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La crisi di Renzi e il ruolo dell'anti-ideologia

di Giuliano Cappellini

mat1Per giudicare se la parabola Renzi sia o meno in una fase discendente, o se, come scrive il Fatto Quotidiano, Renzi abbia “già il fiatone”, come suggerisce il risultato delle recenti elezioni locali, è, spesso opportuno inquadrare l’analisi della cronaca politica nazionale in uno scenario più vasto. Indubbiamente il PD ed il suo leader oggi non godono di buona salute, ma non ne godevano neppure prima, se non si vuol passare per salute l’appoggio incondizionato delle classi dominanti ad un programma volto a sancire la legalità di ciò che la crescente instabilità economica e sociale ha già determinato nel paese: disoccupazione, riduzione dei diritti dei lavoratori, pressione antisindacale e arbitrio del padronato.

Naturalmente Renzi eredita molte ragioni di una crisi alle quali il moderatismo imperante in Italia non riesce o non vuol dare risposte. Alcune di queste sono intrinseche alla natura stessa della forma sociale dominante, il capitalismo, che sopravive in un perenne disequilibrio, agita le vicende politiche e suscita turbolenze durante le crisi economiche; altre, della stessa origine, sono nella sfera delle relazioni internazionali. Ma Renzi eredita anche il costume che si è affermato negli ultimi decenni di non affrontare né le une né le altre, sicché il suo governo è già in crisi di risultati concreti.

E poiché fin dalla nascita, voluta da Napolitano, ha invece imposto provvedimenti che scardinano l’impianto di democrazia progressista su cui poggia la Costituzione, questo governo ha suscitato l’allarme nel paese; la sufficienza, poi, con cui si sono affrontati i problemi economici e la diretta aggressione ai diritti sociali si sono volti in una confusa opposizione che si esprime nell’astensionismo elettorale crescente, nel rilancio della destra xenofoba e nella crisi del PD. Lungi dall’ottenere consensi popolari, Renzi è ormai il “tappabuchi” delle crescenti contraddizioni che investono la politica, il suo partito ed il paese.

Interprete del contro-riformismo neoliberista fino al disegno di uno strisciante autoritarismo, Renzi – il Toni Blair nazionale –, ha posto la politica a rimorchio dell’economia dichiarando la fine delle ideologie che perorano l’attualità di un progetto per smuovere il paese dalla palude in cui è stato cacciato. Con ciò ha inteso puntellare un capitalismo che ha perso ogni forza propulsiva. Infatti, sull’abbrivio delle privatizzazioni, il capitalismo nostrano si è messo nelle mani della finanza internazionale, ha liquidato la grande industria e ha ceduto il controllo delle maggiori aziende nazionali alle multinazionali o a paesi stranieri. Ora subisce passivamente una devastante crisi economica e sociale, e si confronta sull’arena internazionale con poche chance cercando la cordata vincente nel gioco di interessi che travalicano quelli del paese.

Di riflesso, il paese subisce i condizionamenti della finanza internazionale – che sfrutta cinicamente le crisi economiche degli stati –, degli interessi strategici degli Stati Uniti – che in Italia hanno un esercito di decine di migliaia di uomini e un numero enorme di basi militari – e di quelli della Germania – che, tramite le istituzioni europee, interviene negli equilibri politici del continente per difendere il predominio dell’industria tedesca con un progetto espansivo che intende sviluppare in crescente autonomia.

Quella dell’omogeneizzazione politica e sociale finalizzata all’unità politica europea alla quale gli stati più deboli dovrebbero sacrificare la loro sovranità, è solo l’apparenza del gioco che conducono gli “establishment” finanziari, industriali e militari europei e americani. L’unità dell’Europa presupporrebbe, infatti, la sostanziale stabilità dei governi dell’Unione, ma questo status appartiene solamente a quelli più forti, la Germania ed i suoi più stretti alleati del nord dell’Europa, mentre l’instabilità dei governi si riflette soprattutto nei paesi più deboli dei quali i primi non possono fidarsi fino in fondo. Il governo Renzi, come quelli che lo hanno preceduto, si barcamena, allora, cercando spazi nei diversi tavoli internazionali ove si gioca la partita nell’instabile equilibrio indotto dalla pretesa di una rivincita globale degli Stati Uniti. Questi e la Germania si contendono il controllo dei paesi più deboli dell’UE, e costringono Russia e Cina a partecipare al gioco per evitare pericolosi sbilanciamenti concepiti a loro danno.

Ma ormai, le vicende legate al perdurare di una crisi che marca negativamente lo sviluppo del continente, la mutazione degli equilibri internazionali, con l’ingresso di nuovi attori come i BRICS, il perpetuarsi delle aggressioni militari ai paesi più deboli ed esposti, ridisegnano nuovi scenari. Le premesse di un ciclo, durante il quale gli Stati Uniti non sono riusciti ad imporre una leadership politica mondiale, si espongono ora in modo brutale. Alla fine, cioè, emerge il ruolo dei rapporti di forza militari e gli Stati Uniti, che qui giocano la loro supremazia, e che sono convinti di aver inquadrato nell’asse Russia-Cina un nuovo pericolo epocale, sviluppano una politica di minacce e provocazioni sempre più pericolosa incuranti delle ripercussioni negative sui propri alleati. Il futuro, quindi, non giace nel grembo delle illusorie promesse di Renzi ma nella concreta prospettiva di una leadership reazionaria negli USA che si riallaccia all’eredità di Bush.

Con quel che bolle in pentola, perciò, legare le vicende del governo Renzi agli orientamenti di quel che rimane di un elettorato disilluso è un’operazione intellettuale semplicistica e deviante. In varia misura, quasi tutti i governi europei sono a rischio, anche quello della Cancelliera Merkel che contende agli Stati Uniti la presa sugli alleati forti della Germania in Europa (i paesi del Nord e l’Austria) ma anche su quelli più deboli (la Francia) e su quelli di cui è bene non fidarsi troppo (come l’Italia). L’interpretazione delle vicende italiane isolate dal contesto più generale è simile a quella degli aruspici romani che dalle viscere del volatile formulavano previsioni dell’esito di un’azione militare, quasi sempre concordi con i desideri del console. Allora è lecito chiederci cosa si aspettano dalla crisi del governo Renzi coloro che la prevedono estrapolando le vicende italiane dal contesto più generale? In particolare quelli di tanta parte di una sinistra “a sinistra del PD”, di quali nuove occasioni sentono gonfiarsi il grembo della politica italiana?

Per preparare il parto, intanto ci si affanna a costruire una piattaforma rigorosamente non ideologica, dichiarando anch’essi, da sinistra, la fine delle ideologie, che cioè, ormai, di fronte all’emergenza sociale e al dilagare della corruzione non sia più proponibile schierarsi ideologicamente. E, poi, destra e sinistra sono ormai la stessa cosa nell’opinione pubblica, tant’è che il problema dell’unità della sinistra non esiste più e non vale più lo sforzo per superare le sue divisioni. Ecco quel che questa “sinistra” ricava dalla lezione della Grecia e della Spagna: non lo sviluppo di un movimento che coinvolga le grandi masse – tanto più incisivo se poggia su una chiara individuazione delle cause del disastro che queste subiscono –, ma la dichiarazione di un’operazione verticistica in cui a priori si stabiliscono barriere all’interno della sinistra.

Facile vedere che la retorica anti-ideologica è la più consona agli interessi delle classi dominanti che da sempre tentano di distruggere la capacità del popolo di distinguere gli atti dei governanti di giornata semplicemente verificando “a chi questi atti giovano”. E se destra e sinistra sono categorie superate, allora siamo tutti sulla stessa barca, dunque, non bisogna disturbare il timoniere! Per questo è la retorica cara a Renzi. Ma dietro quel che tanta sinistra accetta c’è anche un altro motivo, non dichiarato ma decisivo. Se guardi solo dentro la barca e stigmatizzi i tanti vogatori che non collaborano come dovrebbero, non ti accorgi dove si dirige la barca. Non ti accorgi che ciò favorisce il disegno del timoniere che preferisce lasciarsi trainare dalla corrente piuttosto che dirigersi secondo gli interessi dei vogatori più alacri. Fuor di metafora, non ti accorgi della deriva pericolosa che porta un paese ad aderire all’isteria bellicista che si cerca di alimentare anche nel nostro paese per assecondare il disegno di conquista del mondo del Grande Alleato contro le aspirazioni di pace e gli interessi delle grandi masse lavoratrici italiane e del mondo.

Il rifiuto dell’ideologia è la ricerca di scorciatoie impossibili. La ricerca di un consenso elettorale senza la volontà di sviluppare una coscienza critica nel popolo è destinata al fallimento. La destra offre di più! Quali cambiamenti, questa sinistra a-ideologica ritiene possibili senza impegnarsi per evitare lo scoglio della crisi internazionale verso la quale puntano i gruppi dominanti pur di sfruttare la crisi economica per dilatare la forbice sociale?

Che questo sia il problema principale se ne è accorto perfino il Papa, non una certa sinistra che pretende di usare la crisi del PD senza affrontarlo nei suoi punti più vulnerabili. Il rifiuto dell’ideologia esclude la critica sociale di un fenomeno sociale, ad esempio, non coglie lo stretto legame tra gli obiettivi di sviluppo economico e l’emancipazione delle classi lavoratrici. Come ristabilire la priorità degli indirizzi democratici dello Stato senza un suo protagonismo in economia? Come si affronta il necessario cambiamento delle classi dirigenti? Come non accorgersi che la dilagante corruzione ha, ormai, caratteristiche strutturali, di supplenza al clientelismo di Stato? Il quale è ormai prono agli interessi ed alle lusinghe dei grandi monopoli e della finanza internazionale secondo la quale “pecunia non olet”, il denaro non ha odore. Infine, poiché ogni capitalismo ha in seno una crisi, qual è l’alternativa per superarlo?

Il tragicomico di questa “sinistra” – che evidentemente non vuol più essere connotata come tale (ma in Italia non c’è già il movimento “5 stelle”?) – è la sua impotenza, la sua nota incapacità di suscitare il minimo interesse nelle masse popolari e di intercettarne il disagio. Un altro piccolo sasso sulla strada delle formazione di un progetto minimo unitario nell’obiettivo del recupero culturale dei valori democratici, della crescita ideologica e della capacità di lotta delle grandi masse lavoratrici del nostro paese.■

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La ideologia del partito
25. Unità ideologica completa è necessaria al Partito comunista per poter adempiere in ogni momento la sua funzione di guida della classe operaia. L'unità ideologica è elemento della forza del partito e della sua capacità politica, essa è indispensabile per farlo diventare un partito bolscevico. Base della unità ideologica è la dottrina del marxismo e del leninismo, inteso quest'ultimo come la dottrina marxista adeguata ai problemi del periodo dell'imperialismo e dell'inizio della rivoluzione proletaria (Tesi sulla bolscevizzazione dell'Esecutivo allargato dell'aprile 1925, nn. IV e VI).
Il Partito comunista d'Italia ha formato la sua ideologia nella lotta contro la socialdemocrazia (riformisti) e contro il centrismo politico rappresentato dal Partito massimalista. Esso non trova però nella storia del movimento operaio italiano una vigorosa e continua corrente di pensiero marxista cui richiamarsi. Manca inoltre nelle sue file una profonda e diffusa conoscenza delle teorie del marxismo e del leninismo. Sono quindi possibili le deviazioni. L'innalzamento del livello ideologico del partito deve essere ottenuto con una sistematica attività interna la quale si proponga di portare tutti i membri ad avere una completa consapevolezza dei fini immediati del movimento rivoluzionario, una certa capacità di analisi marxista delle situazioni e una correlativa capacità di orientamento politico (scuola di partito). E' da respingere una concezione la quale affermi che i fattori di coscienza e di maturità rivoluzionaria, i quali costituiscono la ideologia, si possano realizzare nel partito senza che siansi realizzati in un vasto numero di singoli che lo compongono. ….
(dalle Tesi del III Congresso del Partito Comunista d'Italia - Lione, gennaio 1926 di Antonio Gramsci).

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