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micromega

L’attesa di tempi migliori

di Guglielmo Forges Davanzati

Il documento di Economia e Finanza e l’assenza di misure per la crescita

nadef green new deal 320x234Sembra di trovarsi in una condizione macroeconomica per molti aspetti simile a quella che Hegel definiva “la notte delle vacche nere”. Sebbene l’insediamento del Governo Conte 2 abbia coinciso con la riduzione dello spread e, dunque, con minori interessi monetari da pagare ai creditori dello Stato italiano, non si rilevano apprezzabili cambiamenti soprattutto per quanto attiene alla prosecuzione delle misure di moderazione salariale e della conseguente deflazione. Sia chiaro che la deflazione (ovvero il rallentamento del tasso di inflazione) comporta riduzioni del tasso di crescita, dal momento che, da un lato, induce i consumatori a posticipare gli acquisti, attendendosi ulteriori riduzioni dei prezzi, e, dall’altro, spinge le imprese a posticipare i loro investimenti, in considerazione del fatto che i costi sostenuti sono minori dei profitti attesi.

La nota di aggiornamento al documento di Economia e Finanza (NADef) recentemente pubblicata si muove nella direzione corretta, soprattutto mediante la pressoché obbligata sterilizzazione dell’aumento dell’IVA. Ma non va oltre, affidandosi a un recupero dell’evasione fiscale verosimilmente sovrastimato, come osservato da molti commentatori. Ciò è probabilmente dovuto all’urgenza con la quale questo esecutivo intende procedere e, ancor più, al tentativo (a quanto pare al momento di successo) di ripristinare rapporti ‘di buon vicinato’ con le Istituzioni europee.

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sbilanciamoci

Alcuni aspetti trascurati dello sviluppo economico cinese

di Vincenzo Comito

Lo strabiliante sviluppo della Cina contemporanea viene comunemente fatto risalire alle riforme di Deng Tsiao Ping nel 1979 ma a ben vedere senza i programmi sociali precedenti questo sviluppo non avrebbe attecchito

38911980385 29d92ed2b8 kLa Cina ha da poco festeggiato il 70 ° anniversario della nascita della repubblica popolare.In questi settanta anni abbiamo assistito ad uno degli eventi più importanti della storia contemporanea. Il Paese più popoloso del mondo, che si trovava in una situazione di grande povertà e arretratezza economica, tecnologica, sociale, è arrivato alla prima posizione in classifica nel settore industriale, poi in quello commerciale ed infine in quello del Pil (calcolando almeno questo indicatore con il criterio della parità dei poteri di acquisto), mentre ora esso sta cercando di raggiungere anche la posizione di comandonelle tecnologie. E sembrano esserci molte probabilità che ci arrivi abbastanza presto.

Con queste note vogliamo sottolinearealcuni aspetti di tale crescita che sono messi quasi sempre poco in rilievo nei numerosi commenti che possiamo leggere e ascoltare in queste settimane di commemorazione dell’anniversario, ma che, nondimeno, ci appaiono molto importanti per capire meglio il processo di sviluppo del Paese.

 

Prima del 1979

Tutti fanno riferimento al grande salto in avanti compiuto dall’economia cinese a partire dal 1979, sotto l’impulso in particolare delle nuove politiche avviate in quell’anno da Deng Tsiao Ping; in effetti, a tale data la Cina era ancora uno degli Stati più demuniti del mondo, con il 60% circa della popolazione che viveva sotto la soglia della povertà, mentre ancora i tre quarti degli abitanti erano concentrati in campagna.

Ma pochi si soffermano sul fatto che fondamentali premesse allo sviluppo successivoerano state poste nei decenni precedenti al 1979 attraverso i programmi sociali del nuovo governo rivoluzionario.

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palermograd

Oltre il "breveperiodismo", promuovere innovazioni attraverso l'intervento pubblico

Marco Palazzotto intervista Guglielmo Forges Davanzati

keynes2Guglielmo Forges Davanzati (Napoli, 1967) è professore associato di Economia Politica presso l’Università del Salento, e titolare degli insegnamenti di Macroeconomia e di Economia del Lavoro presso la medesima sede. Si occupa di teorie postkeynesiane della distribuzione del reddito, della crisi italiana e dei divari regionali, di Storia delle teorie economiche. Fra le sue più recenti pubblicazioni si segnalano le monografie Ethical codes and income distribution: A study of John Bates Clark and Thorstein Veblen (London: Routledge, 2006) e Credito, produzione, occupazione: Marx e l’istituzionalismo (Roma: Carocci, 2011).

* * * *

Non possiamo evitare di parlare della situazione italiana e in particolare del governo appena nato. Anche Liberi e Uguali è entrato nell’esecutivo. Da più parti si plaude a questa nuova formazione (ad esempio i tre grandi sindacati confederali). Tale ottimismo è basato sull’ipotesi che ci sarà maggiore attenzione alle politiche sociali. Sicuramente c’è una diversità tra il precedente Conte e l’attuale. Ma le premesse non sembrano indicare una significativa svolta. Lei cosa ne pensa?

Dal mio punto di vista, la svolta c’è stata, è stata di una rapidità inattesa e, nelle condizioni politiche date, da salutare positivamente. L’essersi liberati dalla Lega al Governo non è cosa di poco conto. Anche alcune premesse fanno ben sperare: penso innanzitutto alla messa in discussione del progetto di autonomia differenziata e anche al superamento della flat tax. E penso a ciò che ha in programma il nuovo Governo per il Mezzogiorno: mi riferisco, in particolare, al piano per il Sud recentemente annunciato, con incrementi di investimenti pubblici, del tutto in linea con le raccomandazioni contenute negli ultimi rapporti SVIMEZ.

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economiaepolitica

La parziale riscoperta della politica fiscale al tempo della stagnazione secolare

di Davide Cassese

what is fiscal policy 640x414Nel 2014 Larry Summers, durante un discorso presso l’FMI, sosteneva che l’economia mondiale avrebbe corso il rischio di essere impigliata in una stagnazione secolare (Summers, 2014; 2015), vale a dire in una situazione di bassa crescita e di contestuale incapacità delle banche centrali di agire nella direzione di invertire il trend dell’economia, dato il livello dei tassi di interesse già eccezionalmente basso.

Da quel momento la questione della stagnazione secolare è entrata nel dibattito scientifico e sta acquisendo molta importanza presso gli addetti ai lavori. Su questa rivista una fedele ricostruzione del dibattito è stata fatta da Di Bucchianico (2018).

Rispetto a questo fenomeno, oltre alla ricerca delle cause che possono determinarla, diventa rilevante anche la ricerca di soluzioni per superare la stagnazione stessa.

 

La stagnazione secolare e il ruolo della politica monetaria

Secondo Summers le cause della stagnazione secolare dovrebbero essere ricercate nel fatto che il tasso di interesse naturale – quello che metterebbe in equilibrio risparmi ed investimenti – si trovi in territorio negativo. Dato che il tasso di interesse di mercato non può essere negativo, essendo quindi superiore a quello naturale, l’economia si trova ad operare in un contesto di deflazione, in cui gli investimenti ristagnano. Come soluzione Summers sostiene che le banche centrali debbano mantenere i tassi di interesse nominali a zero per lungo tempo, così da generare aspettative di inflazione future. L’aumento dell’inflazione attesa avrebbe un effetto espansivo, attraverso la riduzione dei tassi di interesse reali: modificherebbe le decisioni di consumo ed investimento e darebbe vigore alla dinamica dell’economia.

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maggiofil

Le cronache del nostro scontento

2015: “SuperMario” e Renzinomics

di Giorgio Gattei

Draghi Renzi 520x245Riassunto delle puntate precedenti: Non mi sono fermato. Ho soltanto rallentato la serie di queste Cronache del nostro scontento che dovevano portare, nel 2018, alla sorpresa straordinaria di un governo “giallo-verde” in Italia. E avevo fatto cominciare quelle Cronache dal 2011: il complotto di “re Giorgio” (maggiofilosofico.it 27.3.2017), quando il governo Berlusconi era stato “defenestrato” da una manovra combinata, a mezzo del nazionale e dell’europeo, per preparare il terreno all’introduzione in Italia delle politiche della “austerità espansionistica”, che però espansionistica non è stata mai. Così nel 2012: arriva Monti e il Fiscal Compact (maggiofilosofico.it 6.6.2017) ed il piano veniva portato in esecuzione col doppio obiettivo di ridurre il rapporto Debito pubblico/PIL ad una misura compatibile con la crescita economica (il che si riteneva allora possibile), ma anche e soprattutto con l’azzeramento (proprio lo 0,0%) del rapporto Deficit/PIL, il che voleva dire l’obiettivo di un bilancio statale “in pareggio” (non a caso anche inserito in Costituzione con modifica dell’art. 91) che avrebbe dovuto essere conseguito, secondo quanto previsto dal Fiscal compact, nel 2014. Naturalmente nel 2013: il bis di “re Giorgio” e quella austerità “che fa male” (maggiofilosofico.it 14.9.2017) ci si muove proprio in quella direzione, ma non ci si riesce e ad andare a zero non sarà il disavanzo, bensì la crescita del PIL! Con il conseguente calo dei consumi delle famiglie, degli investimenti delle imprese e della spesa dello Stato, la domanda aggregata finirà al di sotto dell’offerta ed i prezzi prenderanno a calare. Nel 2014: il fenomeno Renzi mentre arriva la deflazione (ma tra i due fatti non c’è relazione) (maggiofilosofico.it 19.10.2017) si riconoscerà che non può esserci alle viste alcun pareggio di bilancio, un obiettivo che Bruxelles rinvierà al 2017 accordandoci al momento un disavanzo pubblico del 2,9%, appena un pelino al di sotto di quel 3% fissato dal Trattato di Maastricht.

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È vero che la Germania può fare deficit e noi no?

di Thomas Fazi

Germania Bandierina BorseR439Benvenuti a una nuova puntata della nostra rubrica “Le fake news economiche di Luigi Marattin”. In questi giorni i liberisti de’ noantri si stanno dando da fare per spiegarci perché la Germania – a differenza di noi – si può permettere lo stimolo fiscale da 50 miliardi recentemente annunciato dal governo tedesco. Ovviamente non poteva mancare un contributo del nostro economista preferito.

In un suo post, Marattin ci spiega che la ragione per cui la Germania può – e noi no – è che «la Germania ha “risparmiato” in tempi di ciclo favorevole (portando il debito al 60 per cento del PIL e conseguendo addirittura un avanzo di bilancio), al fine di poter spendere – e spendere tanto – in tempi di ciclo meno favorevole». Prosegue poi Marattin: «Per poter utilizzare la “politica fiscale controciclica” in sicurezza» – si dice anticiclica ma vabbè – «occorre aver fatto anche l’altro pezzo: tenere i conti in ordine quando le cose vanno meglio». Lezione che, secondo Marattin, sarebbe rimasta «sempre inattuata in Italia».

Quanto c’è di vero nell’analisi di Marattin? Ben poco, come vedremo. Tanto per cominciare, come abbiamo visto nelle prime due puntate (qui e qui), in un paese che emette la propria valuta non c’è alcuna relazione tra rapporto debito/PIL – e dunque sull’aver “tenuto i conti in ordine” in passato – e lo “spazio fiscale”, cioè la possibilità o meno di fare deficit; altrimenti non si capirebbe come faccia il Giappone, con un rapporto debito/PIL del 250 per cento, il doppio di quello italiano, a mantenere da più di vent’anni un disavanzo primario – cioè uno stimolo fiscale – permanente nell’ordine del 4-5 per cento del PIL. Altro discorso per i paesi dell’eurozona, che sono sottoposti al ricatto permanente dei mercati e alle decisioni arbitrarie della BCE, ma questo a prescindere dall’entità del loro debito pubblico.

Ciò detto, è vero che la Germania in passato ha avuto un comportamento fiscale più virtuoso del nostro, “risparmiando” più dell’Italia in tempi di ciclo favorevole?

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dialetticaefilosofia

La crisi economica italiana ai tempi del sovranismo

E come provare a invertire la rotta

di Guglielmo Forges Davanzati*

Questa nota è una sintesi del mio intervento al dibattito su “Sovranismo e populismo” tenutosi a Racale (LE) il 30 luglio 2019, nell’ambito del Festival “Filofollia”. Si articola in tre punti, che riguardano: (i) il c.d. declino economico italiano; (ii) l’accentuarsi degli squilibri regionali fra Nord e Sud del Paese, con particolare riferimento all’’autonomia differenziata’; (iii) l’individuazione di misure di contrasto alla recessione1.

populismo conflitto sociale sovranismo1. L’Italia non cresce perché continua a ridursi la produttività del lavoro, in una spirale che dura da oltre venti anni e che segnala valori della produttività quasi costantemente inferiori alla media europea nel periodo considerato. La bassa crescita della produttività del lavoro è imputabile a due fattori: il calo degli investimenti pubblici e privati e la continua riduzione della quota dei salari sul Pil. Proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulla storia recente della nostra economia.

Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari, con conseguente inflazione conflittuale e peggioramento del saldo delle partite correnti. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est.

Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione – che negli anni precedenti era estremamente alta anche per il doppio shock petrolifero del 1973 e del 1979 – comincia a essere ridotta. Dopo il picco raggiunto nel 1982 (14.7%), per tutti gli anni ottanta il tasso di inflazione continua a scendere, arrivando al 4.7% del 1987. Ciò è imputabile, da un lato, alla fine della stagione del conflitto dentro e fuori la fabbrica, e dunque all’avvio di una fase di moderazione salariale, dall’altro, all’aumento dei tassi di interesse finalizzato ad attirare capitali speculativi per riequilibrare la bilancia dei pagamenti.

L’aumento dei tassi di interesse ha però effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti privati, non compensati da significativi aumenti degli investimenti pubblici. Negli anni ottanta, l’aumento della spesa pubblica è prevalentemente dovuta a un aumento della spesa corrente (che passa dal 35% del 1980 al 45% in rapporto al Pil del 1990), finalizzata a neutralizzare – definitivamente – i residui di conflittualità ereditati dal decennio precedente.

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lantidiplomatico

Tutte le Fake News di Marattin sull'Europa

di Thomas Fazi

0f030e0266e6b9dcad1d71cc4b8b4dc5Benvenuti alla terza puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin”, la rassegna in cui analizziamo le “video lezioni di economia” che da qualche settimana a questa parte il consigliere economico del PD sta pubblicando sul suo profilo. Qui trovate le prime due puntate, dedicate rispettivamente al debito pubblico e al finanziamento monetario della spesa pubblica:

https://www.facebook.com/thomasfazi/videos/2341908382568953/

e

https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569

Nel suo ultimo video (https://www.facebook.com/LuigiMarattinPD/videos/740118099768418/) Marattin si propone di spiegare nientedimeno che gli enormi benefici che l’Italia avrebbe tratto dall’ingresso nel mercato unico (UE) prima e nell’euro poi e perché, dunque, «non è vero che se uscissimo dall’Europa e dall’euro ci libereremmo di tutte le nostre catene». Come al suo solito, Marattin ricorre ad un classico argomento fantoccio, in cui si confuta un argomento proponendone una rappresentazione volutamente distorta e macchiettistica: nessuna persona ragionevole, infatti, ha mai posto la questione in questi termini. Ma passiamo oltre.

Secondo Marattin, «il vantaggio principale che abbiamo dal partecipare all’Unione europea, al mercato unico europeo, è quello di poter vendere le nostre merci [in Europa] senza pagare dazi doganali e senza restrizioni commerciali e quindi di poter creare occupazione e investimenti in Italia». «Basta chiederlo a ogni imprenditore che esporta», aggiunge, col tono di chi la sa lunga. Questa affermazione è problematica per numerosi motivi. Tanto per cominciare, dalle parole di Marattin ci si aspetterebbe che l’ingresso dell’Italia nel mercato unico abbia fornito un forte stimolo alle nostre esportazioni rispetto al periodo antecedente (e, di conseguenza, che un’uscita dall’UE e/o dall’euro sarebbe una rovina per l’export italiano).

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lantidiplomatico

Tutte le fake news di Marattin sul "finanziamento monetario"

di Thomas Fazi

11c003abdbb2209f2e1c69b2e4f1550dBenvenuti alla seconda puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin” (la prima puntata la trovate qui).

Oggi prendiamo in esame l’ultima “video lezione di economia” di Marattin, in cui il consigliere economico del PD si propone di rispondere «ad una domanda che va molto di moda tra ciarlatani e finti economisti vari, cioè perché non possiamo semplicemente stampare tutta la moneta che vogliamo?».

La risposta è semplice: perché altrimenti faremmo la stessa tragica fine di tutti quei paesi i cui governi «hanno ceduto alla tentazione di stampare soldi», con il risultato che si sono ritrovati «l’inflazione al miliardo per cento» [sic] e «l’economia in rovina». Gli esempi portati da Marattin sono, ça va sans dire, i soliti noti cari agli amanti del genere “piaghe d’Egitto da iperinflazione”: la Repubblica di Weimar, lo Zimbabwe e il Venezuela. O, come si dice in gergo tecnico, lo Zimbabweimaruela.

«I tutti questi casi – dice Marattin – la molla che ha fatto scattare tutto questo è il governo che aveva bisogno di soldi e ha pensato di stamparli», facendo schizzare l’inflazione alle stelle. Marattin passa poi a spiegare il meccanismo economico, ahem, alla base di questo di questo fenomeno: «La moneta sottostà alle normali leggi di domanda e offerta di qualunque altro bene. Prendiamo i cellulari. Se il mondo fosse inondato di offerta di cellulari il prezzo di questi si ridurrebbe fino ad arrivare a zero. Per la moneta è la stessa cosa. Se chi controlla l’offerta di moneta – cioè la banca centrale – comincia a stamparne in quantità molto elevate, quindi ad aumentare l’offerta di moneta, il valore di quella moneta va rapidamente a zero».

Tutto questo spiegherebbe perché «la leggenda per cui se a un governo servono i soldi basta stamparli e tutto risolve è una leggenda che nell’ultimo secolo ha portato distruzione, danni permanenti all’economia ed è una pericolosa illusione che viene spacciata da chi non ha idea di come funzioni un sistema economico».

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scenarieconomici

La crisi di governo e i bisogni degli italiani: mancano 100 miliardi di euro l’anno

di Davide Gionco

Gialloverde sadMentre l’Italia, ovvero molti milioni di italiani (non un concetto generico, ma persone, con le loro famiglie, il loro lavoro) continua ad essere immersa nei suoi gravi problemi sociali ed economici, ecco che ci ritroviamo in una crisi di governo, da cui francamente si fa fatica a vedere degli sbocchi positivi, che possano garantire una situazione “meno peggiore” di quella precedente.

Naturalmente è già partito il teatrino di tv e giornali sulle possibili nuove elezioni o sulle possibilità che venga formata una diversa maggioranza politica in Parlamento.

I vari partiti non perdono occasione di dire di non avere timore di presentarsi alle elezioni, proponendosi agli elettori come alternativa seria all’attuale ex maggioranza politica. 

Per favore, scendiamo dalla giostra della “politichetta”!

Non stiamo giocando il campionato di calcio, dove l’importante è che la nostra squadra vinca la partita, per poter poi sventolare la nostra bandiera.

L’Italia continua ad avere milioni di persone in povertà assoluta ed altri milioni di persone a rischio di cadere in povertà.

L’Italia continua ad avere milioni di disoccupati e molti milioni di persone che tirano a campare, con lavoretti part-time, con datori di lavoro che li sfruttano, con l’Agenzia delle Entrate sempre pronta a tartassare le nostre piccole e medie imprese portandole senza remore al fallimento, con le poche aziende che sono riuscite a sopravvivere puntando sulle esportazioni e che ora devono fare i conti con le guerre dei dazi ed il calo di domanda dei vicini paesi europei, causato dalle politiche europee di austerità. Una tassazione da record mondiale, unita a servizi pubblici sempre più scadenti e inaccessibili.

I servizi pubblici vanno verso lo scatafascio: la sanità ridotta ai minimi termini dai continui tagli, al punto che mancano medici ed infermieri per curarci, per la manutenzione degli edifici pubblici ridotta al punto che molti edifici sono inagibili, per investimenti nelle infrastrutture (non solo nei trasporti, ma anche nelle telecomunicazioni, nella formazione professionale, nella ricerca, nell’energia…).

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economiaepolitica

Ancora su alcune false convinzioni circa il debito pubblico

di Davide Cassese

debito pubblico falsi mitiE’ stato pubblicato, su Il Foglio, un contributo dell’economista Gianpaolo Galli. L’articolopubblicato è parte di un capitolo, scritto da Galli, di un nuovo libro, edito dall’Istituto Bruno Leoni, dal titolo “Noi e lo stato: siamo ancora sudditi?”.

I punti su cui Galli si concentra sono sostanzialmente tre: la relazione tra debito pubblico e tassazione; l’idea per cui l’emissione di debito pubblico non troverebbe ostacolo, dato che i contribuenti non sono consapevoli che, in periodi futuri, verranno aumentate le tasse; l’onere che il debito rappresenterebbe per le future generazioni. Questo articolo intende controbattere alle tesi esposte da Galli, opponendo ad esso argomentazioni alternative.

 

1. Se emettere debito pubblico significa tassare

Nella parte iniziale dell’articolo Galli sostiene che poiché, prima o poi, il debito deve essere ripagato un aumento di debito di un certo ammontare oggi corrisponda ad un aumento delle tasse domani. Stando alle parole di Galli il debito sarebbe “tassazione differita”, e su questo Galli sostiene che vi sia “sostanziale consenso tra gli economisti”.

Su questo tema viene fatto un esempio in cui si suppone che lo stato decide di ridurre le tasse di 1.000 euro per ogni cittadino e di finanziare il mancato gettito emettendo un titolo con scadenza annuale e con cedola del 5 per cento. Secondo Galli “lo stato dovrà pagare 1.050 euro a ogni detentore del titolo, il che significa che ogni contribuente ottiene una riduzione di tasse di 1.000 quest’anno e un aumento di 1.050 l’anno prossimo.” Questo dovrebbe far presupporre un peggioramento della condizione della collettività. A parere di chi scrive questa conclusione è erronea per due ordini di ragioni.

Primo: Galli implicitamente sostiene che il debito pubblico debba essere azzerato. A meno che non si tratti di casi molto particolari, che rappresenterebbero un’eccezione e non certo la regola, non sembra esserci evidenza su fenomeni di azzeramento del debito pubblico da parte di un Paese tramite politiche di rientro. Si possono registrare, certo, fenomeni di riduzione del debito in rapporto al PIL ma non si registrano episodi in cui un Paese abbia azzerato il suo debito.

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la citta futura

Il salario minimo legale

di Ascanio Bernardeschi

Un’analisi sul terreno della teoria economica del salario minimo ci dice che esso non può sostituire la lotta di classe e il compito storico di superare il capitalismo

9691a5b021752577710a332a46a30f63 XLSe ci vien fatto di dimostrare che la carità legale,
applicata secondo questo principio,
può essere utilmente introdotta nelle società moderne,
noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti,
e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose,
senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale

Camillo Benso Conte di Cavour

Già Carla Filosa ha trattato l’argomento del salario minimo su questo giornale, esaminando le diverse proposte di PD, 5 Stelle e Leu ed evidenziando gli inganni ideologici che vi stanno dietro. Federico Giusti dal canto suo ha colto le opportunità e i rischi derivanti da questo istituto. Nel presente articolo mi propongo di farne una lettura con le “lenti” delle tre principali scuole di teoria economica, quella monetarista, quella keynesiana e quella legata alla critica marxiana dell’economia politica.

I monetaristi, da bravi liberisti, sono contrari a ogni forma di ingerenza statale nel “libero” mercato del lavoro. Per loro esiste un livello “naturale” dei salari, che viene raggiunto nel gioco fra domanda e offerta. Quindi non è opportuno che con provvedimenti di legge si alteri questo equilibrio. Esiste anche, per i seguaci di questa scuola, un livello ottimale della disoccupazione, denominato Non-Accelerating Inflation Rate Of Unemployment (Nairu). Come si intuisce dalla denominazione, si tratta del livello di disoccupazione al di sotto della quale si genera inflazione. Infatti, per questa scuola i profitti non hanno origine dal plusvalore, dal lavoro non pagato, ma sono un ricarico, un “mark up” in gergo, che i capitalisti applicano ai loro costi di produzione per determinare i prezzi. Se diminuisce, per effetto di una politica statale espansiva, la disoccupazione, diminuisce l’offerta di braccia da parte dei lavoratori in confronto alla domanda di forza-lavoro da parte delle imprese. I lavoratori disporranno di un maggiore potere contrattuale, i salari aumenteranno e, dato il mark up applicato, aumenteranno i prezzi. L’aumento dei prezzi farà scendere i salari reali al livello precedente i provvedimenti statali e con ciò la domanda reale.

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economiaepolitica

Bilancia dei pagamenti e squilibri nell’eurozona: cosa occorrerebbe fare

di Rosaria Rita Canale

Abstract: In this article the divergences within the euro area are examined in the light of balance-of-payments imbalances recorded in the TARGET2 balances of the individual countries. It emerges that countries with positive values ​​of the target balances (surpluses) have lower interest rates than the Euro area average and countries with negative values ​​(deficits) have higher than average rates. Furthermore, an inverse relationship also emerges between balance of payments balances and poverty. The centralized measures of monetary policy and quantitative easing, together with fiscal restrictions for countries in deficit seem not to have resolved these differences and a new strategy is proposed to reduce divergences. This strategy, inspired by the post-war Keynes plan, should include expansionary measures for the creditor countries, such as: 1) fiscal expansion; 2) increase in money wages and 3) direct foreign investment in countries in difficulty.

Bilancia dei pagamentiDalla crisi economica ad oggi si sono registrati all’interno della zona Euro squilibri preoccupanti fra i paesi che sembrano non poter essere colmati dalle straordinarie misure espansive di politica monetaria condotta a livello centralizzato dalla BCE. Come è noto poi la politica fiscale – che è affidata ai singoli stati -non può essere usata come strumento di stabilizzazione, se non da quei paesi che rispettano le regole fiscali imposte dai trattati e che quindi non ne hanno un gran bisogno.

Queste differenze fra i singoli paesi sono evidenti negli squilibri della bilancia dei pagamenti. La zona Euro è assimilabile ad un insieme di paesi legati fra loro da un tasso di cambio irrevocabilmente fisso. Tuttavia, dal momento che esiste solo una moneta, in alternativa all’acquisto e alla vendita di riserve in valuta estera è stato concepito un meccanismo di compensazione di nome TARGET[1] – evolutosi nel novembre 2007 in TARGET2 (T2). Con T2 i paesi con un surplus della bilancia dei pagamenti ricevono, attraverso la banca centrale nazionale, il credito netto derivante dal deficit della bilancia dei pagamenti degli altri paesi. Il costo del debito dei paesi in deficit è rappresentato dal tasso di rifinanziamento sulle operazioni principali fissato attualmente dalla BCE allo 0,25%. Perciò questo meccanismo di compensazione agisce come una sorta di linea di credito concessa ai paesi che stanno vivendo una crisi della bilancia dei pagamenti che rende l’Eurozona più resiliente come unione valutaria rispetto al gold standard o ai più tradizionali sistemi di ancoraggio al dollaro (Klein 2017).

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micromega

La disoccupazione giovanile e la proposta di Stato innovatore di prima istanza

di Guglielmo Forges Davanzati

9636 10406 720x478L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.

Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.

La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.

La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – deve essere sottostare a vincoli propriamente economici.

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soldiepotere

La Germania mal guidata rischia il declino

di Carlo Clericetti

angela merkel 740054 624x406Il grafico è semplicissimo, appena due linee. L’ha pubblicato su Twitter Christian Odendahl (@OdendahlC.), capo economista del Centre for European Reform, accompagnato dalle poche parole caratteristiche del mezzo. Ma è quanto basta per far capire l’assurdità della politica economica tedesca, quella che Berlino e i suoi alleati hanno di fatto imposto a tutta l’Unione europea.

Prima di parlare di questo è bene sapere che questo think-tank britannico, nella sua presentazione, si definisce “pro-European but not uncritical”, europeista ma non acritico, considera l’integrazione europea “largely beneficial” ma ritiene che “per molti aspetti l’Unione non funzioni bene”. Ne consegue che le sue intenzioni sono di fare critiche costruttive, questo centro non è un nemico dell’UE.

Ma torniamo al grafico, che mostra gli andamenti dei tassi d’interesse sul Bund, il titolo tedesco a dieci anni, e degli investimenti pubblici in Germania.

“Buongiorno dalla Germania – scrive ironicamente Odendahl – dove siamo pagati per prendere in prestito i soldi eppure i nostri investimenti pubblici sono all’incirca quanti erano dieci anni fa”. Avrebbe potuto dire venti anni fa, e anche aggiungere che ancora prima, nel 1991, quando i tassi sul debito erano quasi al 9%, gli investimenti pubblici erano stati più alti di circa un punto di Pil.

Gli ultimi dati congiunturali della Germania sono pessimi. Ad aprile le produzione industriale è calata dell’1,9% sul mese precedente e dell’1,8% su base annua, ma quella dell’industria in senso stretto (escluse cioè energia e costruzioni) ha segnato un -2,5. La Bundesbank ha tagliato le stime della crescita di un intero punto, dall’1,6 allo 0,6%, riducendo anche quelle per l’anno prossimo. Se per crescere ci si affida solo alle esportazioni, quando succede qualcosa nel resto del mondo – come ora con la guerra dei dazi – si subisce un contraccolpo pesante. Insieme a questi dati arriva infatti anche quello dell’export, calato del 3,7% sul mese precedente.