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corto circuito

Il pachiderma sospeso sul filo

Brevi considerazioni su referendum, Cgil e dintorni

di CortocircuitO

elefante1. Non è necessaria alcuna dietrologia riguardo la bocciatura del referendum sull’articolo 18 da parte della Corte costituzionale. L’errore commesso dalla Cgil non è tecnico. E’ politico. E’ di strategia. Si trattava di un quesito referendario “taglia e cuci”. Invece di puntare a un’abrogazione complessiva del Jobs Act, interveniva di cesello. I giuristi che l’hanno scritto non hanno fatto altro che tradurre nel loro linguaggio l’impostazione politica della Cgil: nessuno scontro frontale, ma tanta responsabilità.

2. La corte costituzionale ha dato un giudizio politico. Ha fatto quel che Governo e Confindustria, chiedevano. Un brutto risveglio per la sinistra costituzionalista fresca dei propri sogni di gloria dopo il 4 dicembre: in una società divisa in classi, non esistono organismi sopra le parti. Tanto meno lo sono le funzioni dello Stato.

3. Prima e dopo il 4 dicembre avevamo scritto quanto fosse fallace l’illusione di sconfiggere le politiche di Renzi passando da una stagione referendaria all’altra. E il punto rimane questo: non si è mai vista una sola questione di classe realmente dirimente che sia stata risolta per via referendaria o per voto democratico.

4. L’articolo 18 non ha un peso economico diretto: non ha mai impedito licenziamenti, esternalizzazioni o chiusure di aziende. Ma è un elemento psicologico fondamentale nei rapporti di forza tra le classi. La libertà di licenziamento è per i padroni una sorta di pistola alla tempia.

Non importa usarla: basta sapere che esiste perchè un lavoratore sia inibito a tesserarsi al sindacato, a rispondere a tono, perfino ad assentarsi per malattia, a chiedere le ferie che gli spettano, a rifiutare lo straordinario, a rallentare il proprio ritmo di lavoro. L’articolo 18 è stato ottenuto nel 1970 attraverso uno dei punti più alti dello scontro di classe nel nostro paese. E’ un sottoprodotto dell’autunno caldo. I padroni hanno iniziato a osteggiarlo un secondo dopo che è entrato in vigore. Ci sono voluti 45 anni perché potessero averne completamente ragione. L’idea che questo processo possa essere invertito “democraticamente”, che la classe dominante accetti sportivamente di “mettere ai voti” i propri interessi fondamentali, ha qualcosa di ridicolo, se non di tragico.

5. Si può pensarla diversamente ma esiste un livello oltre il quale la mancanza di onestà intellettuale sfiora il surreale. Nel 2002, quando la difesa dell’articolo 18 divenne tema chiave per la segreteria di Cofferati, la direzione della Cgil si prefisse la seguente strategia: “due referendum abrogativi, due proposte di legge un tir e cinque milioni di firme come obiettivo. Ecco il programma della Cgil per continuare la battaglia sulle modifiche all’articolo 18”. “Un’iniziativa politica fortissima che dà continuità a quelle che abbiamo messo in campo fino a oggi” ha annunciato il leader Sergio Cofferati” (La Repubblica, 4 agosto 2002). Togli Cofferati e metti Landini: dichiarazioni sovrapponibili a distanza di 14 anni. La Cgil è sempre ferma lì. E quindi, dialetticamente, è sempre più indietro. Il 2002 fu una tragedia: un movimento di vaste proporzioni mandato a casa per raccogliere le firme ad agosto. Firme che si persero nel nulla come la parabola politica del beneamato Cofferati. Il 2014 è stata una farsa: la Camusso non ha nemmeno abbandonato ufficialmente la piazza. Ha fatto come i fidanzatini: non si lasciano, semplicemente smettono di telefonarsi. Oggi come allora, però, non ci siamo fatti mancare altri tre milioni di firme, le leggi di iniziativa popolare e gli immancabili referendum.

6. Non gioiamo di certo per il fatto che il referendum sia saltato. Prendiamo atto della pura realtà: non si comprende perché uno scontro che non si è in grado di vincere sul terreno diretto dello sciopero e della lotta, dovrebbe essere più facile da vincere sul terreno referendario dove per definizione tutto è in mano alla controparte. Un terreno dove i voti dei lavoratori sono annacquati insieme a quelli del resto delle classi sociali. “Ma Governo e Confindustria temevano questi referendum!” ci si potrebbe obiettare. E’ vero, li temevano. Ma non certo per quanto fatto dalla Cgil. Li temevano per la congiuntura in cui cadono: la crisi della democrazia borghese ha alimentato il voto di protesta al punto tale da far vivere ogni compagine governativa sotto il costante timore dello schiaffo elettorale.

7. Rimangono in piedi i due quesiti su voucher e appalti. Come un paziente affetto da amnesie della memoria corta, i dirigenti Cgil rilanciano: sono comunque quesiti importanti, dei referendum fondamentali. Anche in questo caso il timer della “bomba referendaria” è totalmente in mano alla classe dominante. Possono decidere di disinnescarli, rinviarli e persino a questo punto di giocarsi la partita. I due quesiti senza l’articolo 18 risultano infatti estremamente indeboliti. In fondo è questo il senso della sfida referendaria: se riesci a vincere, hai solo vinto una partita truccata che non determina alcun cambiamento. Se perdi, legittimi “democraticamente” le politiche del tuo avversario sociale.

8. Intanto è già partito l’ordine ai principali media di scavare nelle contraddizioni della Cgil, di deviare l’odio verso il “baraccone” sindacale. Dirige le operazioni, come sempre, Repubblica. Risulta così facile mettere in evidenza l’incoerenza di una Cgil che piange per l’annullamento del quesito dell’articolo 18, ma che ha presentato una proposta di Carta dei diritti dove l’articolo 18 non è nemmeno ripristinato. Risulta facile portare a galla l’utilizzo dei voucher da parte dello Spi-Cgil. Colta con le mani nel sacco, la burocrazia sindacale ha fornito una difesa che è peggiore dell’accusa. Prima ha cercato di sminuire la quantità dei voucher usati, come se fosse un problema di numeri. Secondo il presidente Inps Boeri la Cgil avrebbe comunque utilizzato voucher per circa 750mila euro nel 2016.  Vero o no, il problema è politico. Lo stesso Spi-Cgil ha infatti fatto sapere che “la Cgil non vuole abolire il lavoro occasionale e accessorio” e che “l’utilizzo dei voucher allo Spi-Cgil non ha colto di sorpresa alcun dirigente del sindacato”.

9. Nulla di sostanziale può essere ottenuto nello scontro tra classi senza spostare i rapporti di forza. E nessun sostanziale spostamento dei rapporti di forza può darsi senza lotta. Al contrario la strategia referendaria della Cgil è il tentativo disperato di sfuggire a questa lotta. Come il cattolico in confessionale, l’apparato sindacale prova a espiare i propri peccati con un referendum. Nel frattempo continua come se nulla fosse, tanto che in nessun rinnovo contrattuale è stato messo in discussione il Jobs Act.

10. Come mai tanta viltà? La Cgil è in teoria forte di 16mila funzionari e milioni di iscritti. Presa a schiaffi in faccia prima da Renzi e poi da questa decisione della Corte, dovrebbe in teoria reagire con una mobilitazione. Così non è. Ed è bene capire perché. C’è chi del resto aveva prospettato che il Jobs Act costringesse la burocrazia sindacale Cgil a una lotta “per la vita o per la morte”. C’è chi si è spinto fino a ipotizzare che la rinascita di un partito di classe nel nostro paese sarebbe giunta come prolungamento della necessità dell’apparato sindacale di ricreare una propria rappresentanza politica. Prospettive unilaterali che tenevano in conto solo un aspetto della questione.

11. La burocrazia sindacale ha tutto l’interesse a difendere il proprio ruolo sociale. E questo la può spingere anche sul terreno della mobilitazione. Tuttavia in assenza di una reale spinta dal basso dei lavoratori tale mobilitazione è destinata ad assumere caratteristiche farsesche. L’esigenza di sopravvivere non spinge la burocrazia solo alla lotta. La spinge anche a una maggiore viltà, alla resa, ad attaccarsi disperatamente a qualsiasi forma di finanziamento le venga concesso. Così la forza organizzativa di questo enorme apparato diventa la causa di tutte le sue debolezze. Il mantenimento di questo spropositato numero di funzionari finisce per mangiare sempre più risorse finanziarie. L’intera azione della direzione sindacale diventa guidata ossessivamente dal problema di mantenersi economicamente. Lo sciopero e la lotta, perfino il semplice corteo nazionale, vengono visti come avventure che assorbono energie e dissestano le casse, senza alcun ritorno garantito.

12. L’apparato mantiene così il livello di mobilitazione strettamente necessario a non farsi scavalcare e a presidiare “la piazza”. Ma contemporaneamente stringe sempre maggiori legami con fondi pensione, sanità integrativa e enti bilaterali. Questo a sua volta determina una selezione al negativo tra gli stessi funzionari. Le nuove leve non provengono dalle lotte e spesso nemmeno dalle aziende. Sono il risultato di semplici selezioni del personale: una leva di burocrati priva di autorevolezza e capacità.

13. Siamo quindi alla fine della Cgil? No, sarebbe sbagliato e altrettanto unilaterale giungere a questa conclusione. Questo pachiderma in stato confusionale continua a pesare inerte sulla classe. E’ un fatto di tradizione e di dimensioni, di cui non ci si può liberare con qualche denuncia verbale. Questa palese crisi di strategia ha però delle implicazioni che è bene cogliere: l’autorità e l’autorevolezza della burocrazia sindacale è in picchiata. La sua presa sui luoghi di lavoro resiste in maniera inerziale. Ma laddove si inserisce l’azione di una corrente politica e sindacale classista la burocrazia va rapidamente in difficoltà. Ci si può fare strada tra settori importanti della classe, a patto che ci si formi correttamente, che si rimanga liberi da logiche settarie e burocratiche, che si evitino provocazioni e ricerca di scorciatoie. Si torna sempre lì: il problema non è la classe, ma la nostra capacità di militanza e radicamento nella classe.

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