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Sparare agli orologi ai tempi del #fertilityday

di Militant

non è un paese per vecchieIn passato, l’orologio biologico delle donne era anche la vicina/parente impicciona che chiedeva insistentemente novità alla sposina. Oggi in periodo di comunicazione politically correct occorre spiegare, informare in modo capillare e continuativo, portare a conoscenza delle donne e degli uomini che la fertilità è una curva gaussiana che comincia a scendere molto prima che la donna consideri la questione come una opportunità.
[Piano nazionale per la fertilità]

Eccoci qua. Rientrati dalle ferie, per chi ha avuto la fortuna di godersele, troviamo un bel regalino di inizio anno: l’istituzione, nientemeno, del Fertility Day, una giornata pensata apposta per incrementare la scarsa natalità italiana. Una campagna che si dà come dichiarazione di intenti la diffusione di informazioni sulla prevenzione e la cura di patologie legate alla sterilità ma che, nella realtà, cerca di mettere una pezza a colori sul fatto che in Italia, mentre l’età media si alza e la vita media si allunga, il numero di nuovi nati diminuisce di anno in anno: ed è così che assistiamo alla traslazione semantica, forse per influenza della lingua inglese, per cui il termine “fertilità” – condizione biologica che indica la potenzialità riproduttiva di un individuo – diventa sinonimo di “fecondità”, di promozione della natalità e addirittura di “maternità”. Quel che si rischia, secondo il ministero della Salute, è un costante, inesorabile e irreversibile invecchiamento della popolazione. Le conseguenze sono prese in considerazione dal documento ufficiale del Governo (leggi) volto a presentare e spiegare le motivazioni dell’istituzione del Piano nazionale per la fertilità, di cui il Fertility Day è solo la punta dell’iceberg:

La combinazione tra la persistente denatalità ed il progressivo aumento della longevità conducono a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva. Questo fenomeno inciderà sulla disponibilità di risorse in grado di sostenere l’attuale sistema di welfare, per effetto della crescita della popolazione anziana inattiva e della diminuzione della popolazione in età attiva.

Viene da chiedersi, di preciso, a QUALE sistema di welfare il documento faccia riferimento, visti i continui tagli alla sanità, all’istruzione, al sistema pensionistico e il massacro costante di ogni più basilare diritto sui luoghi di lavoro (per chi ha la fortuna di trovarne uno, ma vabbè). Viene da chiedersi, inoltre, COME questa “popolazione in età attiva” dovrebbe finanziare il welfare, visto che il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40% e quello generale supera l’11 % (leggi).

Consigliamo la lettura integrale del documento ufficiale, un vero capolavoro di cerchiobottismo all’italiana: mentre da un lato si elencano, di sfuggita, le evidenti difficoltà che i giovani devono affrontare per trovare lavoro, emanciparsi e rendersi indipendenti, dall’altro si sottolinea che

i giovani tendono, ormai, a procrastinare le scelte decisive. Mutano i ruoli, le fasi, i tempi di ogni età, con conseguenze sociali, biologiche e di sostenibilità ancora globalmente da esplorare. Da un punto di vista psicologico sembra diffuso un ripiegamento narcisistico sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo. Tale disposizione, spesso associata ad una persistenza di un’attitudine adolescenziale, facilitata dalla crisi economica e dalla perdita di valori e di identificazioni forti, si riflette sulla vita di coppia e porta a rinviare il momento della assunzione del ruolo genitoriale, con i compiti a questo legati. Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di un autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità.

Insomma, secondo il governo i giovani nel Paese si farebbero scudo della crisi economica galoppante per persistere in un indulgente atteggiamento di pigrizia e non farsi carico della loro principale funzione, l’unica che, a quanto pare, darebbe un senso alle loro altrimenti incomplete esistenze: sfornare braccia da lavoro italianissime per una nazione altrimenti popolata da vecchi (che, per inciso, continueranno a lavorare fino allo stremo, visto il costante innalzamento dell’età pensionabile). Narcisisti, egoisti, tutti presi a farsi un’istruzione e cercare di diventare economicamente indipendenti da genitori che hanno sacrificato praticamente tutta la loro esistenza per permettere loro di studiare, quando non emigrano, pare non abbiano proprio intenzione di figliare prima di essersi realizzati personalmente. Ma a essere chiamati choosy e capricciosi ci siamo abituati, è una tendenza contro cui combattiamo da tempo. Quello ci aspettavamo meno era che con soldi pubblici venisse promossa una delle più mortificanti e retrograde campagne denigratorie verso le donne degli ultimi anni.

Leviamoci subito il dente rispetto a quella che è stata, probabilmente, una delle peggiori scelte in campo comunicativo dell’ultimo periodo. Una aberrante foto promozionale della campagna (ideata dall’agenzia di Milano Mediaticamente, che ha prontamente fatto sparire dal sito ogni riferimento a questo lavoro dopo aver constatato la colossale figura di merda  fatta), con una giovane donna che si carezza la pancia e brandisce minacciosa una clessidra, con la scritta: «La bellezza non ha età, la fertilità sì». Ci sentiamo, a questo punto, di richiamare un bell’articolo di Anna Momigliano uscito qualche mese e intitolato L’amore ai tempi dell’orologio biologico in cui, a partire da un’analisi di blog e siti di informazione, si legge:

Il messaggio diffuso sembra essere non soltanto che la vita riproduttiva di una donna ha una data di scadenza (fatto questo incontrovertibile); ma anche che il punto di non ritorno sia molto più prossimo di quanto le convenzioni sociali lascerebbero intendere; e che di conseguenza una donna, se desidera essere prima o poi madre, debba fare le sue scelte romantiche e lavorative a partire da questo termine: resta con lui, non aspettare un contratto, o rischi di morire senza figli. […] Oggi […], quando i media internazionali parlano di «orologio biologico» lo fanno rappresentando «i corpi femminili come fossero degli ordigni col timer» e per «avvertire le donne che rimandare la gravidanza potrebbe essere qualcosa che un giorno rimpiangeranno».

Insomma, la campagna sul Fertility Day è basata esattamente su quello che il documento del Piano per la Fertilità asseriva di voler evitare, ovvero:

Il messaggio da divulgare non deve generare ansia per l’orologio biologico che corre: il tempo costituisce già per la donna moderna un fattore critico quanto piuttosto deve incentrarsi sul valore della maternità e del concepimento e sul vantaggio di comprendere ora, subito, che non è indispensabile rimandare la decisione di avere un figlio.

Di che vantaggio stiamo parlando? È presto detto:

L’organizzazione ingegnosa che serve a far quadrare il ritmo delle giornate di una mamma, la flessibilità necessaria a gestire gli imprevisti, la responsabilità e le scelte implicite nel lavoro di cura, le energie che quotidianamente mette in campo una madre sono competenze e potenziali ancora da esplorare e capire come incentivare e utilizzare al rientro al lavoro.

Quel che ci si augura, insomma, è che essere madre sia percepito come un punto di forza per una lavoratrice, qualcosa da scrivere orgogliosamente sul proprio curriculum, qualcosa che acuisce e accresce competenze e capacità e di cui i datori di lavoro siano impressionati.

Fughiamo subito ogni dubbio: nutriamo un grande rispetto per chi – compresi alcuni di noi – decide di far nascere ed educare dei figli nella situazione economica attuale, in maniera coraggiosa e sacrificata e praticamente senza nessun sostegno da parte dello Stato. Le parole sopracitate – che tra l’altro riducono praticamente il fare i figli a una questione solo femminile – ci sembrano però uno schiaffo in pieno volto a tutte quelle donne che ai colloqui di lavoro si sentono chiedere se sono sposate, se hanno figli o se intendono averne, a quelle costrette a firmare dimissioni in bianco, a quelle che sanno che, se decidono di fare (o tenere) un bambino perderanno non solo il proprio sostentamento economico, ma anche una grossa fetta della propria indipendenza e della propria realizzazione personale. Perché è così: in un’Italia dove l’accesso agli asili pubblici è una guerra feroce tra poveri e quelli privati costano quanto un intero stipendio, mettere al mondo dei figli, a qualunque età, è già un atto di grande coraggio. Il governo e l’UE, che in altri paesi con analoghi problemi di natalità sta cominciando a porsi il problema di come aumentare le nascite, da un lato tagliano i fondi ai diritti fondamentali e dall’altro sperperano denaro pubblico – parliamo di oltre 150mila euro – in ignobili campagne volte a colpevolizzare quelle donne che, per scelta o per necessità, hanno deciso di aspettare per progettare la nascita di un figlio. Tra le responsabilità di cui si caricano le donne c’è persino quella del sostegno del welfare: i tagli deriverebbero non da scelte politiche mirate dei governi liberisti e dell’UE, ma dall’egoismo di quelle che – tutte prese dall’istruzione e dalla carriera, insomma dal voler “fare gli uomini” – non produrrebbero figli necessario a mantenerlo. Tutto ciò è grottesco.

Il fatto poi che ci siano donne che decidono, consapevolmente, di non riprodursi, è una vittoria per un paese che voglia definirsi anche solo vagamente progredito (passateci il termine): e, non a caso, la riduzione del numero medio di figli per donna è, insieme al matrimonio tardivo, una caratteristica di tutti i paesi industrializzati. Processo tra l’altro non troppo recente, visto che in alcuni paesi, come la Francia, è iniziato già nel XVII secolo: pesino T.R. Malthus ne parlò nel suo celebre Saggio sul principio di popolazione nel 1798.

Insomma, l’essersi liberate (almeno in parte) dal circolo vizioso in base al quale si poteva uscire di casa solo da sposate, seguendo un senso unico che ha come diretta conseguenza la riproduzione, è una delle più grandi conquiste delle donne nell’ultimo secolo. Studiare, informarsi, crescere e diventare indipendenti economicamente e socialmente. Sviluppare un pensiero critico personale slegato da quello del proprio partner. Percepirsi come persona e non come figlia, poi moglie, poi madre, domestica, incubatrice, infermiera di un uomo: combattere per la propria dignità quotidianamente in una società ancora troppo sessista, sia negli aspetti pratici sia in quelli ideologici (ne parlavamo qui, non a caso, qualche mese fa).

Evidentemente la ministra Lorenzin e il suo staff – nel quale spicca la cattolicissima Assuntina Morresi, nota come «barricadera del diritto alla vita e della famiglia, arcinemica dell’eterologa, della pillola abortiva, dell’eutanasia» e membro del Tavolo consultivo sulla fertilità del governo – non la pensano così:

In sostanza, una maggiore vulnerabilità sul piano della sicurezza economica, la crisi di valori che facciano da modelli, funzionamenti narcisistici, la tendenza a privilegiare la propria realizzazione, personale e professionale, incapacità e paure ad assumersi le responsabilità genitoriali costituiscono un insieme di fattori che si rinforzano reciprocamente ed ostacolano il progetto procreativo. Tali considerazioni sembrano in accordo con i rilievi statistici che evidenziano come siano soprattutto le donne italiane, rispetto a quelle immigrate a procrastinare la nascita del primo figlio. Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili. Dopo avere valorizzato le caratteristiche di indipendenza e realizzazione di sé delle bambine e giovani donne, dopo aver fatto in modo che si tendesse ad una parità di genere, che ha portato alla conquista di un titolo di studio, spesso di secondo livello e un lavoro agognato, magari di responsabilità, la maternità appare improvvisamente alle donne come un preoccupante salto nel buio, un ostacolo ai progetti di affermazione personale. Nel paese degli stereotipi di genere, quello “mammone”, dei “bamboccioni” e della pubblicità con il “mulino”, una donna su cinque non fa più figli.

Solo su questo paragrafo si potrebbero sprecare fiumi di inchiostro. Competenze femminili? Ruoli maschili? Ma di che stiamo parlando? Il governo italiano sta davvero (e ribadiamo, coi soldi pubblici per giunta) promuovendo una campagna che dice a chiare lettere che esistono delle differenze di genere e che alcune e non meglio identificate tipologie di lavoro (o un’istruzione superiore) renderebbero le donne “mascoline”? Che le donne possiedono delle “competenze” innate, date dal solo fatto di essere biologicamente strutturate in un certo modo? Davvero siamo ancora fermi a una concezione secondo cui i ruoli e le competenze sono “innati” e non TUTTI – a partire dal cosiddetto “istinto materno” (leggi 1, 2 e 3) – fenomeni culturalmente e socialmente connotati? Al governo mancano le letture fondamentali, prima tra tutte la Simone de Beauvoir del Secondo sesso, che ci ha insegnato che «donne non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna».

Tutta questa campagna puzza di fascismo, di reazione e di cattivo gusto. E parliamo di fascismo non in senso lato, per cui ogni cosa che non ci piace sarebbe “fascista”. No, ci riferiamo proprio ad alcune delle fasi del regime mussoliniano, alle sue politiche sulla maternità e l’infanzia, alla sua tassa sul celibato, alla sua una campagna contro la cosiddetta “donna crisi” – urbana, indipendente, amante del lavoro e “mascolinizzata” – che veniva contrapposta ai modelli positivi della “donna autentica” e della “massaia rurale” – donna-madre, patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla e prolifica. Ci riferiamo alla sua campagna contro la contraccezione e l’aborto, giudicati crimini «contro l’integrità della stirpe». Ci riferiamo ai suoi manuali di igiene, in cui si affermava che «lo scopo della vita di ogni donna è il figlio», e ai suoi premi elargiti alle donne più prolifiche. Ci riferiamo alla sua reclusione in manicomio delle donne con una personalità non adeguata agli stereotipi culturali del regime o che non assolsero completamente ai nuovi compiti imposti dalla “Rivoluzione Fascista” (segnaliamo una mostra proprio su questo tema che inizierà la prossima settima alla Casa della memoria e della storia a Roma). Ci riferiamo alla subordinazione di ogni aspetto della vita femminile agli interessi dello Stato fascista e all’esclusione capillare delle donne dalla sfera pubblica, dal mercato del lavoro (pubblico e privato) e dagli avanzamenti di carriera, parallela agli aumenti di stipendio e i premi di natalità riservati agli uomini sposati e con figli. La discriminazione sessuale fascista raggiunse poi il suo culmine nel 1938, con la riduzione per legge al 5% del personale femminile impiegato nella Pubblica Amministrazione: è questo a cui vogliamo tornare per contrastare la denatalità?

È imbarazzante notare quanto del pamphlet governativo riecheggi la retorica demografica del famoso Discorso dell’Ascensione di Mussolini, per il quale le donne dovevano «obbedire, badare alla casa, mettere al mondo figli e portare le corna», del 1927:

Bisogna quindi vigilare il destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia. A questo tende l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia […]. Esistono nel paese 5.700 istituzioni che si occupano della maternità e dell’infanzia, ma non hanno denaro sufficente. Di qui la tassa sui celibi, alla quale forse in un lontano domani potrebbe fare seguito la tassa sui matrimoni infecondi. Questa tassa dà dai 40 ai 50 milioni; ma voi credete realmente che io abbia voluto questa tassa soltanto a questo scopo? Ho approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla Nazione. Questo vi può sorprendere; qualcuno di voi può dire: «Ma come, ce n’era bisogno?» Ce n’è bisogno. Qualche inintelligente dice: «Siamo in troppi». Gli intelligenti rispondono: «Siamo in pochi». Affermo che, dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica. Parliamoci chiaro: che cosa sono 40 milioni d’Italiani di fronte a 90 milioni di Tedeschi e a 200 milioni di Slavi? Volgiamoci a Occidente: che cosa sono 40 milioni di Italiani di fronte a 40 milioni di Francesi, più i 90 milioni di abitanti delle Colonie, o di fronte ai 46 milioni di Inglesi, più i 450 milioni che stanno nelle Colonie? Signori, l’Italia, per contare qualche cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti.

Insomma, la campagna sul Fertility Day è lo specchio di un paese che non si è mai realmente liberato del retaggio del ventennio e del suo intreccio col cattolicesimo: lo stesso paese che poi, magari, si mette a fare la morale ai musulmani per la loro – in alcuni casi vera e deprecabile, in altri solo presunta – discriminazione delle donne. Questa campagna è la dimostrazione che l’Italia non è un paese per donne, anche se le donne ci vogliono stare lo stesso, al pari degli uomini, a tutti i livelli. Anche e soprattutto con la scelta, del tutto personale, di fare o non fare dei figli. A qualunque età. Non si può lasciar passare il messaggio che la donna esprima la sua completezza espletando la funzione riproduttiva. Non possiamo restare in silenzio di fronte all’umiliazione pubblica di tutte quelle donne (e quegli uomini) che si sentono completi e appagati anche scegliendo di non fare figli. Non possiamo farci dire che le lancette scorrono, gli ovetti si stanno esaurendo e non dobbiamo essere schizzinose, né sul piano pratico (assicurare ai nascituri una situazione economica e familiare quanto più stabile possibile) né su quello emotivo (trovare un partner adeguato o sentirsi abbastanza tranquille da poter portare avanti una gravidanza da sole). E non possiamo ridurre i genitori a macchine sfornapargoli, senza una propria genuina identità, relegandoli ai ruoli di madri e padri, come se prima di riprodursi non avessero qualifiche, aspirazioni, competenze, gioie, affetti e capacità. Non è accettabili che ancora si leggano – perfettamente in linea con le politiche del governo – articoli sulla (presunta) gravidanza di Samantha Cristoforetti, la prima astronauta italiana (e già il fatto che la prima astronauta donna nello spazio, la sovietica Valentina Tereskova,  fece il suo viaggio nel 1963 è indicativo della “cultura” italiana), in cui si parla della della gravidanza come della «nuova sfida dell’astronauta italiana» o delle sue «le linee arrotondate dalla gravidanza, che ha cercato di coprire con una lunga sciarpa» (e non vi fate due domande? Magari pensa che siano fatti suoi, non dell’Italia intera) o del «video del fidanzato» (??): non è come madre che avrà la sua piena realizzazione Cristoforetti.

Ribadiamo ancora una volta, anche in risposta a chi ha agitato in buona fede le carenze del welfare state italiano nella tutela delle famiglie (aspetto verissimo, ma ricordiamo che la riduzione del tasso di fecondità è una caratteristica della ricchezza e del progresso e non della povertà: sia sufficiente osservare le statistiche e notare come siano i paesi – e, in Italia, le regioni – più povere a fare più figli), che i cittadini che decidono di non “mettere su famiglia” magari non lo fanno soltanto perché non ne hanno la possibilità: alcuni, molti (e molte), semplicemente, non vogliono. È una scelta personale del tutto legittima in cui non è il governo a dover ficcare il naso ed esprimersi. Sia chiaro: qui non stiamo affermando il diritto di ognuno di fare o non fare figli basandoci su una concezione individualista e liberale (che, pure, dovrebbe essere cara al governo Renzi e al ministro Lorenzin, che ha iniziato la sua carriera politica in Forza Italia). Siamo, anzi, fin troppo consapevoli che il controllo sulla capacità femminile di riproduzione – e, quindi, di riproduzione della forza lavoro – sia una questione politica e pubblica, da non ridurre alla sfera privata. Inoltre, una società in cui le persone fanno molti figli – magari senza un lavoro stabile e delle entrate costanti – è una società disciplinata: chi ha una famiglia, infatti, è tendenzialmente (con le dovute e ovvie eccezioni) una persona meno incline a ribellarsi, più impaurita dalla prospettiva di perdere il lavoro, più disposta a sacrificarsi e ad accettare salari miseri e orari e condizioni di lavoro (e di sfruttamento) improponibili. Qualsiasi lavoro è “meglio di niente” se devi sfamare un figlio.

Per questi motivi, decidere autonomamente se e quando fare figli delimita un campo di libertà: sottrarsi all’imposizione governativa di fare figli significa ritagliarsi uno spazio di autonomia rispetto al modello e al controllo capitalisti. Il concetto stesso di “orologio biologico” legato alle capacità riproduttive delle donne, del resto, si è affermato solo alla fine degli anni ’70 del ‘900 (leggi) negli Stati Uniti, come reazione all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro – dovuto più alle conseguenze dell’impoverimento successivo allo shock petrolifero che all’influenza dei movimenti femministi – e dell’istruzione universitaria. Questo topos dell’orologio biologico, tra l’altro, si basa su dati scientifici del tutto superati: l’affermazione che la fertilità femminile cali di botto dopo i 30 anni, infatti, si fonda su alcuni dati scientifici raccolti in Francia… tra il 1670 e il 1830!! Dati più recenti, basati su donne con salute e aspettativa di vita ben diverse da quelle delle donne vissute tra i 350 e i 200 anni fa, affermano invece che questo calo della fertilità sopra i 30 anni sia stato sovrastimato. Per ragioni politiche, ci viene da pensare. Giustamente, come affermato nell’articolo del Guardian sopra linkato, si tratta di «una storia di scienza e sessismo», che mostra come i preconcetti di genere possano determinare le priorità della ricerca scientifica e come le scoperte scientifiche possano essere plasmate a fini sessisti: insomma, una storia forse più di sessismo, che di scienza.

Da questa prospettiva, sparare metaforicamente alle clessidre che battono il tempo del presunto orologio biologico che ci viene imposto – e decidere quindi se e quando fare dei figli – assume un valore di rottura, al pari di quello dei comunardi francesi che, si dice, durante la Comune di Parigi spararono agli orologi delle torri come gesto di liberazione dall’oppressione.

Infine, se Lorenzin – che, per inciso, ha avuto i suoi primi figli a 43 anni – è così preoccupata di assicurare un “fertile” tasso di natalità per la patria, ci permettiamo di indicarle alcune soluzioni davvero semplici e sotto gli occhi di tutti: facilitare le adozioni e la procreazione assistita per i single e per tutte le coppie – eterosessuali e omosessuali, sposate e non – e riconoscere con maggiore facilità la cittadinanza italiana a quegli immigrati che qui vivono, lavorano e soprattutto ai loro figli, che qui nascono e/o crescono. Immigrati che – tra l’altro –, anche senza cittadinanza, già pagano tasse tali da coprire le pensioni di 620mila – seicentoventimila!! – italiani. Ecco chi potrebbe coprire la necessità di risorse necessarie a sostenere il sistema di welfare a fronte di invecchiamento della popolazione italiana da sette generazioni…

Inoltre, si potrebbe adoperare il denaro pubblico –invece che per misure come lo specchietto per le allodole noto come bonus bebè (una specie di premio per le famiglie prolifiche di fascista memoria) – per incrementare e migliorare gli asili, i servizi, l’assistenza (a partire da quella agli anziani e alle persone non autosufficienti, spesso altrimenti delegata alle “donne della famiglia”), la sanità e i trasporti. Sarebbero misure veramente utili e per tutti, non solo per chi deve allevare dei bambini. Semplice…o no?

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