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effimera

Colti in trappola. L’università postfordista e la formazione del cognitariato

Giuseppe Burgio

Una seconda lettura per l’estate: un saggio di Giuseppe Burgio pubblicato su Studi della formazione (2014). Burgio è un ricercatore di pedagogia di Palermo e in questo testo ricostruisce bene i problemi di quadro dell’istituzione universitaria (che, come Effimera, abbiamo diffusamente affrontato in questo periodo, a partire dal caso di Roberta Chiroli), stretta tra dispositivi neoliberali, profondamente connessi alla crisi, processi di esclusione differenziale, gerarchie, valutazione e debito. Il tutto nell’orizzonte del capitalismo biocognitivo, cioè all’interno di un nuovo paradigma produttivo, e nel crescere del ruolo “ri-produttivo” assunto dal cognitariato.

3433080 n 1Cifra della nostra società è l’avvenuto passaggio dal modo di produzione fordista a quello postfordista. In questo contesto, la corrente teorica del post-operaismo vede come centrale la dimensione cognitiva del lavoro, che si manifesta ormai in ogni attività produttiva, materiale o immateriale che sia.

Dopo aver definito tale cornice teorica, queste pagine si concentreranno sulla precarietà lavorativa e sull’affaticamento esistenziale di quanti hanno affrontato un percorso di istruzione superiore all’università, proponendo la tesi che – proprio per poter essere adattati a, e inseriti nel, postfordismo – questi futuri lavoratori del cognitariato siano stati formati da un dispositivo economico ed educativo complesso, paragonabile a quello che nel capitalismo industrialista permise la formazione (cioè la costituzione sociale e il condizionamento culturale) del proletariato.

Tale dispositivo verrà analizzato in alcune delle sue curve attuative – studiandone le conseguenze da un’ottica pedagogica – in relazione alle trasformazioni del mondo del lavoro, ai mutamenti del sistema della formazione e alle riforme che da ormai 25 anni interessano quasi incessantemente l’università italiana.

All’interno di questo orizzonte, una fascia specifica dei lavoratori della conoscenza (quella coinvolta nella ricerca e nell’insegnamento accademico precario) emerge come ingranaggio importante dell’autoasservimento del cognitariato, incarnando – in questo modo – una particolare contraddizione.

 

Il postfordismo

La nostra società mostra un nuovo panorama lavorativo articolato in tre ambiti.

Abbiamo ancora il vecchio lavoro ripetitivo, taylorizzato, legato però oggi ai ritmi di una macchina sempre più intelligente che tende a sostituirsi alla manodopera umana1 e che sempre meno ha bisogno delle competenze del lavoratore2.

Accanto a ciò, abbiamo i servizi alla persona: è l’ambito – legato alle esigenze (e spesso all’arbitrio) di altre persone – che comprende badanti, cuochi, bambinaie, infermieri, sex worker, massaggiatori, etc. Nell’epoca postfordista, infatti, le prestazioni lavorative tendono a svolgersi prevalentemente nel campo delle relazioni umane e la professionalità si definisce sempre meno in termini “industriali” e sempre più in termini di servizi alla persona3. Tale trasformazione – è bene sottolinearlo – non si limita però “alla sola sfera della produzione di beni e servizi, ma comprende la sfera della distribuzione, della vendita-consumo, la sfera riproduttiva. Per questa ragione, il lavoro comunicativo-relazionale, che di solito è definito per le sole attività di cura e di servizi generici alle persone, ha in realtà una valenza universale”4. In tutti gli ambiti lavorativi, compresi quelli industriali, assistiamo infatti da tempo a quella che è stata definita una tendenziale servilizzazione del lavoro produttivo5: il lavoratore non fornisce più solo forza-lavoro ma tutto se stesso, gentilezza, buonumore, disponibilità e “bella presenza” compresi. Ma il termine servilizzazione implica anche il fatto che il lavoro tende a essere dequalificato: basti pensare alla proliferazione di impieghi a paga irrisoria, basso prestigio, scarsa realizzazione e futuro improbabile (i cosiddetti “McJob”), in particolare nel settore dei servizi.

Il terzo modello (relativamente più recente) del postfordismo è infine rappresentato dalla forma del lavoro immateriale: la manipolazione di simboli, idee e sogni, che impiega segretarie, ricercatori, operatori dei call center, insegnanti, agenti di viaggio, consulenti, mediatrici culturali, tutor d’aula, grafici, informatici, stilisti di moda, fotomodelle, attori, etc. Come è evidente, questa categoria del lavoro immateriale comprende (pur non esaurendosi in esso) anche il lavoro intellettuale che, sempre più svalorizzato a livello sociale, viene ricompreso nell’ambito – più vasto, meno prestigioso, più facilmente e più direttamente dominato all’interno del dispositivo postfordista – della manipolazione simbolica.

A differenza che nel modello taylorista, il lavoratore postfordista è un soggetto che detiene un alto grado di adattabilità ai mutamenti di ritmo e di mansione, che sa leggere i flussi di informazione, che è capace di lavorare comunicando. Poiché oggi le risorse più importanti sono il sapere, l’intelligenza, le qualità cognitivo-immateriali attivate lungo i processi produttivi, il lavoratore nuovo è istruito a lavorare con i simboli e addestrato ad aggiornarsi continuamente, fondendo il momento dell’apprendimento con quello del lavoro. Assistiamo così alla nascita del cosiddetto cognitariato, comandato da tecnologie mentali e simbolico-comunicative (interiorizzate dal lavoratore stesso) e formato da un gruppo piuttosto eterogeneo di figure professionali precarizzate come il ricercatore a contratto, la psicologa che fa “volontariato” sperando che ciò le possa valere un futuro, o ancora l’archeologo part time o la traduttrice on demand, gli operatori sociali a progetto e, per Raparelli, persino gli studenti6.

I tre modelli descritti non appaiono tra di loro alternativi ma spesso compresenti: la ripetitività e la servilizzazione possono convivere con la manipolazione simbolica, con la competenza relazionale e con la flessibilità esistenziale7. Trasversale a tutti e tre gli ambiti è infatti la componente relazionale-simbolico-cognitiva di un lavoro che non si basa sulla forza muscolare: tanto per chi lavora con macchine sempre più intelligenti, quanto per chi è impegnato nei servizi alla persona, così come per chi produce merci immateriali. Per questa caratterizzazione trasversale sono state proposte varie descrizioni. Io ho adottato qui quella di cognitariato perché rimanda alle caratteristiche del lavoro svolto e, in più, ricorda il termine “proletariato”, alludendo a una classe composita e contraddittoria, la cui costituzione ha dovuto attraversare un lungo processo di trasformazioni del lavoro e della società.

 

La formazione e il lavoro

Quanto detto finora coinvolge il nesso formazione-lavoro. Se il modello che conoscevamo in epoca fordista-taylorista era quello di un periodo di formazione esclusiva (più o meno lungo) e, successivamente, di un periodo di lavoro esclusivo (che non necessitava più di formazione). Nel presente postfordista, in ogni momento del ciclo formativo-professionale si può invece uscire verso l’attività lavorativa (è il tema della celebre alternanza scuola-lavoro), così come in ogni momento di quella lavorativa rientrare in un percorso formativo. Si evidenzia così la nascita di figure miste come gli studenti-lavoratori o i lavoratori che sono studenti part-time8. Ma perché?

Lo stato nel passato, in accordo con le esigenze del sistema economico, forniva ai cittadini una formazione iniziale che questi ultimi potevano poi spendere nel campo lavorativo. Le esigenze economiche di oggi richiedono invece lavoratori a tempo determinato con un bagaglio iniziale di conoscenze forse meno corposo ma con una grande attitudine alla formazione continua. Il sistema d’istruzione allora si adegua valorizzando sempre meno la formazione statale e scaricando di fatto sempre più sulle spalle del lavoratore l’onere (a partire da quello economico) di formarsi continuamente. Assistiamo già oggi in alcune categorie di lavoratori precari a un fenomeno assolutamente inedito: quello del “ricurvarsi”, consistente nel lasciare un impiego per uno meno redditizio che offra, però, l’opportunità di reinserirsi nella curva di apprendimento. E ormai persino “un contratto atipico può essere accettato come un prezzo da pagare in cambio di formazione, di costruzione di un curriculum professionale più ricco”9.

Ma perché c’è questo bisogno di formazione continua? Non tanto per tenersi il lavoro che si ha, che ormai dura comunque poco, quanto piuttosto per presentarsi con nuove credenziali al prossimo potenziale datore di lavoro: la formazione continua è cioè anche il risultato di una trasformazione delle forme di reclutamento dei lavoratori. La scuola fino a oggi, attraverso il titolo di studio, non certificava le competenze acquisite ma forniva una legittimazione legale alle aspettative di chi cercava un lavoro. Con l’abolizione del valore legale del titolo di studio (di cui tanto si è parlato e si parla anche in Italia) le aziende dovrebbero fare un controllo analitico delle competenze di un lavoratore prima di selezionarlo. La crescente disoccupazione sembra imporre invece la scelta dell’autopromozione competitiva: il lavoratore del cognitariato deve farsi carico della propria formazione, della certificazione della stessa e di proporre infine al datore di lavoro le proprie competenze specifiche10. Inoltre, egli deve ora – esattamente come in passato facevano solo i manager – essere capace di prevedere i futuri cambiamenti nel proprio campo lavorativo e preoccuparsi di attrezzarsi culturalmente a far fronte a questi cambiamenti, pena l’essere tagliato fuori dal mondo del lavoro in via definitiva11.

Non stupisce quindi il fatto che sembra non esserci più nessuna differenza tra tempo dello studio e tempo del lavoro, come si diceva. E neppure rispetto al tempo libero, come mostrano con chiarezza i tablet, gli smart-phone e la connessione costante al Web 2.0, quello in cui i fruitori sono anche produttori dei contenuti (come accade per Youtube, Facebook, Instagram...) o, ancora, come indicano gli spot di autopromozione della rete Italia1, prodotti artigianalmente (e gratis) da spettatori che cercano i loro secondi di celebrità televisiva. Ultima distinzione crollata è infine quella tra tempo libero e tempo del consumo, come viene simboleggiato da quelle famiglie che passano il sabato pomeriggio passeggiando in un ipermercato, godendosi la musica di sottofondo, l’aria condizionata e lo spettacolo della merce.

Le trasformazioni economiche e del mercato del lavoro hanno cioè prodotto un nuovo tipo antropologico di lavoratore per il quale si è realizzata l’identità di formazione, lavoro, tempo libero e consumo. Per arrivare a ciò, perché il lavoratore servilizzato e fragilizzato diventasse un atleta della flessibilità e un valido manipolatore simbolico in perenne aggiornamento, perché allo stesso tempo – e magari alla stessa postazione – lavorasse, studiasse, giocasse e consumasse, bisognava contemporaneamente costruirlo in questo modo12. Ciò rimanda, secondo me, a una dimensione esplicitamente formativa.

 

La formazione del cognitariato

Quella postfordista è una produzione biopolitica:

“non possiamo comprendere adeguatamente questa produzione se pensiamo ancora a un soggetto che produce e a un oggetto prodotto. In questo caso, produttore e prodotto sono entrambi dei soggetti: gli esseri umani producono e gli esseri umani sono prodotti”13.

Infatti, il capitale è oggi soprattutto prodotto dalla soggettività e l’impresa deve quindi raccogliere, acquistare, captare questo capitale intellettuale. Un’importante riserva cui attingere è l’ambito della formazione: “è così che la formazione irrompe nell’economia politica e ne costituisce, in questa fase di trapasso all’egemonia della produzione postmoderna immateriale, il centro strategico. È attraverso la formazione infatti che i beni materiali e le giacenze di lavoro intellettuale che stanno nella società, costruite dalle generazioni che ci hanno preceduto, vengono ora fluidificati, offerti alle soggettività e, attraverso di queste, resi allo sfruttamento capitalistico”14. Secondo Negri, assisteremo quindi tra breve all’identificazione tra la produzione e la formazione continua (quella della scuola, dell’università, dell’apprendistato ripetuto, e quella che s’incarna nei processi di ricerca)15. Oggi, infatti,

“l’impresa capta il valore della produzione sociale […] attraverso l’intelligenza messa all’opera nella ricerca scientifica, nella costruzione degli stili di vita, e nella trasformazione del linguaggio, nella definizione di nuovi sensi delle cose e delle loro associazioni... [...] La valorizzazione nasce dal lavoro del soggetto, del suo cervello e delle sue passioni, della sua singolarità e della cerchia di cooperazione nella quale è inserito. Ne viene la conseguenza che per fare produzione è necessario produrre soggettività16.

Marazzi descrive quindi questa fase – caratterizzata dalla messa al lavoro della vita intera del lavoratore – come basata non più sulla produzione di merce ma sulla produzione… di esseri umani: la definisce un regime antropogenetico17.

Alla produzione postfordista è cioè necessaria la formazione (tanto nel senso di “costituzione”, di “costruzione”, quanto nell’accezione pedagogica del termine) di una nuova figura di lavoratore. E per la formazione di un cognitariato ubbidiente e adeguato al regime di impresa simbolico-comunicativa ci vogliono, per Negri, “da un lato, un addestramento singolare, duttile e orientato al sapere strumentale; dall’altro, una disponibilità all’accettazione del comando ed un’illusione di libertà nello sfruttamento”18. A mio avviso, tale formazione del cognitariato è effetto di almeno quattro dinamiche in contraddittoria sinergia. La prima, che descrivo di seguito, è la disuguaglianza educativa.

 

Disuguaglianza educativa ed esclusione lavorativa

Un elemento che caratterizza il cognitariato è il compimento di un processo di individualizzazione sociale, di una tendenza cioè verso una singolarità fortemente privatizzata e sganciata da un quadro di riferimento pubblicocollettivo, capace di fornire una cornice di senso ai singoli progetti lavorativi19. Alla de-istituzionalizzazione dei meccanismi di ingresso nel mercato del lavoro corrisponde quindi l’individualizzazione dei percorsi di inserimento sociale e, di conseguenza, il rischio di nuove forme di disuguaglianza, non più basate sulla divisione in classi (come durante il capitalismo industrialista) ma, e in maniera sempre crescente, sulla disuguaglianza formativa.

Com’è noto, il “boom economico” italiano seguito alla seconda guerra mondiale era stato accompagnato da una forte riduzione dell’analfabetismo e dalla crescente scolarizzazione, percepita come via di promozione sociale. Oggi, invece, l’attuale crisi economica si correla con la difficoltà di accesso a quell’istruzione della classe media che era stata causa ed effetto del boom economico. Il ceto medio sembra infatti essere stato colto di sorpresa dalla scomparsa di ogni sorta di sicurezza occupazionale, non ha più potuto dare per scontato che i propri figli avrebbero automaticamente raggiunto livelli di benessere maggiori, e ha dovuto confrontarsi con una mobilità discendente che, in realtà, appariva in atto da almeno un decennio20. Così come era evidente, fin dagli anni ‘70 del secolo scorso, che ci fosse una tendenza alla proletarizzazione dei laureati21. Malgrado tutto ciò, non sembra oggi possibile rinunciare all’istruzione, all’investimento in “capitale umano”.

Nonostante l’aumento delle tasse universitarie, tendenza comune a livello transnazionale e ulteriormente amplificata dalla crisi, si può assistere a un sostanziale mantenimento (apparentemente inspiegabile, dati i livelli di precarizzazione e impoverimento della società) del livello delle iscrizioni, ottenuto grazie al debito che, a seguito anche dello smantellamento delle politiche di welfare, viene utilizzato come strumento per garantirsi comunque l’accesso all’istruzione universitaria22. Tale situazione, però, può far sì che i figli delle famiglie meno ricche siano tendenzialmente penalizzati nel percorso di formazione iniziale (che, in un regime misto pubblico/privato – com’è ormai il nostro – diventa di qualità differenziata e collegata ai costi d’iscrizione, secondo i dettami del neoliberismo) e chi guadagna poco può essere del tutto tagliato fuori dalla formazione e dalla riqualificazione continue. Si configura così il rischio di quella situazione tripartita che Checchi paventava già nel 199723: la parte più povera della popolazione non si istruisce, la parte intermedia lo fa a costo dell’indebitamento, e solo la parte più ricca si istruisce completamente. La situazione italiana è, in questo, perfettamente coerente col panorama globale, visto che secondo Appadurai circa il 50% della popolazione mondiale è oggi escluso dalla formazione perchè economicamente marginalizzato, un’altra categoria (circa il 30% della popolazione) ha i mezzi per espandere le proprie conoscenze ma “viene spesso sospinta in fabbriche di diplomi di qualche genere e rapidamente immessa in settori professionali o occupazionali nei quali è possibile trovare un impiego, ma raramente […] scegliere una carriera”24. E solo un 20% dell’umanità può beneficiare di un alto livello di conoscenze e, soprattutto, di metaconoscenze, di una “conoscenza sulla conoscenza”, cioè di una consapevolezza riflessiva, di un orientamento gnoseologico, quindi di una piena autonomia esistenziale. Sono queste due ultime categorie a costituire il cognitariato, oggetto del presente saggio. Entrambi questi gruppi infatti sono oggi inseriti in una società che non ha più bisogno di lavoratori colti da impiegare nelle burocrazie statali (pensiamo solo alla crisi della più grande impresa italiana: la scuola statale) ma di un cognitariato precarizzato e costantemente minacciato dall’esclusione.

Questa alleanza tra la disuguaglianza educativa e l’esclusione lavorativa appare centrale nella formazione (cioè nella produzione e nell’addestramento) del cognitariato. Tale dispositivo spinge infatti i giovani a rassegnarsi al precariato, ad accettare con gratitudine qualsiasi condizione di lavoro pur di evitare l’esclusione dal lavoro e la povertà, nonché a rivolgersi alla formazione come a un’ancora di salvezza, come a un necessario complemento dell’attività lavorativa. Non bisogna quindi pensare che la violenza strutturale del postfordismo si collochi soltanto sul versante dell’esclusione dalla formazione di quel 50% della popolazione mondiale: esiste infatti anche un movimento di inclusione – di assimilazione obbligatoria, di conformazione – realizzato attraverso un processo educativo25.

 

La dipendenza formativa

Secondo Appadurai, la globalizzazione ha prodotto “una profonda tensione tra la sovranità economica, centrale nello stato nazionale, e la sovranità culturale”26. Oggi, infatti, pochi stati nazionali, inclusi i più ricchi, possono rivendicare quella sovranità economica che era un fondamento essenziale del-lo stato nazionale classico. E proprio l’istruzione esprime un campo centrale delle nuove tensioni tra la sovranità dello stato e il ruolo del mercato. Infatti, dato che la capacità di produrre conoscenza “mondializzabile” non è uniformemente distribuita sul pianeta, il processo di globalizzazione costringe gli stati e le agenzie formative nazionali (che vogliano essere minimamente competitivi) “ad aprire i loro mercati, a offrire nuovi tipi di certificazioni e a impegnarsi in forme innovative di regolazione del mercato [della formazione]”27. Oggi, la formazione è entrata, direbbe l’antropologo, in una “fase-merce” e ha bisogno di essere uniformata. Questa standardizzazione di un mercato globale della formazione ha reso “la conoscenza, di qualsiasi genere, simultaneamente più preziosa e più effimera”28.

Assistiamo infatti ormai da tempo a una grande proliferazione di offerte formative a pagamento, alla creazione di una miriade di stages e di corsi privati che – secondo quei pedagogisti che la criticano – hanno per effetto primario l’allenamento del corpo e della testa al lavoro frammentato: il riuscire a inculcare una nuova visione del lavoro, meccanico, strumentale e basato sull’acquiescenza29. Siamo cioè entrati in quello che Vertecchi definisce “consumismo educativo”, caratterizzato da un consumo compulsivo di formazione sempre meno qualificata30 che a me fa pensare alla tossicodipendenza. Anche questo tipo di formazione, infatti, provoca tolleranza (il consumatore deve aumentare progressivamente la dose di formazione per ottenere lo stesso effetto, di permanenza nel mercato del lavoro), dipendenza (l’impossibilità di sospendere il consumo di formazione, pena l’astinenza dal reddito) e assuefazione (si consuma formazione in maniera ripetitiva e a intervalli sempre più ravvicinati). Come esempio di tale proliferazione consumistica basterebbero anche solo quei corsi di aggiornamento a pagamento, la cui istituzione costringe di fatto i docenti precari della scuola a investire economicamente (ma non sempre dal punto di vista culturale) in formazione, semplicemente per poter mantenere il proprio posto nella graduatoria provinciale degli insegnanti. Lo stato però ha varato anche delle convenzioni con le associazioni datoriali per attuare piani di formazione continuata, contratti di formazione-lavoro, corsi di inserimento professionale destinati a riqualificare la manodopera e a prepararla alla mobilità... Senza contare i laureandi o i neolaureati che si impegnano nei tirocini, sperano in contratti di “alto apprendistato”, studiano le possibilità del programma FIxO, etc.

Questa formazione finalizzata al lavoro, tuttavia, è comandata dal mercato e segue ovviamente le sue logiche. Il capitalismo è infatti indifferente alle merci prodotte e queste – formazione compresa – non valgono per sé ma solo per il plusvalore che se ne può estrarre31. Il formando diventa quindi semplicemente un cliente a cui vendere un pacchetto formativo e, come si sa, ogni investimento comporta dei rischi...

In tutti i paesi OCSE appare ormai essersi verificata l’esplosione della cosiddetta “bolla formativa”, parallelamente a quella finanziaria32. Il valore (economico e simbolico) della formazione è stato infatti negli ultimi trent’anni artificiosamente pompato e ha drogato l’economia, esattamente com’è avvenuto per il mercato immobiliare. E le conseguenze di smarrimento e di crisi del futuro, tra le vittime dell’una e dell’altra “bolla”, sono per certi versi paragonabili.

Inoltre, le critiche economicistiche all’overeducation33 si basano su un approccio all’istruzione superiore intesa ormai sempre meno come formazione di sé, trasformazione della mente, personale antropopoiesi34, ma sempre più come preparazione al primo colloquio d’assunzione. Di conseguenza, nel mondo della formazione, il rapporto con la qualità dell’insegnamento non può essere problematizzante ma diventa simile al rapporto con un marchio, con un brand, con un logo, come profetizzava Naomi Klein35. Si è diffusa una cieca fiducia nelle promesse di carriera dei corsi, dei master e di tutto ciò che un’università (quella scelta per il posto che occupa in qualche classifica internazionale) ha inventato per fare cassa. Il sistema della formazione è diventato un grande supermercato, la varietà offerta aumenta e, con essa, il disorientamento36 ma – a mio avviso – diminuisce contemporaneamente anche il senso educativo e la consapevolezza pedagogica.

Anche l’analisi antropologica mostra come negli ultimi trent’anni il mondo abbia visto “una intensificazione della scuola nelle società già scolarizzate (un fenomeno che, sotto la rubrica dell’esigenza di una «formazione per lo sviluppo delle risorse umane nella società della conoscenza», e simili, rasenta ormai la pedagogizzazione totale della società occidentale)”37. Ciò costituisce un dispositivo di disciplinamento universale che assume la forma ormai diffusa della formazione permanente, del long-life-learning, di modelli centrati sulla scolarizzazione perenne (direbbero i descolarizzatori38) e quindi sull’infantilizzazione, sulla subordinazione cognitiva e morale della forza lavoro, significando infine il predominio delle istituzioni formative su ogni altra forma di costruzione dei soggetti sociali, l’eliminazione di qualsiasi alternativa39. Viene così denunciato un legame esistente tra la subordinazione nel lavoro precarizzato e servile, da una parte, e l’infantilizzazione implicitamente sottesa alla formazione continua e al consumismo educativo.

Infine, Dal Lago e Molinari indicano – come caratteristica di ogni società di mercato come la nostra – il fatto che i cittadini siano esposti tanto all’innovazione incessante dei consumi quanto all’assoggettamento alle istituzioni formative40. A mio avviso, però, il legame tra consumo e formazione non assume la forma semplice della compresenza ma spinge verso una nuova consapevolezza. Nella nostra società la formazione e il consumo mostrano infatti una coimplicazione reciproca: il consumo ha un risvolto formativo così come la formazione ha connotazioni consumistiche. Nella mia interpretazione, cioè, tale legame agisce sul cognitariato – da una parte – con l’assoggettamento al consumismo come formazione (nel quale il consumo di merci agisce, in sé, come processo di soggettivazione) e – dall’altra – con la loro sottomissione alla formazione come consumo, alla dipendenza compulsiva da corsi di formazione.

 

La riforma perpetua del sistema universitario

Il terzo fenomeno che contribuisce alla formazione del cognitariato è la profonda trasformazione del sistema dell’educazione formale e della ricerca. Secondo Marazzi, infatti, il passaggio dal fordismo al postfordismo ha messo in luce un “aspetto, di carattere politico-istituzionale, non trascurabile. I nuovi «salti» tecnologico-organizzativi hanno assai poco di meramente tecnico, appaiono piuttosto funzione di vasti programmi di ricerca scientifica orientata, «programmata» attraverso la trasformazione degli istituti, degli organi e delle funzioni della ricerca e della formazione scolastica”41. I cambiamenti dell’economia sono insomma in stretta correlazione con quelli del sistema integrato istruzione-ricerca. In questo contesto va letta la nascita (accanto a quelle tradizionali della formazione e della ricerca) di una nuova mission dell’università, specificamente rivolta al mercato del lavoro: il placement dei laureati, la propulsione imprenditoriale, l’innovazione scientifico-commerciale, la produzione di brevetti, l’attrazione di finanziamenti... Il capitalismo ha infatti oggi bisogno di appropriarsi “di un surplus di ricchezza sociale derivante dalla cooperazione, un plusvalore cognitivo prodotto dal pluslavoro collettivo”42. Attingere all’università permette di farlo a spese della collettività, consente all’impresa di privatizzare il sapere comune. Ciò ha cambiato il volto del sistema universitario, a partire dalla riforma del Ministro Ruberti (cui si oppose, nell’a.a. 1989-1990, il movimento detto della Pantera), a cui seguirono gli interventi di Berlinguer, Zecchino, Moratti, Gelmini...

Per fornire infatti al postfordismo un lavoratore disposto a immettere dati in un terminale con una paga irrisoria, a promuovere tutti gli studenti in una scuola privata avendo come unica retribuzione il punteggio nella graduatoria provinciale, a lavorare in un call center senza alcuna prospettiva di carriera, è stato necessario ristrutturare l’università tenendo conto proprio di quest’obiettivo: la formazione del cognitariato.

Com’è noto, l’ingegnere Taylor riconosceva il valore del sapere degli operai (che spesso essi usavano contro il padronato) e risolve il problema espropriandoli delle loro conoscenze tacite (convertite nel sapere del management, della gestione del personale), privandoli di autonomia, rendendo la loro attività ripetitiva, meccanica, impersonale. Si applica oggi all’università una sorta di taylorismo cognitivo: la razionalità economica viene perseguita attraverso la quantificazione oraria del compito, la scomposizione del lavoro in attività elementari e l’omogeneizzazione delle procedure (col fine del controllo e del calcolo economico della produttività), la dequalificazione dell’insegnamento che viene sottopagato (e che può essere svolto, come di fatto avviene, anche da persone che hanno appena terminato il dottorato), etc.

Nel nostro paese, cioè, la riforma del sistema dell’istruzione è avvenuta con le stesse modalità utilizzate in molti altri ambiti economici: il processo lavorativo viene frantumato in incarichi sempre più piccoli e ripetitivi, e si creano figure precarie a bassa remunerazione, assumendo solo il numero di lavoratori strettamente necessario a una particolare mansione, o progetto, o stagione. Tale ristrutturazione è esemplificata da Chiara Zamboni che lamenta la frammentazione degli insegnamenti universitari (sparpagliati in una miriade di moduli brevi e brevissimi). In questa direzione va anche l’organizzazione della didattica. L’inserimento dei crediti (i cosiddetti CFU) per calcolare il valore di un esame, per esempio, costituisce un meccanismo perverso: i crediti vengono fissati sulle ore di lavoro che si presuppone uno studente medio debba affrontare, un criterio che ricorda gli operai alla catena di montaggio. Ma quante ore/lavoro – si chiede la filosofa – servono per studiare la Critica della ragion pura di Kant? Di più o di meno rispetto a Speculum di Luce Irigaray? E cos’è poi uno “studente medio”?43.

Insegnando, si sa per esperienza che occorre invece un certo tempo per creare una relazione viva (il lato implicito e più importante dell’insegnamento) con gli studenti e le studentesse e che ciò risulta estremamente difficile nel “mordi e fuggi” dei moduli. E anche nell’articolazione del percorso di laurea (tre anni di base più due specialistici non obbligatori) si individua questa tendenza all’impoverimento e allo svuotamento di una relazione educativa valida e autoritativa44, soprattutto nello zoccolo dei tre anni, quello che dovrebbe bastare a quel 30% della popolazione che – secondo Appadurai – accede a una formazione superiore finalizzata alla rapida immissione nel mercato del lavoro (almeno secondo le intenzioni del legislatore).

Con le riforme che si sono susseguite senza sosta dal 1989, si sono cioè creati due livelli di istruzione superiore (entrambi gratificati del titolo di dottore ma di diversa formazione culturale) e si è progressivamente creata una polarizzazione tra una pratica fondata sul consumo di informazioni, orientata solo alla spendibilità lavorativa, e una teoria pedagogica che afferma il valore della relazione educativa maestro-discepolo45. Conseguenza di ciò è che si è oggi capaci di produrre competenze specialistiche e identità professionali ma sempre meno in grado di produrre personalità, cioè quell’insieme di attitudini che consente di organizzare le conoscenze e le passioni in un ordine mentale che permette all’individuo di controllare, filtrare e incanalare le informazioni che gli piovono addosso e di agire su percorsi autonomi.

Questo non è affatto un effetto collaterale indesiderato, piuttosto uno degli obiettivi perseguiti. L’università infatti, attraverso la ristrutturazione della didattica, prepara in questo modo il/la giovane al suo futuro di eteronomia lavorativa ed esistenziale. Inevitabilmente infatti il formando assorbe, oltre ai contenuti che deve apprendere, anche – per quello che Bateson definisce deuteroapprendimento, l’apprendimento di secondo livello46 – la forma “normale e naturale” del suo essere nel mondo della conoscenza e, successivamente, del lavoro. Apprende come bisogna apprendere e come bisogna lavorare: in maniera parcellizzata, ripetitiva, strumentale e, soprattutto, docile. Per ottenere una docilità piena è però utile un ultimo passaggio.

 

La precarizzazione universitaria

Il quarto movimento connesso alla formazione del cognitariato è sempre interno alla trasformazione del sistema di istruzione e coinvolge i meccanismi di reclutamento dei docenti, agendo su quella categoria più intellettuale del cognitariato, su quel 20% che si forma in maniera completa e profonda.

Strumento di questo movimento sono stati i “tagli” realizzati a tutti i livelli del percorso di accesso ai ruoli universitari. Una recente indagine sui dottori di ricerca e i ricercatori post-dottorato, basata su documenti dell’ANVUR e del CUN47, disegna una precarizzazione degli aspiranti ricercatori fin dal dottorato di ricerca. Dal 2008 al 2014, le posizioni bandite in Italia hanno subito una riduzione del 19%, addirittura del 38% nel Sud d’Italia. In base ai dati Eurostat, relativi al 2012, il numero totale dei dottorandi italiani era di 34.629, numero che colloca l’Italia al quinto posto tra i paesi europei, a lunga distanza da nazioni economicamente più sviluppate come la Francia (che ha

70.581 dottorandi), il Regno Unito (con 94.494 dottorandi) e la Germania (con addirittura 208.500 dottorandi). Se poi rapportiamo il numero di dottorandi alla popolazione totale, l’Italia (con 0,6 dottorandi ogni 1.000 abitanti) scivola addirittura al terzultimo posto tra i paesi europei, superata persino da quelli fortemente provati dalla crisi economica come la Grecia (2,1 dottorandi ogni 1.000 abitanti), l’Irlanda (1,9 dottorandi) e il Portogallo (1,8 dottorandi).

E le cose non migliorano pensando agli assegnisti di ricerca. Secondo le stime, dei 15.300 assegnisti attivi nel 2013, oltre l’86,4% non continuerà a fare ricerca e il 10,2% uscirà dal mondo della ricerca dopo un contratto da RTDa. Ciò significa che entro i prossimi tre anni, il 96,6% di questi assegnisti sarà espulso dal sistema universitario. Senza contare che le nuove figure dei professori a contratto e dei ricercatori a tempo determinato sono state introdotte in contemporanea con la scomparsa delle figure del ricercatore a tempo indeterminato e dell’assegnista di ricerca. La riduzione delle opportunità e la precarizzazione si accompagna poi alla tendenziale femminilizzazione dei ricercatori e alla loro contemporanea subordinazione.

Secondo Gambarotto e Brunello, il mercato del lavoro della ricerca privilegia ancora la componente maschile: il 40% della popolazione europea con un dottorato di ricerca è donna ma solo un terzo riesce a entrare nel settore della ricerca pubblica o privata. Salendo lungo la scala gerarchica, vediamo poi che, se le donne costituiscono il 39,3% dei ricercatori, rispetto ad esse gli uomini hanno una probabilità tre volte maggiore di ottenere la qualifica di professore ordinario. La recente precarizzazione e la bassa retribuzione renderanno le posizioni di ingresso alla carriera universitaria meno appetibili e ciò potrà rafforzare il processo di femminilizzazione dei peones della ricerca, portando a un’ulteriore polarizzazione tra i giovani in ingresso (costituenti un gruppo “femminilizzato” sia perché precarizzato sia perché composto principalmente da donne) e una gruppo dirigente formato da accademici maschi a tempo indeterminato. Si prefigurerebbe così un “doppio binario professionale: una base flessibile e prevalentemente femminile di ricercatori, disposta ad accettare basse retribuzioni e scarse possibilità di carriera e un vertice prevalentemente maschile, formatosi spesso all’estero e in grado di acquisire quelle competenze professionali e relazionali necessarie per accedere alle reti e ai fondi di ricerca internazionali”48.

Questa “femminilizzazione” (che estende alla ricerca quelle condizioni di precarietà e scarsa remunerazione tradizionalmente associate ai lavori “femminili”) costruisce la figura del giovane ricercatore come particolarmente disposto all’assoggettamento, alla docilità. Se infatti l’individualizzazione del percorso di accesso al ruolo universitario (elemento comune – abbiamo visto – a tutti quelli del capitalismo cognitivo) è gratificante – perché produce una percezione di unicità del soggetto, il suo sentirsi speciale, eletto – ciò rende contemporaneamente soli, contribuendo a quella precarietà esistenziale che secondo Morini ha come esito una logica oblativa, della disponibilità non remunerata, senza orari e senza un mansionario definito49. Una logica che appare cioè simile a quella che molte donne sperimentano nel lavoro domestico e di cura.

Tale accostamento spinge a confrontarci – nell’analisi – anche con il piano delle narrazioni personali dei precari dell’università, sulla base dell’esperienza femminista del “partire da sé”, inteso da Luisa Muraro e dalla Comunità Filosofica Diotima non come egocentrismo narcisistico né come rivendicazione di diritti ma come una risorsa di conoscenza50, come quella pratica che ha permesso al femminismo di denunciare uno sfruttamento e un’oppressione per i quali non esistevano ancora le parole. Per comprendere quindi la quarta piega del dispositivo che sto descrivendo, è ora utile confrontarsi con quella letteratura scientifica che trova risonanza nel piano – esperienziale ed esistenziale – delle soggettività concretamente coinvolte, azzardando un’auto-etnografia51 intellettuale dei ricercatori precari (dei quali lo scrivente fa parte). L’obiettivo è mettere a confronto una riflessività, fedele all’esperienza soggettiva di colleghi e colleghe, con le analisi teoriche e il dibattito scientifico, nel tentativo di guadagnare un di più di conoscenza sul ruolo che la precarizzazione accademica gioca nella formazione del cognitariato.

 

Homo academicus precarius

L’aspetto più interessante (ai nostri fini) dei tagli al sistema universitario è il blocco del turn over che ha ampliato un già vasto bacino di precariato accademico, di ricercatori messi (lavorativamente ed esistenzialmente) in stand-by. Secondo le stime, si tratta di almeno 30.000 ricercatori precari, ben due generazioni di studiosi52. Si tratta di quella generazione, nata negli anni Settanta del XX secolo, che ha visto tramontare quelle speranze nel successo personale, nella promozione delle competenze, nella valorizzazione delle “professionalità” nelle quali era stata educata53. Questa generazione, formatasi in un sistema ancora centrato sull’esistenza di saperi autorevoli e prestigiosi, e su un “capitale reputazionale” fondato sul valore personale e sull’etica professionale, ha conosciuto la precarizzazione del lavoro intellettuale e la più recente proliferazione di una retorica del “merito” che viene applicata – come mero strumento di ulteriore gerarchizzazione – dalla riforma che porta il nome della Ministra Gelmini.

Il mondo universitario italiano è stato infatti tradizionalmente stagnante, caratterizzato da una generale mancanza di ricambio, da un accesso dei giovani rigidamente selezionato (spesso in modo clientelare o nepotistico), da concorsi in cui le competenze contavano poco, dallo sfruttamento del lavoro non pagato degli aspiranti ricercatori, da una rigida gerarchia, da logiche di potere, etc54. Oggi questo sistema è però messo sotto ulteriore pressione dalle esigenze del postfordismo. Abbiamo infatti definito il lavoro cognitivo – che caratterizza l’attuale modo di produzione – cooperativo, relazionale, comunicativo e fluido. Per essere comandato, mercificato e organizzato in attività redditizia, deve essere prima di tutto gerarchizzato secondo i principi dell’economia capitalista55. Deve cioè essere reso una struttura a cascata di autorità gerarchica. L’università deve diventare una catena discendente di autorità, nella quale coloro che si trovano a metà catena eseguono i piani stabiliti dai superiori e contemporaneamente pianificano le attività che i loro subordinati dovranno eseguire. È questa rigida catena di autorità che bisogna comprendere.

L’autorità non è una cosa che qualcuno “possiede”: com’è noto, “è essenzialmente una relazione tra persone”56. E differisce poi molto dal dominio perché “nel vincolo di autorità i subordinati non sono tali in quanto obbediscono a degli ordini, ma in quanto lo fanno volontariamente, con ciò contribuendo a riprodurre tale vincolo”57. Conseguenza di ciò è che “non è facile per i subordinati diventare consapevoli di essere implicati, persino complici di questo gioco, della disuguaglianza che vi si riproduce, e della propria subordinazione”58. È grazie al principio di autorità che l’università (che tradizionalmente era anche il luogo dove nascevano i fermenti culturali e le proteste sociali) si sta ristrutturando, a mio avviso, come dispositivo di formazione del cognitariato alla gerarchia e all’acquiescenza. A questa trasformazione, oltre agli elementi che ho già indicato, contribuisce anche la precarizzazione dei giovani ricercatori, i quali – paradossalmente – diventano coprotagonisti della costruzione di quel cognitariato di cui essi stessi fanno parte, contribuendo a riprodurre la gerarchia e, al contempo, la propria stessa subalternità.

Quasi sempre l’università è stata infatti un luogo di precarietà lavorativa e di competizione gerarchica59 ma, secondo Starnone, per l’intellettuale di oggi è cresciuto il tempo “rivolto a procacciarsi benefici e a respingere concorrenti. È questa un’attività che richiede un cospicuo numero di competenze e che consiste nel «guadagnarsi il favore di»”60. La servilizzazione e la competizione cortigiana, cui sono obbligati in Italia, educano i giovani studiosi a una sottomissione che la scarsità di risorse economiche e il blocco dei concorsi rendono ancora più acuta.

Nonostante la retorica elettoralistica dell’innovazione e dello sviluppo attraverso la ricerca, sembra che di ricercatori non ci sia bisogno. L’aspirante docente universitario si trasforma così da potenziale lavoratore, che dovrebbe es-sere corteggiato per le sue competenze, in postulante. Quello tra l’università e le nuove leve della ricerca è infatti un legame negato. E il ruolo dell’università postfordista è proprio negare e reiterare la dipendenza dell’aspirante studioso.

La negazione della relazione consiste nel fatto che i ricercatori precari studiano e lavorano con passione ma appaiono superflui, inutili, irrilevanti. Tanto per il loro professore di riferimento quanto per l’istituzione. Sono infatti “coinvolti in relazioni asimmetriche tra il forte e il debole, in legami d’autorità, ma ciò che li vincola è precisamente un legame negato”61. Ed è proprio la negazione del legame, della relazione, che produce e alimenta l’assoggettamento, che reitera all’infinito un asservimento che diviene inevitabile.

Per diventare docenti universitari non c’è infatti un percorso impersonale e burocratizzato di reclutamento, piuttosto – com’è noto – è il “maestro” che crea un rapporto diretto con l’allievo, scegliendolo tra i più preparati dei suoi laureandi. Il maestro provvede così personalmente al futuro lavorativo dell’allievo, stringendo con lui un’alleanza contro l’apparato universitario, contro le altre discipline, contro gli eventuali competitori, contro le altre correnti teoriche all’interno dell’ambito disciplinare... Non valgono le competenze “oggettive” dell’allievo, né una forma di anzianità, una graduatoria, un collezionare punti di servizio (come avviene per gli insegnanti della scuola). Certo ci vuole anche un po’ di fortuna ma ciò che appare indispensabile è solo la forza, l’influenza, il potere del “capo” nell’ottenere un concorso e il sostegno della “scuola” teorica cui appartiene (o, nella peggiore delle ipotesi, del gruppo di interesse che lo esprime).

Di conseguenza, la relazione non può che essere asimmetrica perché il bisogno che l’allievo ha del docente – per diventare professore a sua volta – è evidente, al contrario il bisogno che il docente ha degli allievi per assumersi molti impegni pubblici e prestigiosi (delegando loro il lavoro materiale) per aumentare il proprio campo di influenza è nascosto. È, ad esempio, la relazione del professore al convegno ad avere valore e non il lungo lavoro organizzativo precedentemente svolto dagli allievi. Tale rapporto quindi, lungi dall’essere ufficiale-istituzionale ha un carattere personale, e tale “soggettivazione del potere, il fatto che i subordinati lo considerino come un attributo intrinseco dei capi, addirittura della loro personalità, è proprio ciò che fa chiudere gli occhi di fronte al legame di potere in cui si è implicati, impedendo dunque di riconoscervisi come attori”62. L’autorità esercitata del docente universitario, infatti, è in parte legale-razionale, appartenente cioè a chiunque occupi quella posizione di potere, ma per la parte maggiore è carismatica, poggiando sul riconoscimento scientifico e sul peso accademico del docente nonché sulla dedizione di un gruppo più o meno vasto di allievi63. E tale relazione ha un importante risvolto materiale. Se accettiamo infatti l’interpretazione del capitalismo cognitivo e riconosciamo che la creazione e la manipolazione di idee, simboli, modelli, interpretazioni, etc., costituisce il nucleo della produzione postfordista, il lavoro non pagato (il pluslavoro) di creazione, modellizzazione e teorizzazione portato avanti da studenti, dottorandi e precari della ricerca produce plusvalore: ha come esito quella ricchezza intellettuale, collaborativa e sociale di cui il capitalismo postfordista si appropria.

Il legame di dipendenza dell’allievo nei riguardi del maestro, tuttavia, non è mai esplicitato nella sua componente di sfruttamento di un lavoro non pagato ma prende la forma del mero rapporto scientifico: l’allievo può fare strada o essere espulso dal percorso accademico ma, alla fine, ciò è considerato come risultato del suo personale valore intellettuale, come prova della sua capacità scientifica, del suo essere adatto, non del potere o della volontà del docente. L’accesso ai ranghi accademici non viene letto come meccanismo interno a un dispositivo postfordista di sfruttamento del pluslavoro cognitivo di giovani intellettuali ma come effetto della maggiore o minore preparazione, del “merito”, di questi studiosi che aspirano a fare ricerca in un’istituzione che tra l’altro (almeno per le discipline umanistiche e per le scienze sociali) costituisce l’unica opportunità esistente.

Su queste basi, ogni semplice dialogo tra il maestro e l’allievo non riguarda solo il contenuto esplicito della conversazione (l’organizzazione di un convegno, le bozze editoriali di un volume, le date degli esami…) ma è, al contempo, un momento di valutazione dell’allievo da parte del professore e un’occasione per l’allievo di farsi apprezzare: il vero significato del dialogo e della relazione è quindi sempre implicito. Nella relazione, anche se fatta di affetto e di stima reciproca, si occulta quella componente di assimetria di potere e di posizionamento esistenziale che appare ben rappresentata in Scuola di nudo, il primo romanzo di Walter Siti (che allora era ancora professore universitario)64. In questo modo – poiché l’allievo ha la necessità di vedere riconosciuto il proprio valore dal professore per potere “entrare” all’università – “il superiore mantiene il controllo dell’apparato di riconoscimento”65, rafforzando una delle caratteristiche di ogni autorità gerarchica.

Il rapporto di asimmetria viene poi accresciuto – e sublimato – dal fatto che questa relazione è di tipo educativo. La metafora formativa della relazione maestro-discepolo fa sì che questo legame si perpetui grazie a rappresentazioni che enfatizzano gli elementi simbolici in gioco. Il legame maestro-discepolo evidenzia infatti – in misura maggiore rispetto ad altri – come l’autorità sia, intrinsecamente, un atto dell’immaginazione (il che ovviamente non rende meno reale l’autorità né meno concreti i suoi effetti)66. Si tratta infatti di un legame “vero” anche per il docente, caratterizzato dall’eros pedagogico, da quella che Bertolini definiva “una tensione tutta rivolta alla conquista di traguardi non solo tecnici o fisici ma anche psicologici, etici e persino intellettuali, vissuta peraltro sotto il segno della gioia – vorrei dire addirittura del piacere”67. L’intenso rapporto scientifico e formativo trasfigura così la concretezza di questa relazione nella magia di un amore intellettuale che (come ogni forma d’amore) prevale sui soggetti implicati, condizionandoli e vincolandoli.

 

Le ricadute educative

La complessità di tale relazione ha certo dei costi emotivi per il discepolo, preso in un rapporto magistrale (emotivamente molto coinvolgente e scientificamente stimolante) che costringe però in un’asimmetria relazionale: non il docente ma l’allievo – occupando un ruolo di fatto servile (non diversamente dagli altri lavoratori del cognitariato) – deve infatti essere leale, sensibile, partecipe, sollecito, emotivamente accogliente... deve insomma lavorare col sentimento oltre che essere intellettualmente brillante. La grande quantità di racconti di allievi che hanno abbandonato il loro maestro (perchè non reggevano più, dal punto di vista emotivo, tale relazione) mostra infatti come fare quello che gli studenti chiamano “l’assistente” comporti la stessa complessità relazionale che sperimentano i lavoratori nei servizi alla persona, la stessa viscosità psicologica e affettiva che porta una badante – come si sente spesso – a sposare o a uccidere il proprio datore di lavoro.

La condizione di precarietà lavorativa, l’investimento esistenziale in una carriera a forte rischio di fallimento, il ruolo gregario ricoperto, un’attività lavorativa contemporaneamente di natura teorica, emotiva e relazionale (tanto nel rapporto col maestro quanto in quello con gli studenti universitari), non possono non produrre – allora – anche rabbia e frustrazione nell’allievo, il quale però non passa mai (non può passare) alla lotta, alla rivendicazione. Il gruppo degli “allievi” non è infatti omogeneo, costituito com’è da una gerarchia di studenti, dottorandi, assegnisti e ricercatori, e non conquista mai un auto-riconoscimento di gruppo perché è caratterizzato dalla sostituibilità di ogni suo membro. In ogni regime competitivo, “fare le scarpe” a un concorrente è infatti un modo come un altro per fare strada. La struttura universitaria cioè (come ogni altra gerarchia che non sia solo di funzione ma anche di potere, prestigio, remunerazione) impedisce la lealtà e i rapporti orizzontali tra i subordinati, isolandoli e rendendoli direttamente dipendenti dai loro superiori68. Gli aspiranti ricercatori quindi, come tutti gli altri lavoratori scontenti della catena di comando entro la quale svolgono la loro attività, oppongono resistenza al potere costituito in modi che – oggi – hanno ben poco a che fare con la protesta organizzata. La rabbia e la frustrazione prendono infatti la forma di un “vincolo di rifiuto” che si articola – secondo Sennett – in tre modi: “il primo poggia sulla paura della forza di un’autorità; si tratta di un legame che chiamerò «dipendenza ribelle». Il secondo consiste nel fissare un’immagine positiva, ideale dell’autorità, partendo da quella negativa esistente. Il terzo si fonda sulla fantasia che l’autorità scompaia”69.

Il primo modo costituisce un’impaurita, estemporanea e spesso implicita (quindi impotente e inefficace) ribellione al potere che continua a situarsi dentro una relazione asimmetrica e di dipendenza (che viene così rafforzata, riaffermata e perpetrata). Si tratta di una periodica ribellione all’eteronomia, non della creazione delle condizioni per fondare l’autonomia. Il secondo è una forma di autoinganno, un egodifensivo ripararsi dalla frustrazione attraverso l’idealizzazione del maestro (“lui non è come gli altri”). Il terzo si concentra sulla persona e non sul meccanismo: il subordinato pensa che l’autorità sia connessa a una disposizione morale e che possa quindi scomparire, quasi per magia, in casi particolari come quello che lo riguarda direttamente. L’allievo cioè – considerandosi una persona moralmente pura, scientificamente onesta e politicamente consapevole – si illude che la relazione di autorità possa essere sospesa nel suo caso specifico. Il problema, però, non sono le persone ma un sistema simbolico-materiale basato su una gerarchia di autorità che produce frustrazione.

Esattamente come fanno i lavoratori dei call center studiati da Maltese70, i precari della ricerca manifestano allora la loro resistenza in forme spontaneistiche, isolate, nascoste e talvolta patetiche che interferiscono con il funzionamento dell’università: l’assenteismo, il nascondere un verbale di esami, il rubare una risma di carta per fotocopiatrici… cose che non minacciano minimanente il funzionamento dell’università né ovviamente la relazione di autorità. Principalmente, però, scaricano la propria frustrazione sugli studenti, tramandando in questo modo un modello di docilità con i forti, di prepotenza con i deboli e di frustrazione impotente e pavida che, per deuteroapprendimento, viene assorbito da quegli studenti che ingrosseranno le fila del cognitariato. Tale configurazione ha infatti come esito il fatto che la relazione educativa, che dovrebbe costituirsi come una gerarchia di cura, di presa in carico, di responsabilità magistrale nei confronti – a cascata – dell’apprendente, diventi un rapporto competitivo che fa scontare sempre ai sottoposti l’insoddisfazione. In tal modo si completa e perfeziona quell’educazione all’ubbidienza docile che per la maggior parte degli studenti ha già avuto inizio in una scuola trasmissiva e basata su una pedagogia direttiva che, negli ultimi decenni, è stata interessata anche dalla riduzione e dalla precarizzazione (pensiamo ai tagli riguardanti le supplenze, gli insegnanti di sostegno, l’organico funzionale, il “fondo d’istituto”, etc.) di quel personale che non può non aver scaricato la propria frustrazione sui discenti.

La precarizzazione della ricerca universitaria costituisce così il sigillo di un curriculum nascosto: la formazione del futuro cognitariato all’inevitabilità e all’immutabilità dello status quo, attraverso la trasmissione gerarchica della frustrazione, della passività, della acquiescenza e della pavidità docile. Non stupisce quindi il fatto che i giovani formandi non investano dal punto di vista esistenziale nella relazione educativa e affidino alla formazione la funzione strumentale di preparazione al primo colloquio di lavoro: prendono quello che possono, quelle competenze che ritengono utili per il loro futuro, adottando quel comportamento che Piussi ha definito “barbarico”71 e che fornisce loro l’illusione della libertà. Si arriva così a ottenere anche il secondo dei due requisiti che Negri indicava come necessari alla formazione di un cognitariato ubbidiente e adeguato al regime di impresa simbolico-comunicativa: “da un lato, un addestramento singolare, duttile e orientato al sapere strumentale; dall’altro, una disponibilità all’accettazione del comando ed un’illusione di libertà nello sfruttamento”72.

Se infatti la disuguaglianza educativa (e il collegato rischio di esclusione lavorativa), la dipendenza formativa e la riforma continua dell’università spingono tutto il cognitariato ad accettare un addestramento strumentale, la precarizzazione degli aspiranti ricercatori e la gerarchia accademica hanno come effetto la formazione dei futuri lavoratori intellettuali all’accettazione di un comando e di un’autorità che danno – agli studenti e, spesso, agli stessi ricercatori precari – l’illusione della libertà nello sfruttamento attraverso trappole teoriche che prendono il nome di sapere critico, di libertà interiore, di consapevolezza riflessiva, di testimonianza teorica, etc.

Alla fine del percorso disegnato, il precario della ricerca può anche farcela a diventare professore ma dopo una gavetta fatta di sudditanza e precarietà esistenziale, di attesa sostanzialmente impotente, talvolta di qualche mortificazione. È molto probabile che ciò lasci dei segni sulla sua autostima e che quindi egli avrà bisogno di un Altro, di una persona che compia quegli atti di apprezzamento, di deferenza e di obbedienza capaci di assicurarlo del suo valore73, in grado cioè di sanare la ferita narcisistica prodottasi nella relazione con il proprio maestro e con l’istituzione universitaria. Il neoprofessore, cioè, avrà la necessità emotiva di un allievo, il bisogno di ricreare quella stessa relazione di autorità che aveva conosciuto nel suo apprendistato scientifico. E mai questo bisogno potrà essere soddisfatto una volta per tutte: l’esigenza di legittimarsi, riscrivendo il senso delle frustrazioni subite, lo lega infatti sempre di più al disagio vissuto74. Questo legame verrà quindi costantemente “citato”, reiterato performativamente in forme asimmetriche nella relazione con l’allievo, garantendo al sistema la riproduzione dell’autorità.

Ovviamente, quella descritta non è esperienza di tutti/e: molti docenti universitari diventeranno tali esclusivamente per i loro meriti scientifici, senza concorsi organizzati ad hoc come retribuzione di una lunga gavetta, senza un percorso di apprendistato fatto (anche) di lavoro non pagato e di piaggeria più o meno consapevolmente richiesta e offerta. Quella descritta, però, è sicuramente la rappresentazione che gli studenti universitari hanno, che i ricercatori precari lamentano nelle loro assemblee, che la cinematografia e la letteratura riproducono, che i politici usano come motivazione a sostegno delle loro proposte di riforma dell’università.

Se si ammette che la descrizione fatta è corretta, sarà chiaro come – è quello che mi interessa in questa sede – il precariato accademico abbia delle ricadute educative su quello che ho definito la formazione del cognitariato. Il precario dell’università è, cioè, a pieno titolo membro del cognitariato ed è, al contempo, inserito in una struttura gerarchica per la conquista di risorse scarse, e in una relazione di autorità né riconosciuta né tematizzata, che lo costringono a formarsi (e lo spingono a formare gli studenti) all’obbedienza, al sotterfugio, alla gerarchia come dominio, agli elementi cioè che caratterizzano la vita del cognitariato.

 

L’intellettualità di massa

In queste pagine ho tentato di individuare un dispositivo complesso di formazione del cognitariato, del quale ho descritto alcuni livelli di azione. Nella mia interpretazione, il cognitariato è il prodotto del rischio dell’esclusione lavorativa che, nel nesso formazione-lavoro dell’epoca postfordista, appare strettamente connesso al percorso di istruzione seguito. Un secondo elemento, al primo connesso e conseguente, è una dipendenza strutturale dal consumo di una formazione sempre meno sapida e gravida di senso. È quella compulsività formativa che produce la svalutazione dell’evento educativo e l’infantilizzazione di un lavoratore perennemente scolarizzato. Al centro di questo processo si situa il sistema universitario che, continuamente riformato negli ultimi decenni, è diventato il luogo in cui gli studenti affrontano un percorso – parcellizzato, quantificabile, deprivato della relazione magistrale e finalizzato a una conoscenza immediatamente spendibile – che sembra prefigurare il futuro lavorativo del cognitariato. Ultimo dei quattro elementi descritti è il deuteroapprendimento alla sottomissione che ho individuato nella gerarchia universitaria la quale, oggi cristallizzata e resa ancora più competitiva dalle riforme neoliberiste, educa all’ubbidienza. Se questo sembra il dispositivo di formazione, qual è il prodotto finale?

Le caratteristiche del cognitariato sono ovviamente oggetto di un vasto dibattito teorico. In queste ultime righe mi concentro su un solo settore del lavoro cognitivo: quello più direttamente intellettuale, che nella mia interpretazione occupa tanto il ruolo di destinatario quanto di agente di questo processo di formazione, così come ho esemplificato nel caso del precariato della ricerca.

Oggi, molti e molte giovani hanno un curriculum formativo di qualità, costantemente incrementato con percorsi post-laurea (master, corsi di formazione, specializzazione e perfezionamento, stages all’estero, dottorati, assegni di ricerca…). Per alcuni, l’esperienza più o meno lunga della ricerca scientifica, in ambito universitario o in enti di ricerca privati, rappresenta un passaggio esistenziale e professionale importante. Questi intellettuali iper-specializzati ingrossano oggi le fila del cognitariato in un contesto di evidente crisi delle istituzioni nazionali della formazione e della ricerca, di crollo verticale della percezione sociale del prestigio culturale associato agli individui colti (“perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo?” ebbe a dire Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio), di mancata corrispondenza tra retribuzione economica e grado di scolarizzazione, di crisi economica generale. Questi giovani hanno oggi lo status di “intellettuali di massa al lavoro”:

  • intellettuali grazie al loro brillante iter formativo;
  • di massa a causa della scolarizzazione diffusa e della perdita delle connotazioni elitarie del sapere;
  • al lavoro sempre precario, non garantito e male remunerato.

Rispetto al passato, in cui i disoccupati e i sottoccupati erano in genere poco scolarizzati, abbiamo oggi un fenomeno inedito: un gran numero di per-sone colte e preparate che hanno investito tempo, energie e risorse nel loro percorso formativo, si trovano con l’impossibilità di programmare la loro esistenza (a causa del precariato), con difficoltà economiche (a causa della retribuzione saltuaria), in un grande disorientamento esistenziale (a causa della difficoltà di trovare una collocazione nella società) e, in più, con una forte consapevolezza della loro situazione e con un profondo senso di fallimento. Diventa quindi sempre più vasta l’area intellettuale marginalizzata e logorata da attese deluse: “un’area che vive soprattutto di astio. Astio per i continui tentativi frustrati. Astio per non avercela fatta. Astio per quello che sa e non trova sbocco. Astio per le competenze inutilizzate che il tempo atrofizza. È un’intelligenza senza credito e senza successo, che è cresciuta a dismisura e che la produzione industriale di cultura usa solo in qualità di pubblico, di utenza, di consumatori”75. Proprio quest’astio vissuto da una generazione intellettualmente preparata che si sente esclusa, sfruttata, senza futuro e, in alcuni casi, costretta a contribuire alla stessa formazione di un cognitariato precario, ubbidente e silenzioso, pone queste persone colte e marginalizzate, ipereducate e impoverite, allettate e deluse, in una flagrante contraddizione, potenzialmente gravida di un desiderio di trasformazione sociale.

Allo stato attuale però essi non vedono opportunità: né dal punto di vista del reddito né da quello della soddisfazione o della corrispondenza del lavoro con le aspettative e le reali capacità (è il noto problema del mismatch). L’emigrazione appare così una delle poche opportunità per quegli intellettuali che oggi in Italia aspirino a un lavoro appagante: è la cosiddetta fuga dei cervelli. Ma se essa può rappresentare una soluzione per il singolo non lo è certo in termini generali e sistemici.

Bisogna infatti tener conto del fatto che, nel contesto globale, alla de-nazionalizzazione della proprietà del capitale fisico-materiale fa da contraltare la nazionalizzazione del sapere, della proprietà del lavoro immateriale, la valorizzazione del sapere nazionale76. In questo fase economica, cioè, l’efficacia della “strategia dello stato dipende sempre meno dalla distribuzione della ricchezza fisica e sempre più dalla distribuzione della conoscenza, della capacità di far fruttare le risorse distribuite. Il ruolo dello stato, se nel regime postfordista viene tendenzialmente meno nella sua qualità di distributore di reddito, assume invece un’importanza strategica nella sua qualità di distributore di capacità immateriali, di conoscenze, di valorizzazione dell’individuo […] all’interno del mercato globale”77. Qualità che, evidentemente, il nostro paese non persegue.

Il capitalismo postfordista, infatti, risulta aver agito sul nostro sistema universitario solo attraverso il taglio radicale della spesa, mantenendo (e anzi esacerbando di fatto) un modello di reclutamento dei docenti universitari basato sulla competizione gerarchica (e non sulla valorizzazione delle conoscenze, delle esperienze, dell’innovazione teorica, etc.). Effetto di tale azione è sicuramente la produzione di un lavoratore cognitivo docile e già prono a qualsiasi richiesta del capitalismo postfordista. Tuttavia, la mancata valorizzazione delle intelligenze meglio formate della nazione rappresenta lo spreco di una risorsa strategica, il simbolo di una politica economica e culturale suicida.


Note 
M. Spence, Il digitale sostituisce la manodopera, in “IlSole24Ore”, 23/05/2014, http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2014-05-23/sostituzione-digitale-lavoro-140056.

R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 67 e 73.
C. Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisglobale, Ombre corte, Verona 2010, p. 74.
C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 44.
Ivi, pp. 35-7.
F. Raparelli, Rivolta o barbarie. La democrazia del 99 per cento contro i signori della moneta, Ponte alle Grazie, Milano 2012, p. 105.
S. Federici, G. Caffentzis, Notes on the Edu-Factory and Cognitive Capitalism, in The Edu-factory Collective, Toward a Global Autonomous University, Autonomedia, New York 2009, pp. 125-131, reperibile in http://www.edu-factory.org/wp/wp-content/uploads/2010/10/edufactory-book-en.pdf
E. Zucchetti, Un mercato del lavoro plurale: tra «vecchi» e «nuovi» equilibri, in S. Bertolini, R. Rizza (a cura di), Atipici?, Franco Angeli, Milano 2005, p. 33.
C. Saraceno, Le differenze che contano tra i lavoratori atipici, in Bertolini, Rizza (a cura di), Atipici?, cit., p. 16.
10 D. Checchi, La disuguaglianza. Istruzione e mercato del lavoro, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 127.
11 G. Burgio, Genuflessibilità. La formazione del maschile nel lavoro postfordista, in M. Marino (a cura di), Il ritorno di Sisifo. Formazione e lavoro nella società della conoscenza, Anicia, Roma 2007.
12 A. Dal Lago, A. Molinari, I giovani: una costruzione sociale di successo, introduzione a A. Dal Lago, A. Molinari (a cura di), Giovani senza tempo. Il mito della giovinezza nella società globale, Ombre corte, Verona 2001, p. 20.
13 M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 142.
14 A. Negri, Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Datanews, Roma 2008, pp. 89.
15 Ivi, p. 91. 
16 Ivi, p. 88. Corsivo della fonte.
17 Marazzi, Il comunismo del capitale, cit., p. 21.
18 Negri, Dalla fabbrica alla metropoli, cit., p. 89.
19 F. Chicchi, Derive sociali. Precarizzazione del lavoro, crisi del legame sociale ed egemoniculturale del rischio, Franco Angeli, Milano 2001, p. 64.
20 M. Ambrosini, B. Beccalli, Introduzione, in M. Ambrosini, B. Beccalli (a cura di), Lavoro nuova cittadinanza. Cittadinanza e nuovi lavori, Franco Angeli, Milano 2000, p. 10.
21 S. Bologna, D. Banfi, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano 2011, p. 74.
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24 A. Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 370.
25 É. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 98.
26 Appadurai, Il futuro come fatto culturale, cit., pp. 380-1.
27 Ivi, pp. 381-2.
28 Ivi, p. 370.
29 M. Marino, Procedure critiche per un modello di formazione sostenibile, in Marino (a cura di), Il ritorno di Sisifo, cit., pp. 65-68.
30 B. Vertecchi, Riflessioni sul Novecento, in B. Vertecchi (a cura di), Il secolo della scuolaL’educazione nel Novecento, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp. 1-20.
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52 Ciccarelli, Allegri, La furia dei cervelli, cit., p. 115.
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54 M. Deriu, Terzo settore: l’antropologia esistenziale delle nuove generazioni tra precariate innovazione sociale, in P. Barcellona (a cura i), Lavoro. Declino o metamorfosi?, Franco Angeli, Milano 2000, p. 83.
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57 O. de Leonardis, Vedere il potere, prefazione a Sennett, Autorità, cit., p. XII.
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59 A. Santoni Rugiu, Chiarissimi e Magnifici. Il professore nell’università italiana (dal 1700 a2000), La Nuova Italia, Firenze 1991.
60 D. Starnone, I cortigiani del sapere. La prestigiosa servitù degli intellettuali, in AA.VV. Nuove servitù, Manifestolibri, Roma 1994, p. 55.
61 de Leonardis, Vedere il potere, cit., p. XIX.
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63 B. Latour, La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza, Edizioni di Comunità, Torino 1998, pp. 40-2.
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67 P. Bertolini, L’eros in educazione. Considerazioni pedagogiche, in P. Bertolini, M. Dallari (a cura di), Pedagogia al limite, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 141. Sul tema vedi anche R. Mantegazza, Con pura passione. L’eros pedagogico di Pier Paolo Pasolini, Edizioni della battaglia, Palermo 1997.
68 J.C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza. I “verbali segreti” dietro la storia ufficiale, Elèuthera, Milano 2006, pp. 169-170.
69 Sennett, Autorità, cit., p. 27.
70 P. Maltese, Generazioni precarie. Formazione e lavoro nella realtà dei call center, ETS, Pisa 2011.
71 A.M. Piussi, Oltre l’uguaglianza: farsi passaggio, in AAA.VV., Con voce diversa. Pedagogie differenza sessuale e di genere, Guerini, Milano 2001, p. 228.
72 Negri, Dalla fabbrica alla metropoli, cit., pp. 89.
73 Sennett, Autorità, cit., p. 114.
74 Ivi, p. 134.
75 Starnone, I cortigiani del sapere, cit., pp. 58-9.
76 Marazzi, Il posto dei calzini, cit., p. 91.
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