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Per una teoria rivoluzionaria dello Stato

di Asad Haider e Salar Mohandesi

la-presa-della-bastiglia-rivoluzione-francese"Credo che lo status dello Stato nel pensiero della sinistra attuale sia davvero problematico"1, scriveva Stuart Hall nel 1984, nel bel mezzo dell'attacco portato da Margaret Thatcher al "nemico interno". Rifletteva sul retaggio del dopoguerra, periodo durante il quale si era avuto l'allargamento del servizio pubblico entro l'ottica di una vasta espansione dell'intervento dello Stato nella vita associata. La successiva crisi e il conseguente riplasmarsi del capitalismo globale furono caratterizzati dall'uso strategico di operazioni di polizia e repressione, per non parlare del potere militare globale - la dottrina del warfare a braccetto con quella del welfare. La descrizione data da Hall a proposito del dilemma ideologico affrontato dalla sinistra sarebbe, con qualche piccolo aggiornamento terminologico, perfettamente attuale negli Stati Uniti di oggi:

Da una parte, non solo difendiamo la componente assistenziale dello Stato, ma sosteniamo per di più che questa andrebbe fortemente estesa. Eppure, d'altro canto, percepiamo qualcosa di profondamente anti-socialista nel funzionamento di questo stato sociale. Sappiamo infatti che masse di persone comuni, proprio mentre beneficiano dei suoi aiuti, percepiscono lo Stato come una forza che in maniera assillante gestisce e burocratizza le loro vite.

Ma se ci spingiamo oltre su questa strada,  troviamo a farci compagnia durante il tragitto nientemeno che i thatcheriani, la nuova destra, gli appassionati predicatori del mercato libero, che sembra (diciamolo con un sussurro) dicano cose molto simili a proposito dello Stato. La differenza è che loro sono, allo stesso tempo, intenti ad accumulare capitale mentre trattano il sempre più diffuso malessere popolare in modo da indirizzare gli stessi beneficiari degli aiuti dello Stato verso una crociata contro la sinistra, volta a ridurre il ruolo dello stesso dello Stato. E dove ci troviamo noi, in tutta onestà, riguardo a questa questione? Siamo per la riduzione dello Stato - compreso lo stato sociale? Siamo a favore o contro la gestione della società nel suo insieme da parte dello Stato? Il thatcherismo - non che sia la prima volta - prende qui in contropiede la sinistra - che zompetta da una posizione incerta a un'altra, insicuri come siamo del terreno che abbiamo sotto i piedi2.

Oggi ci troviamo di fronte a un'espansione ancor più drastica del potere dello Stato. Persino i media mainstream mostrano con trepidazione le nuove tecnologie di sorveglianza e la crescente fusione del controllo poliziesco e militare, unitamente alla continua crescita di carceri e al rafforzamento della dominazione imperiale.

L'ipertrofia della dimensione repressiva dello Stato è andata di pari passo, però, con un'amputazione delle sue funzioni di welfare. La ristrutturazione neoliberale cominciata negli anni Settanta è perciò percepita da una buona parte della sinistra come una perdita degli effetti divini dello Stato, e di tutto quel che derivava dalla regolazione della finanza e dall'incorporazione dei mercati entro i sistemi nazionali. Lo Stato, notiamo desolatamente nell'epoca dell'austerità, è insegnati e uffici postali così come poliziotti e prigioni. "Presi in contropiede", come diceva Hall, stiamo a domandarci se non sarebbe meglio prendere le distanze dal Tea Party e dai fautori dell'austerità del Democratic Party e dei partiti socialdemocratici europei, mentre difendiamo lo Stato troppo assistenziale3 dal troppo business. Non riusciamo a trovare una via d'uscita da questo vincolo: combattere alcuni aspetti dello Stato - la violenza della polizia, un sistema giudiziario razzista, apparati di sorveglianza arrivati oltre le migliori aspettative di J. Edgar Hoover - tentando però in ogni modo di preservarne altri - un debole sistema di educazione pubblica, l’attacco ai programmi di welfare sociale, infrastrutture che si disgregano. Intanto, uno dei più preziosi principi della nostra tradizione - non la riforma, non l'infiltrazione, ma l'abolizione dello Stato - rischia di essere abbandonato agli slogan delle frange più esagitate del partito repubblicano.

Purtroppo, queste elaborazioni sono anche divenute un ostacolo per una chiara comprensione del capitalismo contemporaneo. Sono stati completamente oscurati il ruolo dello Stato nella gestione della crisi seguita al boom del dopoguerra, e la natura del neoliberalismo come un progetto interamente guidato dallo Stato - per cui la coordinazione istituzionale dei mercati e la penetrazione della finanza nella vita quotidiana, entrambi elementi del retaggio del New Deal, erano profondamente articolati e ampliati nell'ottica di un assalto frontale al lavoro4.

La brutale realtà dello Stato neoliberale, ampiamente visibile all'esame della storia economica, è allo stesso tempo documentata nelle dottrine dei suoi teorici - in una sorta di unità tra teoria e pratica neoliberale, efficacemente chiarita dalle ammirate visite di Friedrich Hayek al Cile di Augusto Pinochet. Come potrebbero riconoscere Ralph Miliband e Nicos Poulantzas, nel caso della convergenza, mai riconosciuta, tra loro che cominciava a svilupparsi mentre il famoso dibattito tra i due si faceva al vetriolo, si può rinvenire nella sconfitta di Salvador Allende, che aveva già sollevato il problema chiave riguardante lo Stato - le questioni parlamentari, le alleanze politiche interne al personale di Stato, l'uso socialista dell'apparato statale, la relazione della riforma dello Stato con i movimenti popolari, e il pericolo portato dalla violenza della destra5. Il problema dello Stato era al centro tanto della sconfitta della sinistra, quando dell'ascesa del neoliberalismo.

Fortunatamente, negli anni recenti abbiamo visto grossi cambiamenti e aperture di possibilità politiche. Dopo un lungo periodo di declino, un nuovo ciclo di lotte sembra essere emerso, nel segno di un forte incremento di movimenti radicali che ingaggiano uno scontro con lo Stato. Le mobilitazioni globali contro le leggi repressive sull'immigrazione, le violenze della polizia, l'austerità, mettono direttamente sul tavolo la questione dello Stato. Dopotutto, le battaglie contro l'inquinamento delle acque, contro il razzismo della polizia, e sul futuro della scuola pubblica sono tutte questioni che riguardano lo Stato. Ma assieme a questi movimenti vi è anche una sorprendente rinascita di partiti elettorali e programmi socialisti - da Syriza in Grecia, a Podemos in Spagna, a Kshama Sawant a Seattle  - unita a una forte eccitazione a proposito di municipalismo, referendum popolari, e persino in merito alla possibilità [negli Stati Uniti ndt] di un futuro terzo partito [cioè diverso da Repubblicani e Democratici ndt].

Tuttavia la relazione tra i due differenti approcci politici non è ben definita. Una parte della sinistra spera di prendere parte alla gestione dello Stato - per poter tentare riforme migliorative, per restaurare le forme di spesa pubblica che avevano caratterizzato l'ormai mutilato welfare state, per spingere a sinistra gli esponenti politici istituzionali, o per avere essa stessa degli eletti in parlamento o nelle giurisdizioni locali. All'estremo opposto vi sono quelli che rigettano categoricamente il terreno elettorale, identificando la linea primaria della lotta nello scontro con la polizia. Mentre i militanti condannano coloro che cercano di lavorare entro le maglie dello Stato, denunciando pubblicamente ogni tipo di partecipazione simile come un'irrimediabile capitolazione entro le logiche dello Stato stesso, i pragmatisti insistono invece a dire che una politica di scontro può arrecare solamente danno al movimento, e demonizzano i loro presunti compagni in termini a volte peggiori di quanto non faccia la destra. Nel passato, i movimenti socialisti si sono battuti per articolare questi differenti approcci nei confronti dello Stato entro un fronte comune; oggi invece, la distanza tra questi differenti approcci è grande come non mai.

La situazione nella quale ci troviamo richiede dunque un serio ripensamento strategico dello Stato. Il rinnovato vigore delle battaglie elettorali da una parte e delle mobilitazioni di area militante dall'altra compongono un panorama vivido, ma caratterizzato da una "eterogeneità di tattiche" che disorienta. Troppo spesso però il linguaggio usato dagli intellettuali per teorizzare questa contrapposizione rimane bloccato dentro tradizioni di pensiero obsolete, che si portano dietro i rancori delle generazioni precedenti - riguardanti l'anarchismo, il leninismo, l'eurocomunismo. È tempo di smettere di dare la caccia ai fantasmi. Una rinnovata teoria dello Stato, quel tipo di teoria che può aiutarci a superare le ambiguità politiche del presente, emergerà da un terreno d'incontro, dalla convergenza di prospettive differenti nate in specifici ambiti di lotta inserite in spazi e tempi differenti. L'obiettivo di questo numero di Viewpoint6 è quello di dare un contributo alla ricostruzione di una siffatta teoria. Non abbiamo "linee" da proporre: al contrario, puntiamo sul fatto che un insieme di strategie storicamente appropriate possa iniziare a emergere proprio attraverso combinazioni e confronti inediti.

* Traduzione di Andrea Ligi

1 Corsivo nel testo [ndt].

2 Stu­art Hall, “The State – Socialism’s Old Care­taker,” in Marx­ism Today (Novem­ber 1984), disponibile anche in The Hard Road to Renewal (Lon­don: Verso, 1988). Si veda la riflessione autocritica di Hall sui temi di questo articolo e sull'eredità di Marx­ism Today nella sua intervista con Helen Davis in Under­stand­ing Stu­art Hall (Lon­don: Sage, 2004), 157-8; si veda inoltre l'acuto articolo di Robin Blackburn sul cammino politico di Hall, in “Stu­art Hall: 1932-2014”, New Left Review 86 (March-April 2014).

3 Big government, espressione solitamente adoperata da coloro - dai libertari ai conservatori - che intendono criticare un intervento troppo forte dello Stato sulla vita associata.

4 Per degli esempi degni di nota a proposito dell'ampia letteratura sullo stato neoliberale si vedano: Werner Bone­feld, “Free econ­omy and the strong state: Some notes on the state”, in Cap­i­tal & Class 34 (2010); Mar­tijn Kon­ings, “Neolib­er­al­ism and the Amer­i­can State”, in Crit­i­cal Soci­ol­ogy 36:5 (2010).

5 Si veda Ralph Miliband, “The Coup in Chile”, in Social­ist Reg­is­ter 10 (1973), disponibile anche in Class Power and State Power (Lon­don: Verso, 1983); e Nicos Poulantzas, State, Power, Social­ism (Lon­don: New Left Books, 1978), 263. In un manoscritto in corso di preparazione, tracciamo questa convergenza e cerchiamo di spiegare la sua rilevanza, ma il punto è già stato sollevato da attenti lettori di Miliband e Poulantzas. Si vedano in merito: Leo Pan­itch, “The State and the Future of Social­ism,” in Cap­i­tal & Class 4:2 (1980); “Ralph Miliband, Social­ist Intel­lec­tual,” in Social­ist Reg­is­ter 31 (1995); “The Impov­er­ish­ment of State The­ory”, in Par­a­digm Lost: State The­ory Recon­sid­ered (Min­neapo­lis: Uni­ver­sity of Min­nesota Press, 2002). Per quanto riguarda nello specifico il loro dibattito, si veda Bob Jes­sop, “Dia­logue of the Deaf: Some Reflec­tions on the Poulantzas-Miliband Debate”, in Class, Power and the State in Cap­i­tal­ist Soci­ety: Essays on Ralph Miliband, ed. Paul Wetherly, Clyde W. Bar­row, and Peter Burn­ham (Lon­don: Pal­grave Macmil­lan, 2008).

6 Si veda Issue 4, The State, consultabile all'indirizzo internet http://viewpointmag.com/2014/10/30/issue-4-the-state/ , ultimo accesso 10/12/2014 [ndt].

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