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“Anomalie italiane”, o come si prepara la guerra ai lavoratori


La “riforma” del mercato del lavoro e con essa quella degli ammortizzatori sociali, implicano un cambiamento non solo strutturale, ma anche una cornice ideologica e semantica, entro la quale inscrivere le proposte di modifica e “rivoluzione” in atto. A nostro avviso è su tutti i piani che va accettata la sfida e combattuta questa battaglia. Di seguito alcune brevissime “istruzioni per l’uso”, partendo dalle esternazioni del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e da alcune riflessioni nostre e di altri compagni a partire dalle proposte di abrogazione dell’articolo 18.

Ad aprire lo show delle citazioni da antologia legate alle nuove forme di relazioni industriali, ci ha pensato, circa un anno fa, Sergio Marchionne che, ai giornalisti che gli chiedevano del “modello Pomigliano” e dell’opposizione dei lavoratori alle nuove politiche aziendali della Fiat rispondeva “Io vivo nell’epoca dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di cristo non lo so e non mi interessa”. Ed ecco che, pochi giorni fa, tocca a Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, rilanciare sul piano ideologico: “[…]Da parte nostra c'è la massima volontà di lasciare fuori dal tavolo ideologie, di essere molto responsabili e molto seri".

L’oggetto della discussione, nel secondo caso, è naturalmente legato alla “riforma” del mercato del lavoro di cui tanto si parla e che è uno dei punti fondamentali su cui lavorano, senza sosta e di concerto con i sindacati (CGIL-CISL-UIL), Monti, Fornero, Passera & co. e, nel caso specifico, la Marcegaglia, che parla dell’articolo 18 e della “flessibilità in uscita”.


Assunto il piano del discorso, giusto un paio di dati e qualche spunto per una riflessione più ampia: la Marcegaglia si scaglia contro l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori definendolo “anomalia italiana”… niente di più falso, anche da un punto di vista statistico: secondo gli indici OCSE (Strictness of employment protection), infatti, liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano che per un suo concorrente europeo. Al capo opposto c’è, incredibile crederci, data la contropropaganda degli ultimi mesi, la Germania, tanto osannata di questi tempi per la sua famosa “produttività” e crescita economica, che evidentemente si basa sullo sfruttamento della manodopera, ma non s’incentra sulla facilità di licenziare i lavoratori.

In secondo luogo, tocca smontare un impianto ideologico costruito ad arte per cui i “diritti” equivalgono a “privilegi” e a qualcosa di vecchio e ideologico, mentre il mero pragmatismo (ovviamente camuffato come “super-partes”) deve essere il codice di condotta per traghettare le imprese e il capitalismo italiano e europeo fuori dalla crisi. Attenzione: abbiamo scritto “il capitalismo italiano e europeo”. Ebbene sì: forse è il caso di cominciare, con maggiore forza e determinazione e assolutamente al riparo da derive ideologiche, a dire le cose come stanno e combattere su questo livello la retorica dei necessari interventi per far uscire l’Italia (e quindi gli italiani tutti, senza distinzioni di classe) dalla crisi.

Per quanto riguarda l’articolo 18 e quindi la flessibilità in uscita: detto fatto. Quando si preparano svolte epocali in Italia si attacca questo articolo, ma il modo giusto di difenderlo e comprendere il perché dell’attacco, non può che essere quello di analizzare, necessariamente, il quadro complessivo delle proposte di riforma degli ammortizzatori sociali e del “mercato del lavoro”, comprenderne i legami stretti e necessari.

Allora, come sottolineato da Marco Guercio in un articolo ripubblicato da Senza Soste (Art. 18: su le barricate) la volontà di abrogare l’articolo 18 non può essere svincolata dall'introduzione di una norma che abolisce di fatto la contrattazione nazionale e rende valida quella “di prossimità” ossia quella locale anche se derivante da accordi presi con associazioni sindacali non rappresentative a livello nazionale ma rappresentative a livello locale. E, alla domanda su cosa potrebbe succedere se le due modifiche andassero a braccetto, pone, come risposta un altro interrogativo: è una paranoia sospettare che, potendomi licenziare perché, ad esempio, una mattina mi sono presentato al lavoro spettinato, il datore di lavoro si circondi solo di lavoratori costretti ad accettare l'adesione al sindacato locale creato ad hoc e reso rappresentativo dal ricatto dei licenziamenti e, ovviamente, gestito o guidato dallo stesso datore di lavoro?”.

Contemporaneamente, come abbiamo avuto modo di sottolineare in un post recente, ci sarebbe un altro nodo importante che ancora poco viene evidenziato: quello “flessibilità in uscita/riforma delle pensioni, la connessione fra innalzamento dell’età pensionabile e spinta verso una maggiore libertà di licenziare. Infatti, riportando un ragionamento già fatto: secondo le misure previste, le pensioni di anzianità dovrebbero sparire lasciando solo quelle di vecchiaia: ovvero, indipendentemente dagli anni di contributi, si resterebbe a lavoro sino ai 67 anni. Sulle prime – a parte l’insensatezza del provvedimento, visto che si trattiene a lavoro gente che sarebbe ben felice di andarsene a casa e “lasciare il posto” ad una generazione che ancora a 30-35 anni fa fatica ad inserirsi – la misura sembra un regalo ai lavoratori, perché di questi tempi garantisce quasi di conservare fino alla fine il proprio impiego.

Ora, a meno di pensare che Confindustria è impazzita, e constatando invece che spesso le aziende si sbarazzano dei lavoratori proprio attraverso i pre-pensionamenti e “scivoli” vari
- altro oggetto sotto osservazione e soggetto a proposte di modifica sostanziale - dobbiamo giocoforza legare questo provvedimento a quello dei “licenziamenti facili”. Secondo tutti gli studi, intorno ai 55 anni un lavoratore smette di essere produttivo, perché è più stanco, soffre di patologie fisiche e psichiche, è meno motivato, è meno disposto ad aggiornarsi e meno flessibile: è dunque impensabile immaginare che si voglia tenere alla catena di montaggio o a guidare camion gente di 67 anni… Ma se il padronato avesse la possibilità di licenziare liberamente, potrebbe tenersi il lavoratore sino ai 55-60 anni e poi “lasciarlo andare”; il lavoratore ovviamente sarebbe costretto a continuare a lavorare sino al raggiungimento della pensione, e si sposterebbe verso mansioni più umili e dequalificate. È qualcosa che nel resto del mondo già succede: con persone ultrasessantenni che lavorano per anni nei Mac Donald’s o nelle imprese di pulizie in attesa di arrivare all’agognata pensione.

E di certo, citando quest’ultima possibilità non facciamo riferimento, come si sente in alcune trasmissioni televisive “di regime”, a quei poveri dirigenti che, una volta fuori, poi avrebbero la difficoltà a mantenere uno stile di vita adeguato alle proprie abitudini, con una pensione di soli 2.500-3.000 euro! Con tanto di lacrime del caso di studio…

Insomma, la battaglia per l’articolo 18, sulle riforme della contrattazione, degli ammortizzatori sociali e, più in generale sul "mercato del lavoro" è cominciata ed è una battaglia, dal nostro punto di vista, un punto di vista dei lavoratori, quella per la difesa di tutta la classe lavoratrice contro un attacco terribile da parte del padronato che ha due dei suoi più esimi esponenti seduti uno a Palazzo Chigi e uno sul trono della BCE.

Dal nostro punto di vista è la battaglia che non si può non combattere.

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