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Dalle periferie al Campidoglio, cresce l’opposizione sociale

di Militant

assemblea campidoglioL’assemblea popolare di ieri pomeriggio in Campidoglio ha segnato un punto di svolta, per diversi motivi. Immaginata come “semplice” assemblea, ha travolto le aspettative di tutti e si è trasformata in una mobilitazione inaspettata. Più di 500 persone hanno occupato letteralmente la scalinata antistante l’entrata al Comune, un numero imprevisto e che infatti ci ha obbligato a trasformare l’assemblea in manifestazione pubblica. Il dato numerico è il più eclatante ma forse non il più rilevante. E’ la composizione sociale dei partecipanti che ha determinato un salto di qualità, anche questo ricercato ma per niente scontato in partenza. Non è stata un’assemblea di “compagni”, men che meno di militanti. E’ stata una mobilitazione dei lavoratori delle multiformi vertenze cittadine; degli abitanti delle periferie degradate; della miriade di comitati che lottano contro le devastazioni ambientali territoriali; del sindacalismo conflittuale; dei senza casa; dei migranti in lotta. E’ stata una mobilitazione di classe e di sinistra (le due cose, ultimamente, non vanno troppo d’accordo nel mondo), come non si vedeva da tempo immemore, perché non legata ad una specifica vertenza, ma rivendicativa un diritto sociale e politico alla partecipazione, alla mobilitazione anche contro una giunta a cui pure erano state fatte aperture di credito in funzione anti-Pd e anti-liberista. L’assemblea segna l’inizio di un processo potenzialmente decisivo: quello di riavvicinare le ragioni di classe a quelle della sinistra, mai come oggi distanti e incomunicanti. La volontà di rottura con l’ordine neoliberista ed europeista, chiaramente percepibile nella società ma fino ad oggi “organizzato” e “rappresentato” da opzioni reazionarie o ambiguamente populiste, prende oggi la strada della soluzione radicalmente progressiva, includente, partecipativa. Non è (ancora) la strada verso la rappresentazione politica, ma è l’inizio di una convergenza sociale non vertenziale e minoritaria, ma organizzata e maggioritaria.

Ma la giornata segna, ci sembra, anche un punto di svolta nel rapporto tra Movimento 5 Stelle e quelle periferie che pure avevano contribuito alla sua vittoria elettorale. L’assemblea era inizialmente prevista nella Sala della protomoteca, richiesta e autorizzata per l’occasione. La sera precedente, come organizzatori, venivamo avvertiti che “la sala non era più disponibile”, che questa poteva essere utilizzata solo dai dipendenti comunali e dalle rispettive rappresentanze sindacali, che insomma il Comune non approvava più l’utilizzo “politico” di una delle sue sale. Il divieto proveniva da Raffaele Marra (si, proprio lui), ma sembrava subito evidente il significato politico di chiusura dell’amministrazione nei confronti dell’assemblea. Chiusura certificata dall’assenza totale di suoi rappresentanti all’assemblea stessa. Nonostante fossero tutti presenti dentro al palazzo comunale, nessuno si è sentito in dovere di interloquire fuori, con l’assemblea, piena peraltro di stessi elettori e attivisti del M5S. Dopo due ore, scendendo defilato le scalette del Campidoglio, il Vice presidente dell’Assemblea capitolina Enrico Stefano si limitava a dire che “l’assemblea non era materia di sua competenza”, chiudendo ogni margine di dialogo. Ci saremmo aspettati un segnale quantomeno da quella “parte sinistra” dell’amministrazione, un Berdini ad esempio, a chiacchiere “amico dei movimenti” ma rapidamente adeguatosi al disciplinamento politico imposto dalla Raggi e dal resto della giunta. Un dato inequivocabile di chiusura, di arroccamento nel palazzo, che tronca ogni rapporto con una composizione sociale che pure riponeva speranze nella possibilità di cambiamento rappresentata da questa giunta.

Anche noi, che invece non nutrivamo alcun dubbio sull’incapacità politica del M5S di essere all’altezza della situazione, non possiamo non rilevare il distacco, sempre meno recuperabile, tra la giunta Raggi e quel pezzo di società che ne ha garantito la vittoria elettorale. Un distacco peraltro inspiegabile. Il governo cittadino è al centro di una campagna politico-mediatica diffamatoria e interessata al rapido commissariamento del Comune promossa dai vari centri del liberismo d’accatto cittadino (Pd, Repubblica, Messaggero, palazzinari vari). D’altra parte, l’incompetenza e la mancanza di classe dirigente sta rapidamente svuotando il M5S romano d’ogni possibile scusante politica. L’unica soluzione praticabile, seguendo le promesse fatte in campagna elettorale dagli stessi grillini, sarebbe stata quella di applicare integralmente le linee guida del programma elettorale, a cominciare dall’aprire la battaglia decisiva sul debito e la sua rinegoziazione. Niente di tutto questo sembra all’orizzonte, la questione debito scomparsa dai radar, mentre la linea politica si va sempre più rapidamente adeguando agli standard tecnicisti in tutto simili a quelli promossi dai partiti concorrenti. Come fare a sopravvivere in una situazione del genere, rifiutando l’applicazione del programma e le sponde che su questo potrebbero prodursi, come la lotta alle privatizzazioni, la moratoria degli sfratti e degli sgomberi di stabili abitativi e sociali, la rinegoziazione del debito? Non si capisce, e infatti la soluzione non sembra alla portata di un Movimento decisamente meno capace di governare la situazione di quanto era lecito aspettarsi.

Il processo avviato ieri pomeriggio sarà efficace solo se saprà darsi una progettualità e un percorso credibile e di classe. Se rimarrà un processo largo e inclusivo ma ostile alle contaminazioni sociali e politiche che pure potrebbero affacciarvisi. Detto altrimenti, dovrà stare attento agli avvoltoi che ieri hanno fatto capolino, quella “sinistra” rosa, poltronara, traditrice, antropologicamente contraria al sentire comune dell’assemblea di ieri, che ha fiutato il carattere di massa della mobilitazione e ne studia le possibilità d’influenza. Ma questo processo dovrà stare attento anche a non diluirsi in un cittadinismo indistinto che perda per strada i caratteri fortemente sociali e antagonisti su cui si regge. Non è stata un’assemblea di soli lavoratori dipendenti, ma al tempo stesso non è stata un’assemblea interclassista. Erano presenti tutti quei settori sociali che condividono una condizione di subalternità materiale agli interessi capitalistici. Senza casa, migranti, lavoratori subordinati, proletariato metropolitano italiano e straniero. Per dirla in altri termini: la Periferia, nelle sue varie articolazioni sociali.

Il percorso avviato passerà ora per la sua ramificazione territoriale. Nella settimana tra il 10 e il 17 novembre l’assemblea popolare si rivedrà nei municipi e articolerà territorialmente i punti qualificanti l’assemblea: audit e rinegoziazione del debito; lotta alla privatizzazioni dell’economia cittadina; stop agli sfratti per morosità; stop agli sgomberi degli stabili abbandonati e occupati da senza casa o militanti politici; moratoria del cemento; piano metropolitano per il lavoro e le case popolari. Successivamente, l’assemblea si riconvocherà in forma pubblica a gennaio per una nuova e più grande manifestazione in Campidoglio. L’organizzazione delle periferie prende forma, la forma del conflittoe della partecipazione.

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Di seguito, il comunicato congiunto sull’assemblea di ieri:

 

Roma vuole cambiare

Piazza del Campidoglio 4 ottobre 2016

Nel pomeriggio di ieri centinaia di cittadini e lavoratori di Roma si sono riuniti in assemblea nella piazza Campidoglio a cento giorni dall’insediamento della giunta a cinque stelle. Quest’ultima non solo ha declinato i numerosi inviti a partecipare, rifiutandosi di scendere quei pochi scalini che separavano rappresentanti da rappresentati, ma ha imposto il non utilizzo della sala già prenotata con l’assurdo divieto di ingresso a chi non poteva esibire un tesserino sindacale.

L’assemblea di ieri ha quindi riunito tanti comitati, associazioni, collettivi territoriali, lavoratori sindacalizzati e non, spazi occupati e autogestiti, reti sociali e sindacali per discutere insieme e pubblicamente del cambiamento che era stato annunciato, un cambiamento sperato da molti e da tanti (sia singoli che realtà collettive) creduto possibile con l’elezione della sindaca Raggi.

Per chi ha partecipato ieri in piazza del Campidoglio, “cambiare” non significa entrare al posto di qualcun altro nelle stanze dei bottoni ma rompere decisamente con i principi che hanno determinato fino ad oggi il governo di questa città: cambiare significa rifiutare i vincoli imposti dal patto di stabilità, praticare immediatamente un audit pubblico del debito di Roma (8,6 mld di cui non si conoscono più neanche i creditori), fermare ogni privatizzazione in corso o annunciata dei servizi essenziali di questa città, riempire la scatola vuota del NO alle olimpiadi con politiche concrete sulle periferie, con la redistribuzione delle risorse cittadine, con uno stop deciso al consumo di suolo urbano e non solo, con la fine della cementificazione dei territori.

Cambiare significa dare voce (concretamente, come successo ieri e non solo su forum e social media) a chi passa metà della propria giornata sui mezzi pubblici, a chi lavora dodici ore al giorno, a chi paga tariffe sempre più alte per servizi (luce, acqua, trasporti e rifiuti su tutti) sempre più cari, perennemente in emergenza e con la beffa concreta di ritrovarsi l’ennesimo inceneritore o l’ennesima colata di cemento dietro casa.

Cambiare deve significare valorizzare gli spazi e i percorsi di partecipazione dei cittadini, di solidarietà sociale, di mutualismo e questo passa per la fine delle minacce di sfratto per centinaia di famiglie, per la fine delle minacce di sgombero ai centri antiviolenza, agli spazi sociali autogestiti in stabili pubblici e privati altrimenti abbandonati, alle centinaia di associazioni e progetti sociali e culturali cui da mesi l’amministrazione (senza soluzione di continuità fra gestione commissariale e gestione “a 5 stelle”) chiede milioni di euro di arretrati, ma senza i quali la città di Roma perderebbe uno dei pochi patrimoni di cultura, solidarietà e socialità che le sono rimasti.

Cambiare insomma, significa fare scelte, scelte politiche che trascendono, e di molto, la tecnica, la procedura, la lunghezza dei curriculum, unici criteri con cui pare si sia mossa finora la nuova amministrazione comunale.

Dopo 100 giorni di amministrazione pentastellata speravamo di poter parlare dell’annunciata discontinuità con chi ha governato finora ma l’unica discontinuità pare purtroppo essere quella con i programmi, le linee guida e le promesse della campagna elettorale.

Ieri centinaia di persone in assemblea hanno reso evidente, alla città e a questa amministrazione, qual è il vero significato della tanto enunciata partecipazione, ribadendo che oggi in Italia “cambiare” significa rompere con il governo Renzi: rifiutare a livello locale, territorio per territorio, città per città, l’applicazione del decreto Madia e delle conseguenti privatizzazioni; mobilitarsi contro il crollo di diritti e salari (persino pubblicizzati senza pudore dal governo) del Jobs Act scioperando in massa il 21 ottobre e costruendo mobilitazioni in ogni parte d’Italia; affermare un NO netto a tutte le politiche liberiste del Partito Democratico a cominciare dalla riforma costituzionale, il cui rifiuto non deve essere prerogativa di singoli o comitati ma delle città tutte, abitanti e istituzioni. Non aspetteremo il superamento delle timidezze, delle confusioni e delle lotte intestine a questa giunta per praticare tutto questo, sarà la partecipazione democratica dei cittadini e delle cittadine a far dire alla città di Roma NO alla riforma costituzionale. Dopo l’assemblea di ieri si ritorna nei territori per costruire, entro la metà di novembre, assemblee territoriali in ogni quartiere e municipio della città, per continuare la scrittura delle proposte e delle idee di gestione della città, dei suoi servizi e del suo patrimonio attraverso momenti pubblici di approfondimento tematico, un lavoro che già da mesi sta obbligando questa amministrazione a fare i conti con progetti concreti e realmente alternativi di gestione dei beni comuni urbani. Siamo pronti nei prossimi mesi (tra dicembre e gennaio)a tornare sotto le sale del Campidoglio a praticare quella democrazia reale che, a quanto pare, diventa un concetto astratto una volta occupate stanze e poltrone che contano. Come si vede dai tanti appuntamenti che elenchiamo qui sotto, all’immobilismo della giunta non corrisponde certo quella della città di Roma.

Roma vuole cambiare, per davvero!

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