente Karl Marx stava scrivendo i cosiddetti “Manoscritti economico-filosofici del 1844” e lo stesso Engels aveva scritto in quell’anno “Lineamenti di una critica dell’economia politica”, quattro anni dopo insieme e su incarico della Lega dei comunisti i due scriveranno “Il Manifesto del Partito Comunista”.
C’è una fondamentale differenza tra lo sguardo che il giovane filosofo getta sulla condizione di immenso degrado dei quartieri popolari delle città industriali inglesi e quello dei contemporanei: la borghesia dell’epoca, per tutti i primi tre decenni dell’ottocento si è interrogata su questo degrado esclusivamente sotto la lente interpretativa dei “poveri”. Nel 1834 vengono quindi emanate le nuove “Poor Law” contro le quali nell’ultima parte del libro Engels si scaglia con veemenza, ma nessuno aveva inquadrato il meccanismo produttivo, e la costruzione di spazio e tempo dominati dalla logica fredda e spietata della concorrenza e del capitale che la muove. Quella di Engels è, invece, una inchiesta che legge le condizioni igienico-abitative della classe operaia, nelle sue diverse articolazioni, come effetto dei processi fisici di urbanizzazione interamente guidati dal profitto, e ne mostra il meccanismo. I protagonisti del libro sono le città, quindi le macchine entro le fabbriche, l’uomo ne è un effetto.
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La crisi globale e la Pizia cinese
Cronaca di un’estate torrida
Angela Pascucci
Alla fine è arrivato Capitan America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che nessuno si aspettava e il rinvio dell’aumento dei tassi di interesse, e i foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro sistema spompato. Le Borse mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la “tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che, a leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è acquattato dietro l’angolo.
Ragion per cui l’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.
Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa, il governo di Pechino prima interviene massicciamente per bloccare il crollo, poi lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90 milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a entrare nel recinto dei razziatori di professione è come andare contro la forza di gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare fiato all’economia in panne.
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Europeismo, euroscetticismo e sovranità nazionale
di Enrico Grazzini
La sinistra vuole un'altra Europa, una Europa rifondata: ma prima occorre prendere coscienza che per realizzarla è necessario smantellare l'attuale architettura dell'Unione Europea e demolire i presupposti alla base dell'unione monetaria. Riformare i vigenti trattati europei è un tentativo nobile. Ma è anche una missione pressoché impossibile perché occorre l'unanimità del voto di tutti i 28 paesi UE per modificare il trattato di Maastricht. Anche per innovare lo statuto della Banca Centrale Europea occorre l'assenso dei 28 paesi. Basterebbe l'opposizione di un solo stato, di un solo governo, per bloccare ogni tentativo di riforma! E' più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli!
Sul piano politico, è improbabile riformare la UE in senso progressista dal momento che i governi europei che contano, con l'eccezione della Francia socialista, sono conservatori (Gran Bretagna), di centrodestra (Spagna) o di larghe intese (Germania, Italia). Per costruire un'Europa socialmente e ambientalmente sostenibile occorrerebbe però (condizione necessaria ma certo non sufficiente) che nei maggiori paesi della UE, Germania compresa, nel giro di pochi anni andassero al potere governi di sinistra. Tuttavia lo spostamento a sinistra dell'Europa è davvero molto difficile. E' già arduo riuscire a eleggere un governo di sinistra in un solo paese, figuriamoci nella maggioranza dei 28 paesi!
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Con questi tagli si torna agli anni trenta
di Vladimiro Giacché
Nell’estate del 2009 il recupero degli indici borsistici iniziato a marzo sembrava ormai consolidato e l’intera finanza internazionale poteva tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Autori di questo miracolo, che aveva impedito al mondo di precipitare in una seconda Grande Depressione, erano, a giudizio di tutti, gli Stati e le banche centrali. Con interventi di entità senza precedenti, a cominciare da massicce nazionalizzazioni di banche e assicurazioni. Questo neo-interventismo statale fu in parte frainteso come “keynesiano” (mentre non si trattava di investimenti pubblici per rilanciare la domanda aggregata, ma di semplice socializzazione delle perdite), e diede luogo anche a polemiche sui rischi di un ritorno in grande stile dell’intervento pubblico nell’economia. Già allora ebbi a scrivere che si trattava di polemiche fuori bersaglio: “le cose stanno diversamente. La gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico, se non è riuscita né a ridurre l’entità complessiva del debito né a rianimare l’economia, può porre le premesse di un’ulteriore crisi del debito: quella, appunto, del debito pubblico, o – come si dice in gergo – sovrano; con uno Stato costretto a impegnare risorse che non ha e oltretutto privato dalla stessa crisi delle entrate fiscali necessarie anche solo a sostenere la normale amministrazione. A questo punto il risultato… sarebbe una pesantissima crisi fiscale dello Stato, un’ulteriore drastica riduzione del suo ruolo nell’economia e il campo libero lasciato alle grandi multinazionali private… Se così accadesse, del welfare resterebbe ben poco” (introduzione a "K. Marx, Il capitalismo e la crisi", DeriveApprodi, 2009, pp. 49-50).
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Crisi in Darfur: il sangue, la fame e il petrolio
Parla Mohamed Hassan
Intervista di Gregory Lalieu e Michel Collon
Il primo genocidio del 21° secolo si sta svolgendo nel Darfur? Questa regione del Sudan è teatro di un conflitto che sensibilizza l'opinione pubblica internazionale. Da qui ci raggiungono le stesse immagini di miseria tipiche di ogni conflitto consumato sul suolo africano: gli uomini laceri, i bambini piangono e il sangue scorre. L'Africa è tuttavia il continente più ricco del mondo. In questo nuovo capitolo del viaggio che abbiamo intrapreso per "comprendere il mondo musulmano", Mohamed Hassan ci rivela le origini del paradosso africano e ci ricorda che il Sudan oltre a ospitare diverse etnie e religioni, abbonda sopratutto di petrolio.
Quali sono le origini della crisi in Darfur? L'attore americano George Clooney in qualità di testimonial per "Save Darfur" ha denunciato l'assassinio degli africani per mano delle milizie arabe. Per contro il filosofo Bernard-Henry Levy, che ugualmente cerca di mobilitare l'opinione pubblica internazionale, sostiene che si tratta di un conflitto tra l'islam radicale e l'islam moderato. La crisi nel Darfur è etnica o religiosa?
La vasta regione africana ricca di risorse poteva essere unita e sviluppata…
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La vita non essenziale
di Cristina Morini
«Le attività non essenziali»: passerà alla storia questa dizione legata alla pandemia Covid-19 a definire tutto ciò che non attiene alla sfera delle attività ufficialmente immesse nel processo di produzione capitalistico e non formalmente retribuite. Per essere più chiari essa prova a definire quegli atti che non sono «condizioni oggettive del lavoro» della «forza-lavoro viva», quindi, marxianamente, non fanno parte «dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione» [1]. O, più semplicemente ancora, circoscrive tutto ciò che non può dirsi «occupazione retribuita, considerata come mezzo di sostentamento e quindi esercizio di un mestiere, di un’arte o di una professione» [2].
Si tratta perciò della sfera ibrida delle azioni umane improduttive che hanno a che vedere con il relazionarsi con gli altri, con i legami sociali, con aspetti che impegnano le nostre vite e il loro mantenimento in una rete di rapporti molteplici con altri esseri viventi, al di fuori dal tempo del lavoro produttivo certificato come tale. L’affermazione del governatore Toti di tenere a casa i non indispensabili non fa che ribadire ulteriormente il principio ispiratore degli apparati decisionali di fronte all’emergenza sanitaria. Un piano tutto ordinato intorno al ruolo essenziale del profitto che va accettato in una sorta di sottomissione collettiva ritualizzata. A fare resistenza rispetto alla narrazione dominante, governata attraverso lo strumento velenoso della paura mediatica, sono state soprattutto le donne.
Affermo una volta per tutte, per l’ennesima volta, che il problema dell’emergenza sanitaria è grave e reale, soprattutto perché il sistema si è dimostrato incapace di reggerne l’urto. Le disposizioni governative che abbiamo visto succedersi fino ad ora hanno messo in luce un modello atto soprattutto a preservare le attività esplicitamente economiche (pubblico-produttive) e a limitare tutte quelle correlate alle relazioni umane (privato-improduttive).
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Il “Manifesto per l’accoglienza degli immigrati” e la sinistra francese
di Alessandro Visalli
A settembre 2018 Mediapart ha lanciato un “Manifesto per l’accoglienza degli immigrati”, che ha avuto un grande riscontro in Francia, con oltre 40.000 adesioni in particolare nel mondo intellettuale (da Etiene Balibar, Jean-Louis Cohen, Thomas Piketty), un commentatore, cogliendo bene lo spirito, ha scritto in calce alla petizione di Change.org “Firmo perché, bastano i bla! Siamo prima di tutto umanisti …”. Con lo stesso rispettabile spirito le Chiese Evangeliche italiane hanno promosso questo altro Manifesto, che, onestamente, si presenta come posizione essenzialmente morale.
Definirsi “prima di tutto umanisti” coglie molto bene lo spirito attuale di buona parte della sinistra contemporanea, orfana di visioni sintetiche che forniscano il punto di vista dal quale criticare il mondo essa si è ritirata nel principale deposito di senso della civiltà occidentale, erigendosi a suo custode: l’umanesimo cristiano.
Una postura morale carica di orgoglio, in buona misura mal riposto[1], che sostituisce interamente, nella mente e nel cuore di una donna e uomo di sinistra, il punto di vista socialista che ha corposi elementi di derivazione dal cristianesimo, ma che in esso non si esaurisce. Il punto di vista del marxismo socialista sulla storia è la lotta. In essa intravede costantemente lo scontro tra chi domina, e si appropria della ricchezza e della vita, e chi è dominato, ovvero sfruttato e costretto da rapporti sociali che sono preordinati a sottrarre il surplus prodotto. È la dinamica dello sfruttamento, ovvero della creazione ed estrazione del surplus, a determinare la struttura della società. Come scrive sinteticamente Paul Sweezy, “agli inizi fu la schiavitù, in cui il lavoratore è proprietà del suo padrone.
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Fare la propria parte: Rosa Luxemburg e la disciplina della rivoluzione
di Michele Cento e Roberta Ferrari
Pubblichiamo l’introduzione al seminario dedicato a Riforma e Rivoluzione di Rosa Luxemburg che ∫connessioni precarie ha organizzato lo scorso autunno. Il testo – che in realtà è più che un’introduzione perché tiene ampiamente conto della discussione seminariale – sarà seguito da un prossimo contributo su L’accumulazione del capitale. Queste riflessioni ‘guardano oltre le polemiche furiose che hanno caratterizzato la storia del movimento operaio. Esse non sono perciò un esercizio di storia del pensiero politico socialista’, ma intendono ‘rilevare e proporre alla discussione alcuni argomenti politici a partire da Rosa Luxemburg’. Ciò che ci interessa non sono le etichette, ‘ma l’attitudine di parte che ci sembra anche l’elemento più vivo della riflessione luxemburghiana, che impone di sovvertire l’ordine della società capitalistica senza astrarre dalle sue istituzioni ma affrontandole faccia a faccia’.
***
«Il più profondo spirito teorico del marxismo». Così, qualche anno dopo la sua scomparsa, il leader bolscevico Karl Radek ricorda Rosa Luxemburg. Radek è una delle tante figure di punta dell’Internazionale che non hanno lesinato parole di elogio per Luxemburg dopo la sua morte, benché in vita si sia trovato nella non invidiabile posizione di dover polemizzare con lei. Polemico è d’altronde il modo di Rosa Luxemburg di stare nel movimento operaio: esponente di spicco del partito socialdemocratico in Polonia, dove è nata, e poi della SPD – il partito socialdemocratico tedesco – una volta trasferitasi in Germania, interprete raffinata e originale di Marx, la sua attività teorica punta a sconfiggere l’opportunismo dei riformisti, a liquidare il purismo infantile degli estremisti e a spingere la classe operaia a liberarsi da se stessa.
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Le radici storiche della fame
di Piero Bevilacqua
Se ne parla ormai con allarme da molti mesi. Agli abituali 800 milioni e passa di affamati annualmente censiti dalla FAO se ne va aggiungendo un numero imprecisato che aumenta di giorno in giorno.Analisti e commentatori hanno chiarito soprattutto le ragioni congiunturali di ciò che sta avvenendo: crescita della domanda, soprattutto di carne e quindi di mangimi nei Paesi emergenti, annate di prolungata siccità in importanti regioni cerealicole, vaste superficie di suoli convertiti ai biocarburanti, aumento del prezzo del petrolio, speculazione finanziaria sui titoli delle materie prime, ecc. E tuttavia l’attuale fase non è un congiuntura astrale, il fatale combinarsi di “fattori oggettivi”. Luciano Gallino, su Repubblica , ha ben messo in luce le responsabilità dell’Occidente nel determinare le condizioni dei nostri giorni. Ma le responsabilità non sono solo recenti, rimandano a una storia di scelte e di strategie che occorre rammentare se si vogliono trovare soluzioni durevoli a un problema di così scandalosa gravità.
La diffusione epidemica della fame nel mondo ha una origine storica ormai non più recente.Essa nasce con la rivoluzioneverde avviata dagli USA negli anni ’60 in vari Paesi a basso reddito e proseguita con crescente intensità nei decenni successivi. Quella rivoluzione venne definita verde perché essa aveva il compito strategico di contrastare, nelle campagne povere del mondo, l’onda rossa del comunismo.
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La riforma costituzionale: pericoli in agguato
di Giovanna Baer
Il prossimo 4 dicembre si terrà il referendum costituzionale, ma il dibattito politico sembra essersi spostato su un tema diverso e apparentemente sconnesso da quanto previsto dalla legge di riforma del-la Costituzione del 15 aprile 2016 (legge Renzi-Boschi): in particolare, l’attenzione è rivolta alle modifiche da apportare alla nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum (1). Si tratta della solita schizofrenia italiana oppure i due temi sono strettamente correlati? Entriamo nel dettaglio delle due leggi per comprendere – e il lettore scuserà i tecnicismi, ma non se ne può fare a meno.
Perché un referendum?
L’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il seguente quesito referendario:
“Approvate voi il testo della legge costituzionale concernente ‘Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V del-la parte II della Costituzione’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”(2).
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Epoca del computer e lavoratori
Limiti e prospettive del conflitto sociale
di Giorgio Paolucci
Introduzione
Secondo le previsioni di tutte le più importanti istituzioni economiche mondiali il 2014 doveva esser l’anno della svolta e avrebbe dovuto far registrare una generalizzata ripresa dell’economia mondiale.
I dati più recenti dicono invece che non solo non vi è stata inversione di tendenza ma che ormai la crisi ha investito anche aree, come quelle dei paesi emergenti, che in fatto di crescita sembravano destinate a frantumare ogni record e che rallenta perfino la fabbrica del mondo, la Cina. Anche negli stati Uniti, dove pure negli ultimi anni il Pil è cresciuto di qualche punto, come ha recentemente riconosciuto anche l’attuale presidente della Fed, Janet Yallen, la situazione è tutt’altro che brillante: “Il tasso di disoccupazione rimane significativamente al di sopra di quello che la maggior parte dei membri della Federal Reserve considerano normale nel lungo periodo, e le risorse sono sottoutilizzate… Il ritmo lento dell'aumento dei salari riflette le difficoltà del mercato del lavoro"[1].
Alcuni economisti, fra cui Larry Summers, ex ministro del tesoro durante la presidenza Clinton, e il premio Nobel Paul R. Krugman, riprendendo una tesi avanzata già negli anni trenta da Alvin Hanse, Gunnar Myrdal e John Maynard Keynes, di fronte a questi dati hanno formulato la tesi della stagnazione secolare, la cui causa sarebbe una strutturale insufficienza della domanda aggregata conseguente al calo della natalità nei paesi economicamente più sviluppati.
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La connessione meridionale. Podemos, Syriza e i movimenti
Intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar
Pubblichiamo una lunga intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar, entrambi militanti di Podemos, ma anche ricercatori sociali. Il nostro intento era quello di guardare alla Grecia a partire dalla Spagna, cercando di mettere a tema similitudini e differenze tra i due modi di affrontare il nodo del rapporto tra movimenti e istituzioni. Questo rapporto d’altra parte non è riducibile alla scelta di partecipare o non partecipare alle elezioni. Solo lo sconcertante dibattito italiano può ridurre il problema all’accettazione o – specularmente ‒ al rifiuto di stabilire una qualche alleanza con un ceto politico residuale o con qualche piccolo partito più o meno esistente. La tensione tra movimenti e istituzioni è in realtà un campo politico in cui si tratterebbe di mettere alla prova realisticamente la propria capacità di ottenere risultati, dimostrando l’efficacia del moto dei movimenti invece di fissarli in traiettorie definite e determinate una volta per tutte, lungo le quali ci si muove con la sicurezza di chi affronta percorsi conosciuti e cerca di evitare ogni novità.
L’intervista è stata fatta prima dell’ultimo round delle trattative tra il governo greco e le istituzioni europee, quindi non tiene ancora conto del tentativo di governare l’aporia che esse hanno evidenziato.
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Adele sfida i potenti
"Ipocriti, questo è il nostro funerale"
«Caro ministro Clini, caro magnifico rettore: oggi state celebrando un funerale, non l’inaugurazione della nostra università». Scena surreale, a Parma, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico: a scuotere l’aula è una ragazza, Adele Marri, portavoce del collettivo studentesco “Anomalia Parma”. Una requisitoria memorabile. La ragazza parla per cinque, interminabili minuti: parole durissime, scolpite nell’aria. Una denuncia drammatica, che ha la fermezza composta e terribile di un testamento. E’ la vigilia di una morte annunciata: fine della scuola, della libertà, della democrazia. Fine dello Stato di diritto. E fine del futuro, per decreto dell’infame Europa del rigore. Lo scenario: crimini contro l’umanità di domani, quella dei giovani. Sentenza senza appello. E senza neppure la dignità di un commento: ammantati di ermellini, gli emeriti membri del senato accademico restano ammutoliti, dietro al clamoroso imbarazzo del “magnifico rettore”.
«Prima, il rettore ha detto che l’università è un luogo libero», esordisce Adele, che protesta: lezioni sospese per permettere a tutti di partecipare alla cerimonia inaugurale, «e invece quello che abbiamo trovato è stata un’università blindata da cordoni di polizia e carabinieri con scudi e manganelli».
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Il “ritorno dello Stato” come amministratore della crisi
Norbert Trenkle
1.
Gran parte della sinistra riconduce l’attuale crisi economica mondiale a cause politiche. Secondo questa sinistra, il neo-liberalismo, che ha totalmente deregolamentato il mercato e in modo particolare scatenato i mercati finanziari, ha fallito. Adesso ci aspetterebbe una nuova era di regolamentazione e controllo statale, su cui diventerebbe perciò essenziale incidere. Punti centrali sarebbero il ridimensionamento del capitale finanziario e il rafforzamento dell’economia reale, la quale da parte sua dovrebbe essere riformata in senso ecologico e sociale. La riuscita di questo progetto dipenderebbe soprattutto dai rapporti di forza e dalla mobilitazione politica.
2.
Questa analisi trascura però l’origine di fondo della crisi globale. Anche se essa è stata innescata da un crack dei mercati finanziari, le sue cause vanno cercate in tutt’altro luogo. L’enorme rigonfiamento dei mercati finanziari degli ultimi 30 anni non dipende da decisioni politiche arbitrarie o sbagliate, ma è espressione di una crisi strutturale della valorizzazione del capitale, crisi che è emersa con la fine del boom fordista del dopoguerra.
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Le meravigliose bolle di sapone Carry Trade
di Nouriel Roubini *
Da marzo i prezzi delle attività rischiose di ogni genere (azioni, petrolio, energia, materie prime) hanno ripreso a correre, gli spread creditizi tra titoli ad alto rendimento e di alta qualità hanno cominciato a ridursi, e le attività dei paesi emergenti (azioni, obbligazioni, valute) sono risalite ancora di più. Contemporaneamente, il dollaro si è fortemente indebolito, mentre i rendimenti dei titoli di stato sono leggermente saliti, ma sono rimasti bassi e stabili.
Questa ripresa degli asset rischiosi è trainata in parte dal miglioramento dei fondamentali dell'economia. Abbiamo evitato una quasi depressione e il tracollo del sistema finanziario grazie a un imponente piano di stimoli monetari e di bilancio e agli interventi di salvataggio delle banche in difficoltà. Sia che la ripresa segua una curva a V, come ritiene la maggior parte dei commentatori, o un'anemica curva a U, come ritengo io, i prezzi delle attività dovrebbero gradualmente crescere.
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Seconda questione di geopolitica: il “cuore della terra” al fronte sud
di Uber Serra
Nella prima puntata di questa inchiesta sullo stato attuale della narrazione geopolitica autentica (quella di H. Mackinder, per intenderci) s’è detto che per essa c’è un luogo privilegiato del pianeta il cui governo consentirebbe il dominio del mondo: è questo il “cuore della terra” (o Heartland) che coincide con la Russia nella estensione delle steppe dal Dniepr alla Kamciakta. Però la Russia è stretta dal Mar Glaciale Artico a nord e dalla fascia dei deserti asiatici a sud, sicché per esercitare il pieno controllo sul pianeta dovrebbe spingere la propria supremazia su una di quelle “terre di confine” (poi dette Rimlands dal geopolitico americano Nicholas Spykman) che la circondano ad ovest (Europa e Balcani), a sud (Medio Oriente e Persia) e a est (Cina e Corea) e che si affacciano, per l’appunto, sui mari caldi. Proprio per evitare tanta jattura Mackinder aveva affidato, al suo tempo, alle due isole dirimpettaie al continente euroasiatico, la Gran Bretagna e il Giappone, il compito strategico di “salvare” il mondo dalle mire planetarie di Mosca, un compito però che dopo la seconda guerra mondiale, avendo tradito il Giappone il suo “dovere” geopolitico ed essendosi esaurita la Gran Bretagna a sua difesa, è stato assunto su tutti i fronti dai più robusti e onnipresenti Stati Uniti d’America. Ed è questo il “destino” americano che perdura tuttora sebbene l’URSS sia scomparsa, e questo perché la Russia è cattiva non perché zarista, sovietica o quant’altro, ma perché geopoliticamente resta comunque il “cuore della terra”.
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Ripensare i fondamenti per la sinistra: ‘libertà’
di Alessandro Visalli
Gianpasquale Santomassimo, recentemente, ha scritto nel tempio della sinistra-sinistra mainstream, Il Manifesto, che dopo questa sconfitta epocale “senza ripensare tutto sarà impossibile ripartire”. Come scrive Fabrizio Marchi su l’Interferenza, ha proprio ragione.
Ma ripensare tutto, che significa?
Bisognerebbe intanto capire meglio che cosa designiamo con ‘sinistra’, perché in essa convergono tradizioni e culture non sempre compatibili, ed in particolare bisognerebbe riguardare alla storica opposizione tra ‘liberalismo’ e ‘socialismo’ ed alle loro reciproche ragioni; da questo angolo ripensare alla differenza tra ‘cosmopolitismo’ e alle ragioni, non tutte innocue, per le quali alcuni socialismi e pressocché tutte le sinistre oggi lo sposano (anche se a volte sotto l’etichetta di ‘internazionalismo’, che a guardare l’etimo ha la potenzialità di avere diverso significato). Su questo sentiero si incontra da una faccia diversa lo stesso europeismo, progetto storicamente essenzialmente liberale, e spesso della versione di destra di questo. E si incontra anche l’universalismo: specificamente quella versione intrecciata all’utilitarismo che sta alla radice, non vista, della presunzione di beneficio globale da attribuire alla libertà di movimento, dunque alle immigrazioni/emigrazioni senza limiti.
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La deriva della politica costituzionale
di Ida Dominijanni
C’è un tratto poco sottolineato della retorica renziana che consiste nel ricondurre a necessità storica, quando non a dato naturale, ciò che è invece oggetto di scelte politiche soggettive e contingenti. È un tratto importante, perché sintomatico di una contraddizione, e probabilmente di una debolezza, dell’ideologia dell’attuale classe di governo: l’appello ripetuto alla necessità urta infatti visibilmente con le pretese decisioniste del presidente del consiglio e del suo inner circle. Ed è in compenso del tutto organico – a onta della missione “rivoluzionaria” che il renzismo si attribuisce - alla razionalità neoliberale e alla naturalizzazione dell’esistente che essa sottintende e persegue.
In questo intervento vorrei cercare di mostrare come questo circolo vizioso fatto di appello alla necessità, naturalizzazione dell’esistente e retorica rivoluzionaria abbia agito e stia agendo nella propaganda della riforma costituzionale.
A un certo punto dell’iter parlamentare della legge che porta il suo nome, la ministra Boschi l’ha glorificata come la riforma che gli Italiani “aspettavano da 70 anni”: ovvero, a essere precisi, da tre anni prima che la Carta del 1948 venisse promulgata. Giova tornare sull’episodio, perché raramente una sola frase riesce a condensare una tale capacità performativa di falsificazione del passato e di manipolazione del presente e, nei programmi della ministra, del futuro.
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La distruzione del tempio di Baal a Palmira. Lettura geopolitica
di Piotr
Geopolitica e arte nella crisi sistemica. Usano la narrazione del fondamentalismo islamico per distruggere le basi mitopoietiche della civiltà umana
Quando visitai il tempio di Baal a Palmira rimasi affascinato e commosso.
Era l'anno prima dell'inizio della cosiddetta (dai nostri media e intellettuali) "rivolta anti Assad", ovvero l'attacco imperiale con mercenari tagliagole alla Siria.
E tagliagole lo sono. L'ultima gola tagliata è stata quella di Khaled al-Asaad, ottuagenario direttore dei siti archeologici di Palmira.
Dopo la sua decapitazione l'ISIS ha distrutto il tempio di Baal. Me lo aspettavo da tempo. Lo hanno fatto ieri.
Chi non lo ha già visto non lo vedrà mai più.
L'impero in difficoltà, e pertanto pericolosissimo, non vuole davanti a sé nazioni, civiltà, società strutturate e potenzialmente solidali (e qui i devoti dellareligionelaicista, quella del genitore 1 e genitore 2, devono riflettere molto). Sono di ostacolo, anche quando non sono direttamente "competitor". Perché coi competitor possono allearsi o anche solo rimanere neutrali e quindi ostacolare le manovre imperiali di aggiramento, avvolgimento, conquista e minaccia.
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La guerra dei Minibot: gli scenari della crisi italiana
di Enrico Grazzini
La battaglia politica sui minibot è sempre più accesa: il Parlamento Italiano ha votato all'unanimità a favore dell'emissione dei titoli fiscali proposti da Claudio Borghi della Lega con il supporto dei 5 Stelle, ma poi PD e Forza Italia si sono schierati contro i minibot. Anche Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, Vincenzo Boccia, a capo di Confindustria, e il ministro del Tesoro Giuseppe Tria hanno espresso chiaramente la loro contrarietà verso la proposta votata dal Parlamento italiano. Per contro i due vice-presidenti del Consiglio dei Ministri, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno attaccato il “loro” ministro contrario ai minibot. E' scoppiata quindi una vera e propria guerra politica sui titoli di stato con valore fiscale che dovrebbero essere emessi per pagare gli arretrati della pubblica amministrazione alle imprese e ai privati cittadini. La posta in gioco è alta: in futuro l'emissione dei minibot potrebbe perfino mettere in discussione la partecipazione dell'Italia nell'eurozona e quindi provocare anche la rottura dell'euro[1].
Le polemiche riguardano le caratteristiche e gli obiettivi dei minibot: questi titoli fiscali che circolerebbero in Italia anche come contante, sono legali o illegali? Rappresentano o no una moneta parallela? Violano il monopolio della Banca Centrale Europea sull'euro, l'unica moneta legale dell'eurozona? I minibot sono realmente efficaci per ridare liquidità alle imprese? Sono utili per rilanciare l'economia reale? O servono invece solo come espediente per uscire dall'Euro? Aumentano o no il debito pubblico? Esistono sistemi alternativi di titoli fiscali più efficaci nel rilanciare l'economia nazionale, che non aumentino il debito pubblico e garantiscano di essere pienamente rispettose delle regole dell'eurozona?
Queste le domande che attraversano il mondo politico, quello dell'economia e l'opinione pubblica, a cui questo articolo intende dare delle risposte.
Un'avvertenza preliminare: la polemica sui minibot non è di poco conto, è seria ed è, magari anche con diverse forme e contenuti, destinata a durare e a crescere. La questione monetaria non può mai essere trattata in maniera derisoria e superficiale, come hanno fatto molti commentatori paragonando i minibot alle monete false del gioco del Monopoli.
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Eurodisastro
di Carlo Clericetti
Quello che è accaduto con il rifiuto del presidente Sergio Mattarella di accettare la designazione di Paolo Savona come ministro dell’economia, e la conseguente rinuncia di Giuseppe Conte a formare il governo, apre una crisi dagli sviluppi imprevedibili, che forse il presidente della Repubblica non ha valutato appieno e da cui non può venire nulla di buono per il paese e per i suoi cittadini.
Una premessa, che serve ad attirarmi le critiche sia da una parte che dall’altra, cosa in cui posso vantare una certa abilità. Consideravo il governo gialloverde una jattura, visti i suoi propositi. Un “governo del cambiamento” che avrebbe esordito con un condono fiscale (oltretutto, entrata una tantum per finanziare una riduzione di entrate permanente) offriva già un biglietto da visita particolarmente contraddittorio e indigesto. Ma poi, una riforma fiscale che avrebbe avvantaggiato i più benestanti e ancor di più i più ricchi; una riforma della Fornero su misura per gli elettori leghisti del nord, visto che al sud “quota 100” la raggiunge al massimo un piccolo numero di dipendenti pubblici; le posizioni sui migranti; una impostazione di politica economica di sapore liberista nonostante alcune misure in controtendenza. Questo e altro lo rendevano molto lontano da chi abbia un orientamento di sinistra.
E però, dopo le elezioni 5S e Lega avevano trovato un accordo per formare un governo e disponevano della maggioranza parlamentare per appoggiarlo. In democrazia questo basta, a meno di esplicita volontà di tale maggioranza di voler mettere in questione la Costituzione, nel qual caso il capo dello Stato, che ne è il garante, avrebbe il diritto-dovere di rifiutare l’incarico. Ma non è questo il caso, e infatti nel suo discorso Mattarella non ha detto nulla del genere.
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Filosofia della precarietà del filosofo odierno
Recensione di ‘Filosofia precaria’ di G. Stamboulis
di Francesco Brusori*
Giorgio Stamboulis, Filosofia precaria, il Vicolo, Cesena 2017
Il saggio di Giorgio Stamboulis introduce subito un quesito stringente, che richiede un ingresso ex abrupto del cogito:«cos’è oggi la filosofia?» (p. 13). E altrettanto violentemente si scarica la risposta: «una grande assenza» (ibid.). Infatti sembra che eminentemente ‘contemporaneo’ sia il problema della filosofia, ovvero il fatto che la filosofia stessa costituisca una grande problematica.
Seguendo l’autore, è evidente che lo status proprio della filosofia versi in una condizione critica. Essa, oggigiorno, si presenterebbe quasi del tutto schiacciata dall’immane peso del suo aulico passato e pronta a soccombere dinnanzi all’orizzonte futuro. Forse perché d’altronde un sapere troppo vasto annienta con la stessa naturalità con cui una tradizione troppo venerabile finisce per immobilizzare ogni intento. In una tale situazione non resta che il naufragio. O meglio: di fronte alla grandezza vincolante del trascorso, risulta – per parafrasare un celebre verso di G. Leopardi – «dolce il naufragar» nel mare magnum dell’avvenire, nel quale però si penetra senza alcuna guida capace di indicare la via nel nuovo stato di cose. E la perdizione della coscienza filosofica non può che avvenire nella persona del filosofo.
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Gli esiti mutevoli della deflazione
di Maurizio Sgroi
La spinta alla crescita
Per quanto tendiamo a non farci caso, siamo figli della nostra storia. Ed è stupefacente notare come eventi da noi lontanissimi, ormai dimenticati, si riverberino sui comportamenti presenti e, peggio ancora, sulle nostre convinzioni, conducendo sovente a scelte errate che alimentano ulteriormente i nostri pregiudizi.
Siamo figli della storia, pure se ci piace rappresentare il nostro pensiero razionale come un tutt’uno avulso dalle sue declinazioni pratiche. E anche in questo scorgo l’eco di un abito mentale remotissimo che ognuno di noi cova nell’intimo pure senza conoscere il mito della caverna di Platone.
In questo pantheon affollato di usi e luoghi comuni, che qui si limita al discorso economico, trova un posto d’onore il concetto di deflazione che le cronache hanno fatto risorgere all’attualità dopo averlo confinato per decenni sui libri di storia, e segnatamente negli anni ’30, quando la deflazione apparve nel suo volto più mostruoso, che ancora oggi giustifica il suo inserimento di diritto nella categorie delle cose cattive che possono accadere a un’economia.
Ma, come sempre accade, il diavolo non è mai così’ brutto come lo si dipinge. E la storia, pittore esclusivo delle nostre convizioni, la si può raccontare in tanti modi, come ci ricorda un recente articolo (“The costs of deflations: a historical perspective“) pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis.
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Contro Houellebecq
La sottomissione di Sisifo
di Lorenzo Mecozzi
Prima di iniziare la lettura dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Soumission (Sottomissione, nella traduzione italiana Bompiani, uscita nelle librerie il 15 gennaio), e viste le polemiche suscitate dal romanzo a seguito degli eventi degli ultimi giorni, avevo iniziato a far mente locale sul rapporto tra romanzo e morale, tra i diritti del racconto e i doveri del romanziere, ma soprattutto sulle responsabilità del giudizio critico.
Per la vicinanza tematica e di visione del presente che lega Houellebecq a Walter Siti (due “apocalittici-integrati” della letteratura contemporanea secondo la bella definizione di Carlo Mazza Galanti), per prima cosa mi era tornata in mente la lunga ed appassionata discussione nata su Le parole e le cose, a seguito di un articolo nel quale Gianluigi Simonetti rispondeva al saggio che Andrea Cortellessa aveva voluto dedicare a Resistere non serve a niente di Siti. Così avevo iniziato a riflettere su quel “purtroppo”, pronunciato da Cortellessa, che aveva dato il via alla discussione (“E Resistere non serve a niente – purtroppo – è il libro più bello dell’anno”) e sui tre argomenti con i quali Simonetti ne aveva negato la legittimità (l’«argomento-Bataille», l’«argomento De Sanctis», l’«argomento Engels» – anche se le definizioni sono sempre di Cortellessa), preparandomi a dover affrontare problematiche simili nel recensire Houellebecq. Le prime pagine del romanzo, tuttavia, disinnescavano ogni preoccupazione, almeno nel senso che le roboanti critiche al libro lasciavano immaginare, consegnandomi alla lettura di un’opera allo stesso tempo tipicamente houellebechiana e in qualche modo diversa da tutti gli altri romanzi di Houellebecq.
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I limiti interni del capitale
R. Hutter intervista Ernst Lohoff e Norbert Trenkle
Nel loro ultimo libro, La Grande Devalorizzazione. Perchè la speculazione ed il debito statale non sono la causa della crisi, Ernst Lohoff eNorbert Trenkle rivolgono una particolare attenzione all'evoluzione dell'economia reale nella loro analisi della crisi, distinguendosi in cio' dal novero delle altre pubblicazioni che trattano lo stesso tema. Ralf Hutter, giornalista del quotidiano Neues Deutschland, ha incontrato Ernst Lohoff (intervista apparsa sul citato quotidiano il 13.12.2012)
Ralf HUTTER: Voi affermate che il vostro libro La Grande Devalorizzazione va piu' in profondità di tutti gli altri lavori che trattano la crisi economica. Perchè questo?
Ernst LOHOFF: Innanzitutto perché noi abbiamo studiato la correlazione che vi é tra questa crisi e la progressiva scomparsa del lavoro. La maggior parte delle analisi si limitano a dire che vi sono state delle derive a livello dei mercati finanziari ma che l'economia “reale” (le virgolette sono del traduttore, ndr), quanto ad essa, è rimasta fondamentalmente sana. Noi invece consideriamo anche nel dettaglio l'evoluzione dell'economia “reale”. Ragioniamo essenzialmente sul piano delle categorie, avendo quale sistema di riferimento teorico la critica marxiana all'economia politica.
RH: E' esatto affermare che l'attuale crisi s'era in fondo già manifestata nel 1857, come voi lasciavate intendere nel corso di una conferenza tenuta non molto tempo fa?
EL: No. Fino a oggi non s'era mai visto, nemmeno lontanamente, l'accumulazione del capitale scatenarsi sino a questo punto di effettivo sfruttamento del lavoro. Quello che non e' cambiato, di contro, è il fatto che gli episodi di crisi aperta partono, oggi come ieri, dai mercati finanziari. E oggi come ieri gli osservatori ne hanno dedotto che la causa del male risiedesse nella finanza.
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Il fiasco di Copenhagen
Leonardo Mazzei
L’impossibile patto tra ambiente e capitalismo
Per non decidere nulla, decidendo in realtà che il disastro ambientale può tranquillamente proseguire, si sono riuniti a Copenaghen in 15.000 (quindicimila). Per raggiungere la capitale danese in aereo (alcuni, come Obama e Sarkozy, con i rispettivi jet presidenziali) e per spostarsi con le loro auto di lusso (secondo il Telegraph erano presenti 1.200 «limousine»), hanno prodotto l’emissione di 40.500 tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente delle emissioni annue di 660mila etiopi.
Non è uno scherzo, sono dati ufficiali dell’ONU, forse resi noti per dare ancora un qualche senso alla propria attività sul fronte climatico dopo il fallimento consumatosi nella città della Sirenetta.
Un fallimento annunciato, ma che ha superato al ribasso la più pessimistica delle previsioni.
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Note introduttive per il convegno
Associazione "Politica e classe"
Il capitale percepisce ogni limite come ostacolo e lo supera idealmente se non l’ha superato nella realtà:
dato che ognuno di questi limiti è in opposizione alla dismisura inerente al capitale, la sua produzione si muove attraverso
contraddizioni costantemente superate, ma altrettanto costantemente ricreate.
Karl Marx “Grundrisse”
Una premessa
Come appare ormai a tutti evidente la questione ambientale, complessivamente intesa dai problemi del clima fino al vivere quotidiano delle popolazioni, ha assunto da alcuni decenni un carattere strategico rispetto alle possibilità di sviluppo dell’umanità, mentre i sempre più accentuati ed accelerati processi di valorizzazione del capitale amplificano una situazione che sfugge di mano alle classi dirigenti che dovrebbero guidare l’attuale sistema sociale e le relazioni economiche e produttive internazionali.
E’, infatti, palese che la contraddizione che si manifesta tra crescita economica ed ambiente naturale riveste un ruolo centrale, ma un’ analisi strutturale di questa dinamica non può avere esclusivamente una lettura che si astrae da un sistema di relazioni sociali determinato storicamente e concretamente agente cercando la motivazione dell’attuale situazione in cause antropologiche per cui una generica natura umana tende ad essere “nemica” dell’ambiente ed ad esso estranea. Il rischio che corrono queste interpretazioni è quello di dare una visione parziale e, pensando di contrastare il degrado ambientale, di occultare le cause sociali del problema assolvendo dalle responsabilità chi invece ne è la causa.
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Cosa è andato storto nelle politiche anti COVID
di Redazione
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo documento critico sulle modalità in cui è stata gestita la crisi sanitaria legata al Covid-19. All’insegna del pluralismo informativo e del dissenso informato
Prime firme:
Sara Gandini (epidemiologa biostatistica), Mariano Bizzarri (oncologo e saggista), Emilio Mordini (medico psicoanalista e filosofo), Fabrizio Tuveri (medico), Maurizio Rainisio (matematico statistico), Marilena Falcone (ingegnere biomedico), Maria Luisa Iannuzzo (medico legale), Elena Flati (biologa nutrizionista e farmacista), Clementina Sasso (astrofisica), Ugo Bardi (chimico) .
Sottoscritto da:
Massimo Cacciari e la Commissione Dubbio e Precauzione, Elena Dragagna (giurista), Gilda Ripamonti (giurista), Maria Sabina Sabatino (storica dell’arte), Guglielmo Gentile (giornalista), Remo Bassini (giornalista), Luciana Apicella (giornalista), Francesca Capelli (sociologa e insegnante), Ludovica Notarbartolo (libraia), Thomas Fazi (Giornalista e saggista), Francesca Gasparini (Studiosa di performance e docente di musica).
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In base alle conoscenze disponibili all’inizio della pandemia era difficile capire quali scelte sarebbero state più efficaci. Oggi si possono valutare tali scelte, e individuare quelle sbagliate. Vinayak Prasad, ematologo-oncologo e professore associato di Epidemiologia e Biostatistica presso l’Università della California, ha stilato recentemente un elenco degli errori commessi durante la pandemia. Noi abbiamo preso spunto dallo stesso e questo è il nostro punto di vista anche rispetto all’Italia partendo dalle evidenze scientifiche attuali:
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