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lavoro culturale

Il lato cattivo della storia

di Emilio Quadrelli

A partire da “La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini” (Feltrinelli, 2003), scritto con Alessandro Dal Lago, Emilio Quadrelli riflette sul lato cattivo della globalizzazione e su un mercato globale che, ancor prima che le merci, “produce produttori” e condizioni di lavoro marginalizzanti

melilla border marocQui si genera il mondo delle ombre: masse senza volto costrette lungo un “asse orizzontale” fatto di lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo. Condizione che cagiona continue incursioni nell’ambito delle economie informali e/o illegali e che condanna il migrante, oggetto di una reiterata stigmatizzazione sociale fondata sulla “linea del colore”. Condizione che, tuttavia, sembra fagocitare il futuro prossimo anche di gran parte della forza lavoro in pelle bianca lungo un processo di globalizzazione in basso.

Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d’arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta per “questo anno” (K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica).

Quando, nel 2003, La città e le ombre veniva data alle stampe, l’ordine discorsivo imperante era del tutto imprigionato all’interno delle cosiddette retoriche securitarie, ossia della minaccia che i mondi illegali rappresentavano per la società legittima.

In quel volume, sulla scia delle tesi e delle argomentazioni foucaultiane presenti in Sorvegliare e punire, si mostrava, attraverso l’utilizzo di corposi materiali etnografici, come la relazione crimine – polizia, ovvero il rapporto tra la città legittima (i cittadini) e la sua parte illegale (le ombre) non desse adito ad alcun aut aut, ponendo al contrario un ben più prosaico e realistico et et. In altre parole, si raccontava come le ombre non facessero altro che fornire beni di consumo e servizi formalmente illeciti ma ampiamente richiesti dai cittadini.

Il crimine, questa la tesi da noi sostenuta, non è qualcosa che infrange l’ordine sociale, bensì un elemento che lo rafforza. In seconda battuta, ne La città e le ombre, si poneva in evidenza come le trasformazioni apportate dall’era del cosiddetto capitalismo globale stessero globalizzando in basso quote sempre più ampie di popolazione. Una condizione che, a cascata, si sarebbe estesa a quote sempre più ampie di subordinati facendoli precipitare nella condizione di masse senza volto. In definitiva, ciò che la nostra ricerca evidenziava era la brutale e realistica constatazione/previsione che il mondo delle ombre sarebbe stato il destino di gran parte dei subalterni. A determinare questa categoria vi era ben poco di culturale o, come all’epoca si amava dire, di etnico. Si trattava piuttosto d’un insieme di ragioni concrete e materiali che chiamavano in causa il modello di produzione e la forma politica a esso congeniale. Lì, nell’inferno della produzione e non nel cielo delle retoriche culturali, andava rintracciata la genealogia delle ombre.

Il modo in cui prendeva forma e sostanza la giornata lavorativa di non pochi subalterni ne rappresentava la migliore delle esemplificazioni. Ciò che emergeva dai nostri materiali empirici dimostrava come per i globalizzati in basso il continuo attraversamento della soglia tra attività lecite, semi lecite e illegali fosse ormai una banale routine dettata, molto prosaicamente, dalle diverse opportunità che il mercato del lavoro globale poneva dinanzi a loro. Alfieri di tale condizione e al contempo oggetti di una reiterata stigmatizzazione sociale erano gli immigrati i quali, nel contesto, si mostravano gli attori sociali più deboli ma non solo. La loro debolezza sembrava essere anche e soprattutto frutto di una particolarità che li poneva a una distanza siderale dalle condizioni di vita medie delle popolazioni autoctone. In una società che, per molti versi, poteva definirsi «la società dei due terzi», le pratiche di esclusione, marginalizzazione e conseguente stigmatizzazione del restante terzo potevano avere, e avevano, buon gioco. Tutto ciò in un contesto che si andava però modificando di giorno in giorno; tanto che, a nostro avviso, la condizione di ombra sarebbe diventata addirittura maggioritaria nelle nostre società urbane, mentre lo status di cittadino si sarebbe pian piano sempre più ristretto dando vita a un modello politico e sociale che, fatte le tare del caso, avrebbe ricordato assai da vicino le società liberali edificate intorno al cittadino proprietario.

Questa, a nostro avviso, sarebbe stata la storia del nostro futuro. Mentre i più osservavano i processi di globalizzazione dal suo lato buono (su tutti, si veda il Fukuyama de La fine della storia e l’ultimo uomo) noi ne assumevamo come dato costitutivo, costituente e universalizzante il suo lato cattivo. Tale scenario è stato considerato da molti critici al limite del catastrofismo: frutto, più che di una ricerca scientifica, di un irriducibile radicalismo politico e teorico sempre pronto a cogliere le contraddizioni immancabili in ogni processo storico e a non valorizzarne le infinite positività. A nostro avviso, invece, proprio il modello in sé del capitalismo globale non poteva che andare verso la direzione da noi ipotizzata. Dicevamo ciò quando il turbocapitalismo procedeva incontrastato e nessuna crisi sembrava profilarsi all’orizzonte. In realtà, la crisi economica in atto non ha creato l’attuale modello sociale, ne ha semplicemente velocizzato e generalizzato la messa in forma. Vediamola in atto.

 

Crisi e modello sociale

Ridotta all’osso, per esemplificare la posizione che gli individui occupano nello scenario sociale contemporaneo, è possibile immaginarli all’interno di due rette, una che si muove in orizzontale e l’altra che corre in verticale. Sull’asse orizzontale sono allocate quelle quote di popolazione la cui quotidiana materialità oscilla tra lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo o le continue incursioni nell’ambito delle economie informali e/o illegali. Passaggi dettati da semplici contingenze strutturali (maggiore o minore richiesta di lavori di basso profilo) o individuali (opportunità offerte occasionalmente da uno dei tanti segmenti delle economie informali). Costoro, nella migliore delle ipotesi, potranno aspirare a una dignitosa esistenza al servizio di un qualche padrone-cittadino e, se saranno servi mesti e fedeli potranno, come nella Londra vittoriana, contare sulla benevolenza caritatevole del padrone, il quale non rifiuterà loro i suoi abiti, smessi ma ancora in buono stato.

Diverse le vite e le opportunità per coloro le cui esistenze sono inserite sull’asse verticale, il mondo dei cittadini. Complesso, non omogeneo, dove le posizioni di rendita, di prestigio e potere sono oggetto di una stratificazione sociale ossessiva e la lotta per l’affermazione individuale feroce, priva di scrupoli e incessante ma – ed è questo il nocciolo della questione – con qualcosa che le assimila e le rende affini: le opportunità a portata di mano sono, se non infinite, numerose e pur sempre spendibili all’interno di uno stile di vita inclusivo e rispettabile.

Paradigmatica, per quanto concerne la prima postazione, la figura del migrante. Un paio di decenni addietro, quando i migranti cominciavano a fare corposamente capolino nei nostri mondi a nessuno poteva venire in mente che quelle figure povere e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte dei subalterni indigeni. Erroneamente considerati lavoratori marginali, appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe indicato il futuro prossimo di gran parte della forza lavoro locale. La convinzione e allo tesso tempo l’illusione – jobs act docet – che i rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato (stabilizzatisi, pur con gradazioni diverse nel cosiddetto Primo mondo e nell’Europa occidentale in particolare) avessero raggiunto un equilibrio non più storicizzabile e pertanto non soggetto a nuova negoziazione, era un credo condiviso dai più.

Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento dell’era globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e stili di vita condizionati da mode e gusti sovranazionali. Nella peggiore delle ipotesi, il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di imperialismo culturale. Prospettiva che per molti, più che criticabile, si mostrava appetibile, in quanto concretizzazione di quell’edonismo reaganiano che aveva governato gli immaginari di gran parte delle popolazioni occidentali a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Sia come sia, le ricadute che l’era globale ci avrebbe riservato non sembravano essere molte di più. Finalmente si poteva dire: Siamo tutti americani!

In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti, quella presenza culturalmente così diversa e apparentemente pre-globale non faceva altro che rendere ancora più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversate le mansioni tipiche di ciò che il discorso culturale dominante ascriveva alla tarda modernità. Un retaggio dal quale, per quanto fastidioso, le nostre società immateriali non potevano del tutto emanciparsi. Mentre i nostri mondi entravano nell’era post-lavoro, i suoi residui potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni oggettivamente in ritardo con il progresso. Se, in qualche modo, il mondo di ieri o alcuni suoi tratti dovevano reiterarsi anche nel presente, era esattamente tra le popolazioni del Terzo mondo che questo doveva essere confinato. All’interno di tale scenario tutti, o almeno quote consistenti di popolazione indigena, potevano reinterpretare le retoriche proprie dell’Algeria di papà. A conti fatti sembrava di essere di fronte all’ennesima reiterazione di un modello fondato sulla “linea del colore”: marchiando il lavoro in pelle scura si fornivano postazioni di rendita e privilegio al lavoro in pelle bianca. Modelli propri del colonialismo.

Ciò che palesemente sfuggiva era il lato cattivo della storia. Repentinamente questo lato si è fatto egemone e ha mostrato appieno il suo volto. Abbastanza velocemente, infatti, il capitalismo globale ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancora prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drammaticamente “scoperto” che il capitalismo globale per essere tale non può far altro che, in tendenza, trovare di fronte a sé una forza-lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile, continuamente sotto ricatto, marginalizzata e socialmente esclusa. La produzione di ombre è la condizione strategica dell’attuale modello sociale ed economico.

Di ciò si ha una facile conferma osservando il dilatarsi esponenziale della popolazione ascritta, a diversi gradi, all’interno dell’area penale. Una popolazione che ha ben poco in comune con il Lumpenproletariat il quale, storicamente, ha raccolto tra le sue fila i residui delle classi sociali storicamente sconfitte. Se nel passato le ombre rappresentavano ciò che rimaneva del mondo di ieri, oggi le stesse sono un presente che anticipa la storia del nostro futuro.

 

Tratto da Il lavoro culturale

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