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Ancora su Tav e violenza

Diego Fusaro

Ha fatto molto discutere l’intervista rilasciata a “Lo Spiffero” qualche settimana fa da me e da Gianni Vattimo in merito alla TAV e alla violenza. Oltre all’usuale chiacchiericcio di internet, anche il “Corriere della Sera”, il 15 agosto, ha dato ampio spazio ai temi trattati nell’intervista. Con questo mio intervento, non intendo far altro che riprendere alcuni plessi teorici a cui avevo fatto cenno in modo necessariamente impressionistico e che, sciaguratamente, nel dibattito giornalistico e su internet sono passati del tutto inosservati e, di più, sono stati (artatamente?) occultati, come se non esistessero.

Il mondo della manipolazione organizzata, del resto, funziona così e non bisogna meravigliarsene. Per dirla con Antonio Gramsci, la stampa resta “la parte più ragguardevole e più dinamica” dell’organizzazione dell’egemonia ideologica. Essa dà costantemente luogo a quella – sono ancora parole del filosofo sardo – “situazione di grande ipocrisia sociale totalitaria” che ottunde quotidianamente le nostre menti. Si tratta di una questione ampiamente nota, ma che non bisogna mai perdere di vista, pena lo smarrirsi nel caos organizzato dell’ideologia dominante, il pensiero unico neoliberale che ha colonizzato l’immaginario collettivo con il dogma religioso “non avrai altra società all’infuori di questa!”.

Nel nostro caso, l’intorbidamento ideologico della questione sta esattamente in questo: la discussione circa l’essenza della violenza – il solo punto interessante per inquadrare l’affaire TAV e le proteste in Val Susa ad esso connesse – è stata integralmente evitata e si è riportata l’attenzione sulle solite manfrine, gravide di ideologia, circa la legittimazione della violenza dei contestatori della Val Susa.

Come se, appunto, il sottoscritto fosse intervenuto per legittimare la violenza in ogni sua forma! Come se, da una parte, vi fosse la pace generale e, dall’altra, un manipolo di facinorosi della sperdutissima val Susa che, senza motivo e per puro spirito conflittuale, ricorrono alla violenza in ogni sua possibile forma.

Si tratta di una decontestualizzazione completa, il cui unico fine consiste nel rendere incomprensibile la concreta situazione, presentando in modo niente affatto innocente la violenza dei resistenti come l’unica in campo. Sarebbe come dire – mi si conceda questo paragone – che solo i partigiani erano violenti.

Onde evitare pittoreschi equivoci (ed equivoco, curiosità e chiacchiera restano il regno dell’inautenticità, Heidegger docet), preciso nuovamente la mia prospettiva, in modo che quanti vogliono criticarmi possano farlo prendendo di mira la mia posizione e non – come finora hanno indefessamente fatto – un fantoccio creato ad hoc: tutta la patetica ipocrisia della propaganda ufficiale sta nel criminalizzare come violenti i Valsusini, obliando integralmente il fatto che la violenza è – come altre volte ho avuto modo di sottolineare – l’essenza stessa della società di mercato di cui siamo sudditi (la violenza come “categoria economica immanente”, secondo l’insuperabile formulazione di Lukács).

In questo modo, la partita è vinta senza neppure bisogno di scendere in campo: è violento, per l’ideologia egemonica, sempre e solo chi resiste; la violenza non è mai quella della tirannia del mercato e del fanatismo di un’economia che sottomette le comunità umane alle sacre leggi dell’ordo oeconomicus (nel nostro caso, la creazione di una linea ferroviaria per far circolare più velocemente le merci, in un totale disinteresse della volontà sovrana del popolo), ma è sempre e solo quella di chi si oppone, magari anche con mezzi non propriamente ortodossi. All’egemonia ideologica piace vincere facile, e può farlo perché detiene in modo monopolistico i canali dell’informazione (tv, radio e giornali – a destra come a sinistra – ripetono in modo plurale sempre e solo lo stesso messaggio)!

Questo intendevo sostenere: né più, né meno. Né apologia della violenza, né – tanto meno – difesa a oltranza del popolo che scende in piazza (secondo quella banale identificazione tra discesa in piazza e prassi rivoluzionaria di cui la Vandea continua a rappresentare la più tragica e incontrovertibile confutazione).

Se si vuol condannare la violenza, magari citando Gandhi e le variopinte tradizioni pacifiste, lo si faccia pure, purché si sia coerenti: ossia purché non ci si dimentichi che la prima forma di violenza da condannare non è quella dei Valsusini, ma quella dell’economia globalizzata che impone le sue leggi a scapito della vita umana e del pianeta. Mi rendo conto, tuttavia, che pretendere questo dal clero mediatico significa chiedere troppo.

La resistenza valsusina è, appunto, una forma di resistenza alla violenza criminale dell’economia e delle politiche neoliberali. Per dirla ancora più chiaramente: condannare unicamente i Valsusini non equivale a condannare la violenza, ma semplicemente a glorificare quella dell’economia, per di più dichiarando illegittimo a priori ogni tentativo di opporsi ad essa.

L’ipocrisia ideologicamente condizionata raggiunge, in effetti, vette insuperate quando si condanna la violenza dei Valsusini in nome del pacifismo. Come se, appunto, fossero la pace il totalitarismo dell’economia e il fanatismo della finanza che uccide silenziosamente in nome dell’economia e dello spread!

È francamente ripugnante – ieri come oggi – il pacifismo delle masse impotenti che sfilano tra bandiere policrome e belati osceni (“paceee! paceee!”), mentre l’economia continua a mietere le sue vittime e a diffondersi imperialisticamente con bombardamenti umanitari. Il pacifismo non è che l’introiezione del potere in un mondo intessuto di violenza e aggressioni: esso è, dunque, la legittimazione del monopolio della violenza aperta dei dominanti e di quella silenziosa di un sistema che espropria l’umanità del futuro. È, in altri termini, un modo sofisticato (ma neanche troppo!) per negare ai dannati della terra perfino il diritto di lottare e di opporsi alle angherie che quotidianamente patiscono sulla loro carne viva.

Con buona pace del titolo di un best seller del nostro tempo, che recita programmaticamente che resistere non serve a niente, la resistenza al monopolio della violenza organizzata del fanatismo economico che disgrega gli Stati e distrugge le comunità è di vitale importanza. È il solo mezzo per evitare che l’umanità sprofondi inappellabilmente nella notte che non ha mattino. Con gli splendidi versi di Eliot: “noi che non fummo sconfitti solo perché continuammo a tentare”.

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