Print Friendly, PDF & Email

rete dei com

Referenzum: Costituzione e interessi di classe

di Italo Nobile

articolo1La questione del referendum del 4 Dicembre andrà affrontata sotto diversi aspetti: da un punto di vista del contenuto più strettamente giuridico, da un punto di vista più complessivamente politico e dal punto di vista del rapporto con l’analisi di classe propria dei comunisti.

Una prima operazione di carattere più generale sarà quella di liquidare una serie di luoghi comuni retorici al riguardo, ovvero che il paese aspettava una riforma da trent’anni, che la costituzione va adeguata ai tempi, che opporsi ad essa significhi essere conservatori. Ebbene a questi luoghi comuni ha risposto anche il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ma credo che basti contro di essi un solo argomento. Quantunque sia vero che ci sia bisogno di una riforma (e anche questo andrebbe argomentato), il problema è che la riforma necessaria potrebbe non essere questa. Dunque la discussione dovrebbe riguardare proprio questo punto e perciò gli argomenti di questo tipo senza una discussione del genere non hanno senso.

Una seconda operazione di carattere preliminare riguarda la tendenza propria di noi comunisti a dire che quella italiana non sia “la costituzione più bella del mondo” e che essa ha comunque permesso la legislazione antisociale degli ultimi anni per cui non vale la pena soffermarsi sulla riforma in sé ma sul contesto politico in cui essa è inserita. Qui va utilizzata la distinzione tra condizioni necessarie e sufficienti: facendo una metafora si potrebbe dire che una buona Costituzione è come la farina. Essa non basta a fare il pane (ci vuole anche l’acqua, il lievito, il calore, la manodopera) ma ciò non implica che ne possiamo fare a meno.

La Costituzione italiana è stata il frutto di un compromesso politico tra le forze antifasciste ed in questo compromesso le forze che si richiamavano al comunismo e al socialismo hanno avuto un peso. Il risultato è stato tale da permettere (in presenza di altre condizioni) l’avanzamento sociale e politico delle forze del lavoro. Poi si può dire che il Pci sia degenerato all’atto stesso della sua nascita, alla svolta di Salerno, nel 1956, nel 1968, con il compromesso storico ma dire che la sua azione sia stata vana o solo controproducente è un’esagerazione.

Perciò la questione del contenuto della riforma, l’attenzione al ruolo della legge elettorale, la questione liberale dei pesi e dei contrappesi, la limitazione della forza dell’esecutivo non sono questioni tattiche, ma questioni strategiche che educano i compagni anche a riflettere sul modo stesso dell’organizzazione, questione che invece viene rimossa non sapendo che questo porta semplicemente alla ripetizione di alcuni degli errori fatti nel passato e di cui ancora non finiamo di pagare le conseguenze.

La questione sociale integra e completa il ragionamento ma le questioni tecniche sono già sociali anche se in una forma più astratta dal momento che esse prevedono e regolano differenti esiti della lotta di classe (anche se non li prevedono tutti).

Fatte queste premesse possiamo scendere più nel merito giuridico e politologico. A questo proposito svolgeremo alcune osservazioni a livello più ingenuo (come se non presupponessimo la verità delle tesi marxiste, ma ci mettessimo nell’ottica più genericamente liberale e democratica):

1)      Alcuni definiscono il bicameralismo perfetto come il sistema dove le due Camere hanno gli stessi poteri. In questo caso anche gli Usa sarebbero caratterizzati da un bicameralismo perfetto. Altri aggiungono all’equivalenza tra poteri anche quello dell’equivalenza del metodo di selezione dei membri delle due camere, ma in questo caso nemmeno il sistema italiano sarebbe un bicameralismo perfetto (alcuni pensano che le differenze in questo senso tra Camera e Senato non siano rilevanti ma tale impressione è contestabile ed inoltre la riforma potrebbe riguardare la legge elettorale che vale per le due Camere e non il criterio più generale che riguarda la selezione dei membri).

2)      Alcuni come Lijphart, hanno distinto solo una funzione conservativa o una funzione federalista della seconda Camera, mentre andrebbe evidenziata la funzione di garanzia delle minoranze che non si può identificare con una funzione conservativa tradizionale, dal momento che la minoranza politica non sempre si identifica con la tutela degli interessi di una minoranza sociale privilegiata. In questi ultimi tempi invece la minoranza politica (nei paesi più ricchi) è spesso una minoranza ideologica che ha semplicemente un diverso modello di sintesi degli interessi delle diverse classi sociali o un diverso modello di soluzione del conflitto tra gi interessi delle diverse classi sociali. Se la tutela degli interessi della minoranza è essenziale per la sopravvivenza della democrazia e del sistema dei diritti allora il bicameralismo italiano non è né anomalo né obsoleto come pretenderebbe Lijphart. Anzi, in questo senso promuoverebbe la sintesi politica di una pluralità di prospettive e dunque il concorso effettivo di tutti (parlamentari, forze politiche, forze sociali) alla elaborazione della volontà generale.

3)      Nel caso del Bicameralismo italiano “perfetto” questo è stato considerato necessario dai Costituenti proprio per evitare il rischio di derive autoritarie (visto che si era reduci dal fascismo). La tesi per cui tale situazione è nel frattempo mutata e che queste preoccupazioni siano eccessive è quanto meno superficiale dal momento che dalla fine del fascismo ad oggi vi sono stati numerosi episodi che hanno fatto temere per la stabilità delle istituzioni democratiche (le cosiddette Stragi di Stato, i tentativi di colpo di Stato negli anni Sessanta e Settanta, i servizi segreti deviati, la loggia P2, le stragi di mafia). Perciò il computo degli anni non va fatto partendo dalla stesura della Costituzione.

4)      La riforma viene considerata necessaria per velocizzare l’attività legislativa. E’ evidente però che la produzione legislativa italiana sia abbondante e che la velocità nel legiferare sia nella media comparativamente ad altri paesi europei per cui laddove ci siano stati casi di lentezza vanno individuate le cause specifiche e correlativamente dei rimedi specifici e mirati  che non possono consistere in una riforma così complessiva e gravida di conseguenze. A questo proposito gli iter più travagliati hanno riguardato la legislazione sul lavoro, un tema spinoso che non si può derubricare ad esempio di inefficienza istituzionale. Inoltre le Camere hanno funzionato molto più velocemente su iniziative di legge da parte del Governo che non su proposte di origine parlamentare il che ci fa pensare su come in buona parte le maggioranze condizionino già pesantemente l’attività del Parlamento. Inoltre questo dato è un argomento ulteriore contro la riforma dal momento che questa rende più veloce soprattutto l’approvazione delle leggi di iniziativa governativa (che invece già sono approvate velocemente). Tuttavia all’interno della proposta di riforma ci sono singole misure che possono essere decontestualizzate, debitamente modificate ed utilizzate per migliorare l’efficienza dell’attività parlamentare (ad esempio si può intervenire sui tempi di discussione e di votazione delle singole Camere e/o sul numero delle navette oppure ancora sul ruolo delle commissioni bicamerali come avviene in Francia).

5)      Sul Senato inteso come Camera delle Autonomie grava l’ipoteca che esso (in un momento storico in cui l’affermazione di modelli federativi ha avuto in Italia una natura centrifuga) si riduca ad un eterogeneo insieme di localismi incapaci di funzionare e di fare sintesi, con la conseguenza (dato anche il limitato numero di materie in cui esso può avere effettivamente rilevanza) che esso con il passare del tempo diventi un organo sempre più atrofico, una sorta di camera di compensazione clientelare a funzionamento ridotto. Sarebbe a questo punto meglio o passare ad un monocameralismo con una legge elettorale proporzionale (a mio parere la soluzione più lineare) e un incremento del numero dei parlamentari volto ad aumentare la rappresentatività oppure ad un bicameralismo con senato eletto con legge proporzionale o nel caso peggiore ad un bicameralismo dove l’eterogeneità delle rappresentanze regionali e locali sia compensata da un numero di membri scelti (mettiamo dal Presidente della Repubblica o anche per sorteggio) all’interno di liste di scienziati, intellettuali, docenti presentate da forze politiche, sindacati, associazioni, istituzioni scolastiche, universitarie, culturali. In quest’ultimo caso sarebbe un organismo non eletto dal basso, ma ciò accade anche con la riforma costituzionale in oggetto, dal momento che i consiglieri che facessero eventualmente parte del Senato non sarebbero direttamente eletti dal popolo ma scelti da altre figure istituzionali all’interno dei consiglieri scelti dal popolo (magari senza contare ad es. il numero dei voti ottenuti al momento dell’elezione).

6)      Per quanto riguarda tutte le aporie legate alla natura del Senato previsto dalla riforma rimando alle pagine a questo dedicate nel vademecum elaborato da Gustavo Zagrebelsky dal titolo “Loro diranno, noi diciamo”. In questo testo si evidenzia come il dettato della riforma sia poco chiaro sia sulla forma di rappresentanza, sia sul metodo di elezione, sia per determinare se esso sia coerente o meno. L’impressione è che alla fine non si capisce come funzioni il tutto. La riforma nel suo essere costretta ad entrare nel dettaglio origina più problemi di quanti ne risolva e alla fine il rinvio alla legge finisce per non essere solo applicativo ma costitutivo della norma costituzionale. Anche la distinzione tra materie su cui il Senato può legiferare o meno  porta ad una differenza di procedimenti che possono apportare ulteriore confusione. Questo si collega però al problema originario di mantenere una seconda Camera la cui natura è ambigua (come evidenziato prima) e i cui poteri sono limitati e non ben chiariti visto che le leggi si collocano a cavallo tra più materie. Anche gli articoli dedicati ai rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali danno luogo a molti problemi (difficoltà di distinguere tra competenze legislative, situazione ambigua per quanto riguarda le Regioni a Statuto speciale, riduzione dell’autonomia politica regionale, abolizione delle Province ma nascita di enti di vasta area) che Zagrebelsky ha buon gioco ad evidenziare.

7)      Il voto a data certa del nuovo art. 70 se ha una apparenza di coerenza nella Camera (visto che è la Camera a riconoscere che un disegno di legge è essenziale alla realizzazione del programma di governo) non ha senso quando limita  lo stesso Senato per quanto riguarda i tempi entro cui deliberare proposte di modifica (visto che comunque il Senato già così limitato nei poteri non ha nessun interesse a condividere con il governo la necessità di velocizzare l’approvazione della legge stessa). Inoltre non viene posto limite al numero dei disegni di legge che vengano considerati essenziali alla realizzazione del programma di governo il che rende tutto più arbitrario dal momento che il programma di governo non ha una codificazione rigida come quella di una norma e non è riconoscibile in modo così univoco da poter razionalmente convenire sul voto della camera in tal senso. La maggioranza sa quale sia il programma di governo e cosa sia essenziale per la sua realizzazione.   Gli altri prendono solo atto dell’apposizione dell’etichetta.

8)      Nonostante l’apparenza di una maggior garanzia, dovute all’innalzamento del quorum, l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione di un terzo dei membri del Csm, la dichiarazione di guerra e l’approvazione della legge di amnistia e indulto (soprattutto in presenza di cospicui premi di maggioranza alla Camera) diventano più facilmente appannaggio della sola maggioranza (visto che comunque il Senato non è detto sia controllato dalle opposizioni) dal momento che il peso specifico della Camera in numeri assoluti aumenta di molto. E’ infatti un beneficio apparente aumentare il quorum se il numero dei parlamentari diminuisce in così grosse proporzioni e se i numeri per raggiungere tali maggioranze qualificate è più facilmente raggiungibile in base alla legge elettorale. Il risultato è che non sarà necessario un consenso più o meno comune neppure per scelte essenziali per la salute della Repubblica.

9)      Alcuni hanno negato la relazione tra riforma costituzionale e legge elettorale dicendo che quest’ultima non è regolata da norme costituzionali. A parte il fatto che quest’ultimo stato di cose è l’autentico limite della nostra Costituzione repubblicana (la legge elettorale è la vera e propria Grundnorm di qualsiasi ordinamento in quanto da essa dipende la determinazione delle maggioranze qualificate per modificare la Costituzione stessa), va detto che, proprio perché la legge elettorale non è codificata a livello costituzionale, una riforma costituzionale che depotenzia la funzione di controllo del potere legislativo sul potere dell’esecutivo (sia per quanto riguarda il numero di chi  controlla sia per quanto riguarda il tempo a disposizione per svolgere tale funzione) deve essere vista con particolare sospetto ed attenzione. Se infatti la legge elettorale fosse codificata a livello costituzionale ogni riforma in questo senso sarebbe valutabile più agevolmente per quanto riguarda la coerenza e meno contingentemente per quel che riguarda la possibilità di modificare la legge elettorale stessa. Da qui la necessità (in questo momento storico contingente) che almeno una delle Camere sia eletta con il metodo proporzionale.

10)  Il ricorso a strumenti di democrazia diretta sembra essere favorito dalla riforma, ma per le proposte di legge di iniziativa popolare le firme necessarie per inviarle al Parlamento sono triplicate (da 50.000 a 150.000) anche se è statuito l’obbligo per il Parlamento di discuterle. Questo aumento di firme necessarie avrebbe senso se il fatto che delle 260 proposte di legge di iniziativa popolare siano state discusse in Commissione solo il 43% fosse dovuto all’eccessivo numero di proposte (e dunque ad un’eccessiva facilità nella raccolta delle firme rispetto alla capacità di discussione del Parlamento). In realtà facendo la media delle proposte presentate dal 1979 al 2014 abbiamo solo 7,42 proposte all’anno (in percentuale  meno del 10% della media delle leggi approvate dal Parlamento). Perciò l’aumento delle firme necessarie non ha alcuna giustificazione cogente.

11)  Pure dire che storicamente il Senato non abbia mai svolto effettivamente una funzione di controllo alla fine è sbagliato e schematico. Il controllo delle Camere deve essere reciproco dal momento che il flusso in entrata delle proposte di legge deve riguardare sia la Camera che il Senato (entrambe possono e devono poter essere le prime ad esaminare un disegno di legge) ed ogni legge è il prodotto di questo controllo reciproco che avviene proprio grazie alle famigerate navette (dire che le navette producano un annebbiamento della responsabilità non tiene conto del fatto che il prodotto finale viene comunque votato). Il fatto che spesso l’attività legislativa sia spesso un processo determinato da veti incrociati e tatticismi non può essere un male da curare depotenziando le istituzioni democratiche. Sarebbe come indulgere alla medicina vecchia a base di salassi ed amputazioni sommarie. Parlare di rasoio liberale in questo caso è davvero confondere il cerusico con il chirurgo. La complessità dell’organizzazione di un paese merita analisi, strategie e terapie più raffinate. Ed è una barbarie il fatto che intellettuali abituati a sottili distinzioni nel loro campo specifico siano così approssimativi e sbracati quando si tratta proprio dell’oggetto di conoscenza più complesso di tutti. Paradossalmente quanto più il concorso alla conoscenza e alla pratica deve essere collettivo tanto più l’individuo tende a proporre semplificazioni inefficaci o catastrofiche, allo stesso modo con cui la cura con cui ci occupiamo delle nostre proprietà si traduce in trascuratezza quando si tratta delle parti comuni. Non dovremmo più scandalizzarci dei populismi se pretendiamo di risolvere problemi politici e sociali in modo così poco mirato.

12)  A questo proposito anche il discorso per cui bisogna ridurre i costi della politica ha fiato corto. I costi della politica si misurano in relazione agli obiettivi che ci si pone e ai risultati che si ottengono. Si tratta di individuare gli sprechi nel dettaglio e non di considerare la fisiologia del corpo politico uno spreco in se stessa a meno che non si abbia a disposizione una serie di strumenti in grado di raggiungere gli stessi obiettivi e che siano al tempo stesso almeno tollerabili da tutti gli attori del sistema politico ed istituzionale. Le istituzioni parlamentari in particolare (essendo l’organo costituzionale che viene eletto dal basso per eccellenza) sono gli strumenti di cui si serve il popolo per governare se stesso. Perciò la governabilità è una parola vuota se non si precisa chi governa chi. Un eccessivo dimagrimento delle istituzioni rappresentative può essere più efficiente o efficace ma può anche mutare gli obiettivi a cui si mira in modo più efficiente o efficace. Alla fine l’auto è più veloce ma non va nella direzione in cui vogliamo noi.

Come si è detto prima queste obiezioni sono fatte ad un certo livello di astrazione. Noi comunisti possiamo agitarle ma non possiamo considerarle sufficienti. Il limite di molti che si oppongono alla riforma è proprio questo tentativo di circoscrivere la questione alla dimensione giuridica e di mitizzare la Costituzione stessa richiamandosi all’antifascismo. In questo modo essi non si rendono conto di come questo approccio astratto abbia indirettamente favorito i processi che ci hanno portato a questo punto e soprattutto di come esso non favorisca uno sguardo strategico sul futuro. La necessità del No sociale parte proprio da questa osservazione. Pensare di separare le questioni costituzionali dall’attacco sistematico che i governi degli ultimi trent’anni hanno portato al salario in tutte e tre le sue declinazioni (diretto, indiretto e differito) è il peccato capitale di quelle forze liberali e democratiche che adesso (tardivamente) si oppongono a Renzi e al suo tentativo di riforma. Il limite del loro ragionamento è tale che alcuni di loro vorrebbero anche separare la questione del referendum dalla questione della permanenza di Renzi alla Presidenza del Consiglio come se stessimo discettando di questioni teoriche in un dialogo platonico. Il problema è che l’attacco al salario (in cui bisogna ricomprendere la precarizzazione del lavoro, le riforme pensionistiche e il ridimensionamento del Welfare) ha tolto forza a quei soggetti sociali che avrebbero difeso meglio anche i diritti civili e politici. Non vedere questo è stato il disastro strategico che mette tra parentesi anche la buona fede dei migliori esponenti del Comitato per il No. Perciò il No sociale va alla radice della questione costituzionale.

Contrariamente ai puristi che vorrebbero separare la sopravvivenza politica di Renzi dalla questione referendaria, va detto che c’è più di una ragione perché tale collegamento sia razionale e legittimo. La prima è metodologica: il referendum è su un insieme di modifiche che (per quanto integrabili nella riforma nel suo insieme) potrebbero essere pure considerate isolatamente o integrabili ciascuna in un altro modello di riforma. Ognuno di noi potrebbe dire di sì ad alcune e no alle altre. L’insufficienza delle istituzioni democratiche e la volontà politica contingente hanno fatto sì che si dovesse dire sì o no all’insieme di tali proposte come se tutte fossero ammissibili o tutte da rifiutare. Per questo motivo nel valutare la riforma nel suo insieme si deve parlare anche dell’intento politico che la giustifica e dunque bisogna parlare di questo governo. La seconda ragione sta nei fatti: è stato questo governo a promuovere la riforma, è stato Renzi a legare questo governo all’esito referendario, è Renzi che sta facendo campagna elettorale in prima persona e sta facendo i confronti televisivi con diversi interlocutori da solo. I puristi dovrebbero ascoltare ciò che Renzi sta dicendo loro con il suo stesso comportamento.

Andrebbe a questo punto analizzato il fenomeno Renzi, cosa sia, chi rappresenti. Molti hanno buon gioco a deridere il complottiamo che lega il premier a poteri sovranazionali solo perché spesso i complottisti sono ridicoli e caricaturali. Tuttavia Renzi rappresenta di fatto determinate classi sociali e determinate consorterie che modulano interessi di classe.  Così come il complottismo è ridicolo, altrettanto ridicolo è dire che Renzi rappresenti semplicemente ed in maniera equanime i suoi elettori. La caricatura complottista non è né vera né falsa, come tutte le caricature. Ci dà una rappresentazione iperbolica di qualcosa che però contiene anche elementi veri altrimenti non riconosceremmo chi vi è rappresentato. Facciamo pure che Renzi non sia un passacarte di JP Morgan (cosa improbabile) e tuttavia la sua azione politica realizza (provvidenzialmente?) gli intenti che certe istituzioni si propongono o certi assetti che esse ritengono augurabili. Il problema non è l’ironia sul complottismo, quanto piuttosto la nostra posizione relativamente a certi intenti e come valutiamo certi scenari. Ci va bene che l’attività legislativa dei governi vada snellita quando questa sistematicamente va contro gli interessi e i diritti del mondo del lavoro? A questo dobbiamo pensare quando andremo all’urna referendaria.

Add comment

Submit