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il conformista

Renzinomics: The Times They Are Not A-changin’

Federico Stoppa

“Non abbiamo bisogno di manovre o aggiustamenti, quello che ci serve è un cambio di orizzonte mentale, un nuovo paradigma economico, sociale e politico che rompa con gli schemi del passato”. Yoram Gutgeld, israeliano, ex McKinsey,   presenta così il programma economico del nuovo PD targato Matteo Renzi.  Il titolo del lavoro promette bene: ”Più uguali, più ricchi” (Rizzoli, 2013).

Il lettore potrebbe dedurre che la questione della disuguaglianza sia stata di nuovo messa in cima alle priorità della politica – e in particolare del principale partito della Sinistra. Si tratterebbe, questa si, di una rivoluzione copernicana, di un’abiura del paradigma neoliberista e del suo principale assioma : la disuguaglianza genera crescita, e la crescita economica diffonde benessere, anche nelle classi più povere (“effetto sgocciolamento“). Un teorema molto alla moda nella letteratura economica della “nuova” sinistra: da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore, 2007) fino a Pietro Reichlin e Aldo Rustichini (Pensare la Sinistra. tra Equità e Libertà, Laterza, 2012).  Un teorema – come sappiamo – abbondantemente falsificato dall’evidenza empirica.

L’Italia, secondo due rapporti dell’ Ocse (2008,2011), è il terzo paese più diseguale d’Europa, dopo Regno Unito e Portogallo, e anche quello che cresce di meno.

Nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero. Negli anni Ottanta, tale rapporto era di 8 a 1. Questa disuguaglianza, come afferma Maurizio Franzini nel suo ultimo saggio (Disuguaglianze inaccettabili, Laterza, 2013), è immobile, rigida: si trasmette di padre in figlio, disincentivando l’investimento in capitale umano e l’innovazione.

Il lettore prosegue fiducioso, auspicando una diagnosi originale dei guai italiani ed europei di questi anni, e soluzioni diverse da quelle mainstream per uscire dall’impasse. Rimarrà deluso, lo diciamo subito. Dopo solo quattro pagine Gutgeld sconfessa il titolo: la parola uguaglianza non va bene, meglio equità. “Un sistema meritocratico che premia chi raggiunge certi risultati nel suo lavoro favorisce l’equità pur producendo disuguaglianza, così come licenziare un dipendente che ruba è equo pur aumentando le differenze fra i singoli lavoratori” (p.9). E ancora: “ aliquote fiscali penalizzanti sui redditi alti scoraggiano l’impegno di chi se li è guadagnati e una tassazione eccessiva dei grandi patrimoni ne incentiva il trasferimento verso altre mete”. Da notare, in proposito,  che dagli anni Ottanta ad oggi l’aliquota marginale massima sui redditi in Italia è passata dal 72% al 43%, e il nostro Paese ha fatto registrare una crescita del mitico Pil inferiore a tutti i maggiori Paesi Ocse. Ridurre le tasse ai più ricchi non fa crescere l’economia, ma la concentrazione di reddito e ricchezza. Il motivo è semplice: i risparmi concessi dagli sgravi fiscali ai più abbienti non si traducono in maggiori posti di lavoro, ma vanno a finire nell’infinito gioco all’accumulo della Borsa.

A parte qualche felice intuizione qua e là su evasione e grandi opere, le tesi che Gutgeld presenta come rivoluzionarie sono un déjà vu. Nell’ordine: la spesa sociale italiana è per il 90% appannaggio della componente anziana della popolazione; perciò dobbiamo tagliare ulteriormente la spesa pensionistica per finanziare gli asili nido e le misure contro la povertà;   sul mercato del lavoro si fronteggiano una minoranza più anziana con troppe tutele e una massa di giovani precari: la situazione dei secondi dipende dall’eccessivo garantismo verso i primi, che andrebbe per questo ridotto. Poi, l’enfasi posta sulla meritocrazia come panacea di tutti i mali e l’idea che il paese si rilanci con il taglio della spesa pubblica, improduttiva per definizione (“servirebbe una riduzione strutturale di almeno 30-40 miliardi l’anno” p.103) e l’abbattimento delle tasse sul lavoro e dei contributi previdenziali (cuneo fiscale). Dulcis in fundo:  la proposta di nuove privatizzazioni degli assets pubblici per 10-15 miliardi di euro, compresi i gioielli di famiglia: “Nel caso di aziende già quotate in borsa come Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, non sarebbe possibile ridurre ulteriormente la quota detenuta dallo Stato o cederla del tutto?” p.175).

Tesi che appaiono ormai inconsistenti, alla luce dalle stesse cifre riportate da Gutgeld nel testo. Vediamone alcune:

Spesa pubblica e welfare. “La spesa pubblica italiana, al netto degli interessi, è un punto e mezzo inferiore alla media europea” (p.33). “ Il nostro apparato pubblico ci costa appena meno del 23% del PIL, a differenza di quello degli altri paesi europei , che ammonta mediamente a più del 26% del PIL” (p.103).  “Negli ultimi venti anni (1991-2011) la spesa corrente italiana al netto di pensioni e interessi (sanità, istruzione, assistenza sociale, difesa, servizi locali) è rimasta costante; nell’Unione Europea è salita del 3,6%” (p.63).  Non c’è un problema di eccesso di spesa pubblica in Italia,  ma di efficienza e di equità nel suo utilizzo. Gutgeld ha ragione, a questo proposito, quando dice che “Gli Stati sociali più funzionanti spendono più in servizi che in trasferimenti monetari”. Le statistiche dell’Ocse (vedi il rapporto Divided We Stand, 2011, p. 311) lo confermano: l’Italia spende il 17% di quanto produce in trasferimenti monetari  e solo il 12% in servizi in kind (scuola, istruzione, trasporti, edilizia sociale, servizi agli anziani e alle famiglie). Ed è anche uno dei paesi sviluppati in cui la redistribuzione dello Stato attraverso tasse e trasferimenti incide meno sulla riduzione delle disuguaglianze di reddito (p.83). Mentre le più perequate socialdemocrazie scandinave destinano in media circa un quinto del Prodotto ai servizi e solo il 10% ad interventi di natura monetaria. Ma la spesa sociale pro capite della Danimarca è 13.072 euro. Quella italiana, comprensiva della spesa pensionistica, è 6.854 euro (dati Eurostat, 2011), inferiore anche alla media dell’Euro area a 17 paesi, pari a 7.644 euro. Infine, è vero che spendiamo molto in pensioni[1], ma siamo anche l’unico paese che le tassa e le recenti riforme hanno assicurato la sostenibilità del sistema nel lungo termine (v. Ocse, Pensions at a Glance, 2013). Abbiamo piuttosto un problema di come garantire un reddito decente alle future coorti di pensionati (Ocse, 2013, p.2).

Riassumendo: Gutgeld vuole migliorare il welfare tagliando la spesa pubblica complessiva. Che è un pò come volere la botte piena e la moglie ubriaca. Ricordiamo l’esperienza tedesca: quando i socialdemocratici, nel 2003, ritoccarono lo Stato Sociale, chiesero e ottennero dalla Commissione Europea uno sforamento dai parametri di Maastricht sul deficit di bilancio pubblico.  Perché interventi così importanti hanno effetti recessivi che debbono necessariamente essere riequilibrati. Quello che oggi andrebbe fatto, più semplicemente, è: 1) operare una redistribuzione di risorse tra pensionati (il 5% più ricco “pesa” come il 44% più povero) e 2) aumentare le altre voci di spesa sociale, in specie i servizi in kind, per contrastare l’emergenza povertà, che riguarda 1 italiano su 3 (Istat) e quella occupazionale. Come finanziarle? Attraverso gli ingenti risparmi che verrebbero dalla centralizzazione degli acquisti di beni e servizi da parte della Pubblica Amministrazione (circa 50 miliardi l’anno).

Cuneo fiscale e mercato del lavoro. “L’ultimo governo Prodi e il governo Monti” hanno ridotto le tasse sulle imprese di circa 10 miliardi, senza che questo migliorasse in modo significativo la competitività delle nostre aziende” (p.29) perché  la perdita di competitività del nostro costo del lavoro è “principalmente legato al costo dei servizi: assicurazione, auto, energia, trasporti, servizi finanziari, professionali. Per esempio, l’RC auto pesa sul bilancio degli italiani 22 miliardi di euro. Spesa che è superiore a quella pagata in altri paesi europei, in alcuni casi addirittura del doppio”.(p.30).  Lo stallo della produttività italiana non va perciò imputata all’elevato cuneo fiscale, ma ad altri fattori.E’ lì che bisognerebbe intervenire. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, “ non è così rigido come ci vorrebbero far credere. Abbiamo un altissimo ventaglio di contratti di lavoro altamente flessibili” (p.142), e anche i salari dei lavoratori a tempo indeterminato, se si da un’occhiata ai dati Istat, sono fermi da vent’anni e hanno perso potere d’acquisto (v. Passerini, 2013). Infine “quello sull’articolo 18 è uno scontro interessante ma poco rilevante” (p.145), anche se l’Autore arriva a proporre una forma di contratto unico a tutele progressive, in cui la libertà di licenziamento iniziale è compensata da un’indennità di disoccupazione a carico di aziende e fiscalità generale. Si vorrebbe insomma applicare la flexicurity danese durante un periodo di grave recessione economica – in cui vengono distrutti più posti di lavoro di quanti se ne creano – e per giunta senza aumentare la spesa sociale. Anzi, abbassando tasse e contributi sociali a carico delle imprese. Anche qui, si cade in contraddizione.

Meritocrazia. Il sistema meritocratico al quale dovremmo convergere è quello statunitense. I liberisti ce lo ripetono in continuazione. Gutgeld fa propria questa retorica, rifacendosi al fortunato saggio di Roger Abravanel (Meritocrazia, Garzanti, 2008). C’è necessità di sburocratizzare e rendere efficiente la macchina pubblica, chi lo nega. Bisogna aiutare i più capaci e meritevoli ad emergere in ogni settore, certo. Ma gli Stati Uniti costituiscono l’esempio migliore al quale rifarsi? Gutgeld, leggendo i dati Ocse, è costretto ad ammettere che gli Stati Uniti, nonostante la retorica della meritocrazia, non sono affatto la terra dell’ “eguaglianza delle opportunità”. Per un bambino, nascere in una famiglia ricca o in una povera incide sulle sue opportunità professionali future più negli States  (o nel Regno Unito) che in tutti gli altri paesi sviluppati. La mobilità sociale nei paesi anglosassoni è bassissima. Il figlio dell’operaio fa l’operaio; il figlio del banchiere fa il banchiere. I dati Ocse mettono in luce anche un altro aspetto rilevante: i paesi meno diseguali nei redditi e nelle ricchezze – quelli scandinavi – sono anche quelli a più alta mobilità sociale. E quelli anche più dinamici dal punto di vista economico.

La disuguaglianza, contrariamente a quanto sostengono i liberisti di sinistra, non agevola la crescita economica, ma la soffoca. E’ questo lo shock culturale di cui l’Italia avrebbe bisogno. Ma la nouvelle vague economica di Gutgeld (e Renzi) non fa altro che riproporre formule sorpassate, vecchi rapporti di causa-effetto che hanno rivelato tutta la loro inconsistenza.

Il menù delle idee è sempre lo stesso, lo conosciamo a memoria. Solo il mercato produce benessere collettivo; dobbiamo metterlo in condizione di funzionare bene; togliendo regole, abbassando l’imposizione fiscale, liberalizzando, privatizzando. Il welfare deve sopravvivere in forma residuale, esclusivamente per i più poveri. L’occupazione si crea dal lato dell’offerta (incentivi fiscali, semplificazione regole, minori tutele per i lavoratori) non dal lato della domanda (investimenti, anche pubblici). Deficit e debito pubblico sono sempre cattivi e da combattere. La riforma del sistema bancario e  finanziario non  è fondamentale; lo è l’abbattimento (a parole) dei costi della politica. Non esistono priorità nella produzione e nel consumo:  un posto di lavoro creato in un fast food, in termini  di benessere sociale e di buona occupazione, vale come un posto creato in una scuola o in un centro di ricerca. Interrogarsi sulla desiderabilità ecologica e sociale di un modello di sviluppo trainato dalla corsa ai beni esclusivi e posizionali (Hirsch,1981) piuttosto che da beni pubblici, culturali e relazionali, è considerato un esercizio inutile. La politica industriale è un retaggio dirigistico del passato. La disuguaglianza non è spiegata dalla distribuzione del reddito tra salari, profitti e rendite, ma dall’età anagrafica (giovani contro vecchi) [2]. Gli irrazionali vincoli fiscali accettati in sede europea  sono immodificabili e li dobbiamo rispettare, anche quando comportano salassi da 50 miliardi l’anno nel prossimo ventennio.

Questo è il catechismo neoliberale, il pensiero unico senza smagliature di questi anni. Non c’è alternativa alle sue pseudo teorie, imposte dai suoi adepti come leggi di natura.

Con vent’anni di ritardo, insomma, constatiamo che il treno della sinistra italiana è finalmente approdato alla destinazione finale, il socialismo della “Terza Via“ di Blair, Clinton e Schröder. Quello che ha deregolamentato la finanza, precarizzato il mercato del lavoro, gettato le basi della crisi globale.  L’ennesimo grande abbaglio. Possiamo solo augurarci che Renzi si dimostri, nei fatti, migliore di quelli a cui dice di ispirarsi.


[1] Secondo l’Istat, 861mila persone con pensioni superiori a 3000 euro al mese costano al sistema previdenziale come quasi la metà dei pensionati più poveri (7 milioni) . Nello specifico, il bilancio sociale 2012 dell’INPS ha riportato i seguenti dati: su 17 milioni di pensionati, 11,6 percepiscono assegni pari o inferiori a 700 euro mensili; 3,8 milioni hanno una pensione di 1500 euro netti; 186mila individui percepiscono somme superiori a 17 volte il minimo (cfr. Marano, 2013).
[2]Negli ultimi trent’anni anni, la quota di  reddito nazionale che va a salari e stipendi è scesa di circa venti punti, a vantaggio di profitti e rendite (cfr. Alvi, 2004). Il nostro sistema fiscale ha incentivato questo processo. Si pensi che la prima aliquota Irpef, una tassa che grava pressoché interamente su lavoratori dipendenti e pensionati,  è pari al 23% (per redditi compresi tra 8.000-15.000 euro annui), mentre le rendite finanziarie, che riguardano evidentemente i più abbienti, sono tassate, a prescindere dal loro ammontare, al 22% (i titoli di stato al 12,50%), e i guadagni da capitale al 20%. Si tratta di una distorsione profonda e iniqua a cui bisognerebbe porre rimedio.
 

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