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aprileonline

Ok, il prezzo è giusto. Cause e rimedi per l'inflazione

Domenico Moro

Un recente  articolo di Paolo Savona, "economista etico" e le sue contraddizioni fanno da spunto per una riflessione sul concetto di mercato e soprattutto di "libero" mercato

Non lo sapevamo ma siamo noi la causa del nostro male. Ce lo rivela l'economista Paolo Savona dalle colonne del Messaggero. Se l'inflazione cresce, indipendentemente dall'andamento delle materie prime, la colpa è della "gente", che chiede di frenare l'azione del libero mercato, e dei sindacati, contrari alle liberalizzazioni, come quelle contenute nella direttiva Ue Bolkestein. Così, ci rimangono, secondo Savona, due soluzioni. La prima è stringere la cinghia e ridurre drasticamente i consumi (sic!), aspettando che il mercato riallinei i prezzi alla domanda, e la seconda è...l'etica.

La Chiesa dovrebbe, insieme ai media e ai gruppi dirigenti, affermare un sistema di valori etici che conducano al rispetto del "giusto prezzo". Un principio che la dottrina cattolica insegna da oltre un secolo ma, fino ad ora, con scarsi risultati. Chissà perché. Comunque, secondo Savona, solo un mercato etico può funzionare, mentre ogni eventuale azione regolatrice, anche sui prezzi, dello Stato è destinata al fallimento, perché...il mercato è il mercato e va lasciato alla sua autoregolazione.

Ma, se, a detta di Savona, non ha senso regolare o limitare da parte dello Stato una economia di mercato, come si può allora sottometterla ad un sistema di valori etici? Mistero. Ma abbandoniamo l'economista etico alle sue contraddizioni e proviamo a scavare nel concetto di mercato e soprattutto di "libero" mercato. L'identificazione tra capitalismo e libero mercato, in cui molteplici capitali agiscono in concorrenza perfetta, è una forzatura teorica, ed anche un po' datata, visto che risale al settecentesco Adam Smith. E' facilmente osservabile che è proprio la "salvifica" concorrenza, eliminando progressivamente le imprese più deboli, a spingere alla concentrazione in aziende sempre più grandi e quindi all'oligopolio ed al monopolio. Mentre l'intervento dello Stato, in favore dello sviluppo del capitale o del suo salvataggio nei periodi di crisi, caratterizza la storia di tutte le nazioni. Ma lasciamo la storia e guardiamo alla cronaca. I processi di privatizzazione hanno semplicemente trasformato monopoli pubblici in monopoli privati, offrendo ai privati occasioni di investimento protetto. Le "liberalizzazioni", inoltre, hanno fatto registrare risultati opposti a quelli auspicati, anche in termini di prezzi, che, dopo una prima fase di calo, tendono invariabilmente a risalire, visto che le imprese fanno cartello tra di loro. La verità è che l'unico mercato che si avvicina all'ideale liberista e che esiste nella realtà è uno solo, quello del lavoro. Un mercato che è stato ampiamente liberalizzato in questi anni, con l'introduzione dei contratti precari, e che si vuole liberalizzare ancor di più, come è appunto nel caso della direttiva Bolkestein e della abolizione del contratto nazionale che, invocata ad ogni sospiro dalla Marcegaglia, va nella direzione di rendere ancor più individuale la posizione del lavoratore nei confronti dell'azienda. Nella realtà è il lavoratore che si ritrova sul mercato del lavoro, come venditore singolo della sua capacità di lavoro ed in concorrenza con tutti i suoi simili, di fronte ad un capitale protetto, concentrato, consapevole dei suoi obiettivi ed unito. Il venditore di forza lavoro è, comunque, sempre costretto a vendere, per poter sopravvivere, mentre il capitale può decidere di non acquistare, ad esempio spostando gli investimenti alla speculazione finanziaria o dirottandoli altrove, dove acquistare a migliori condizioni, come avviene con le delocalizzazioni o sostituendo lavoratori con macchine o facendo semplicemente lavorare di più i lavoratori che rimangono (vedi la detassazione degli straordinari). E', quindi, nel mercato del lavoro che la legge della domanda e dell'offerta può meglio dispiegarsi ed il salario, il prezzo della forza lavoro, vi si deve adeguare. Abbiamo così il prezzo della forza lavoro liberalizzato, a fronte di prezzi monopolistici per molte merci del consumo quotidiano dei lavoratori. Un rapporto ineguale, le cui conseguenze si vedono. Questa è l'economia reale, in cui l'unica cosa "sacra" è l'auri sacra fames e l'unica "etica" è quella del saggio di profitto. L'aumento dei prezzi è solo un mezzo "artificiale" per aumentare i profitti. Infatti, anziché aumentare i profitti mediante miglioramenti di processo e di prodotto, visto che questo comporterebbe innovazioni ed investimenti, si preferisce alzare i prezzi. In questo modo non si crea ricchezza aggiuntiva, ma si trasferisce semplicemente ai profitti una parte maggiore del valore prodotto, riducendo al contempo quella parte che va ai salari, degradandone il potere d'acquisto. Né deve destare meraviglia che in periodi di crisi si verifichi il fenomeno della stagflazione, perché è proprio nelle fasi di stagnazione economica che riemerge più decisamente la tendenza a fare profitto senza investire, da cui derivano il monopolio, le protezioni statali e, infine, l'inflazione. Certo, il meccanismo funziona se i salari rimangono fermi. Infatti, quando si parla di inflazione, si tende a dimenticare che, se i salari potessero adeguarsi all'aumento dei prezzi, il giocattolo perderebbe la sua ragion d'essere. Né viene in mente, a parte amenità come il "giusto prezzo", che la causa principale dell'immiserimento delle condizioni di vita dei salariati è l'abolizione di quel meccanismo riequilibratore, unico strumento di difesa dall'inflazione, che era la scala mobile. L'inflazione non è una "malattia della società" come sostiene Savona, citando Churchill, ma un'arma del profitto nello scontro irriducibile che lo oppone al salario. La soluzione non sta, quindi, in una immaginaria economia etica, ma nel trattare questa lotta come tale, cioè combatterla, e con tutti gli strumenti possibili.

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