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La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi
di Vittorio Stano
“Riassumiamo in quattro parole il patto sociale tra i due Stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete poveri; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta per la pena che io mi prenderò di comandarvi.”
Jean Jaques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755)
Negli ultimi 50anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei governanti contro i governati. Dai birrifici del Colorado, ai miliardari del Midwest, alle facoltà di Harvard, ai premi Nobel di Stoccolma, Marco d’Eramo (1) con il suo libro “Dominio” ci guida nei luoghi dove questa sedizione è stata pensata, pianificata, finanziata.
Di una vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi ce ne accorgessimo. La rivolta dall’alto contro il basso ha investito tutti i terreni, non solo l’economia e il lavoro, ma anche la giustizia, l’istruzione: ha stravolto l’idea che ci facciamo della società, della famiglia, di noi stessi.
Ha sfruttato ogni crisi, tsunami, attentato, recessione, pandemia. Ha usato qualunque arma, dalla rivoluzione informatica, alla tecnologia del debito. Insorgere contro questo dominio sembra una bizzarria patetica e tale resterà se non impariamo da chi continua a sconfiggerci. Il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento. Ma ricordiamoci: nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto. Proprio come noi ora.
Questa guerra bisogna raccontarla partendo dagli Stati Uniti perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi occidentali sono loro sudditi. Uno degli effetti della vittoria che i ricchi hanno conseguito è stato di renderci ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di potere: meno male che è arrivato Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la crudezza in ogni dominio imperiale.
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Francesco, l’ultimo papa
Un bilancio dei primi dieci anni di pontificato di Bergoglio, tra riforme e timori di scisma, innovazioni e limiti
di Roberto Paura
Un “pontificato breve”: così papa Francesco se lo immaginava e lo annunciava all’apertura dell’anno giubilare straordinario del 2015, poco meno di due anni dopo l’elezione. E la scelta di proclamare un giubileo straordinario dedicato al tema della “misericordia” tradiva la convinzione di non poter aspettare il 2025, anno giubilare ordinario. Breve era stato del resto il pontificato di Giovanni XXIII, che pure in meno di cinque anni aveva segnato una discontinuità radicale con il passato e inaugurato quel Concilio che avrebbe cambiato per sempre la Chiesa cattolica. Invece, contro molte aspettative, Francesco varca ora i dieci anni di pontificato: un tagliando importante, di bilanci – se ne leggono molti in giro – che cade in un anno particolare, il primo dopo la morte di Benedetto XVI, che mette fine all’ambigua e polarizzante questione dei “due papi”.
La sua elezione fu una sorpresa per tutti. Dopo essere stato per un paio di giorni il riluttante frontman degli anti-ratzingeriani al conclave del 2005, Bergoglio se ne era tornato in Argentina senza mettere in alcun conto una seconda possibilità. Ma le dimissioni sconcertanti di Benedetto XVI avevano rimesso tutto in discussione. Innanzitutto, si erano verificate talmente “a ciel sereno” – come dichiarerà a bruciapelo un istante dopo allo stesso papa il decano Angelo Sodano – che nessuno era preparato a immaginarne la successione. Lo stesso Ratzinger, che sperava di vedergli succedere Angelo Scola, era troppo esausto in quei giorni per provare a imporlo al collegio cardinalizio. Ma in secondo luogo, e soprattutto, le dimissioni di Benedetto XVI sancirono platealmente la sconfitta della sua linea.
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L'orologio di Cassandra
di Alfonso Gianni
Editoriale del numero doppio 66-67 del Trimestrale Alternative per il Socialismo
Le parole che forniscono il titolo a questo fascicolo della nostra rivista – “Siamo tutti in pericolo” - sono di Pier Paolo Pasolini. Sono tratte dalla sua ultima intervista, che rilasciò a Furio Colombo nel pomeriggio del 1° novembre 1975. Compaiono alla fine della loro conversazione. Ma Pasolini non la riteneva conclusa. Si riprometteva di tornarci sopra il giorno successivo “Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare”.1 Ma non ci fu più tempo. Nella notte venne brutalmente ucciso sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. Non si tratta solo di un omaggio alla figura del grande intellettuale in occasione del centenario, appena trascorso, della sua nascita. È piuttosto un’attualizzazione. Quelle sue parole, per quanto riferite a ben altro contesto, dopo quasi cinquant’anni descrivono meglio di molte altre lo stato d’animo diffuso e la condizione reale in cui siamo immersi. Come se la capacità che fu propria di Pasolini, la sua cifra in vita, di sentire il deteriorarsi delle cose e dei rapporti umani intorno a sé, di percepire con la ragione, di più, di avere il senso della inesorabile costruzione di un “ordine basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere”, fosse stato proiettato in un tempo a lui futuro che coincide con il nostro presente. Siamo stretti in una morsa di eventi precipitati in rapida successione, senza soluzione di continuità, o addirittura contemporaneamente, che rende incerti, foschi, pericolosi i tempi, anche quelli prossimi, che abbiamo di fronte. Alla grande crisi economico-finanziaria si è aggiunta la pandemia del Covid, alla guerra, o meglio alle tante guerre dimenticate, si sovrappone il pericolo sempre più assillante di un conflitto nucleare megadistruttivo. E nessuno di questi novelli cavalieri dell’Apocalisse è stato ancora vinto e neppure disarcionato.
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La “fatalità” della guerra e il possibile della politica
A proposto di Carl von Clausewitz ieri e oggi*
di Valerio Romitelli
I
Cosa può mai accomunare due figure così distanti come, da un lato, un austero giurista tedesco reazionario attivo tra gli anni Venti e Sessanta del secolo scorso, per di più del tutto coinvolto nella devastante peripezia nazista e, dall’altro, un filosofo francese, prima strutturalista (nel cuore degli anni Sessanta), poi anche post-strutturalista, orgogliosamente gay, operante fino alla morte (nel 1984) più o meno in sintonia con gli svariati movimenti di lotta sociale allora esistenti in Francia, in Italia, ma anche altrove come nell’Iran della rivoluzione anti-Scià?
L’allusione qui è a Carl Schmitt e a Michel Foucault, i quali, oltre ad essere stati tra gli autori di rilevanza politica tra i più letti e commentati a partire dagli anni Settanta, specie in Italia e specie a sinistra, convergono sorprendentemente su un’idea strategica cruciale riguardo al rapporto tra guerra e politica. Ad entrambi, nel corso delle rispettive opere di dimensione e riverbero a dir poco monumentali, è capitato infatti di rifarsi all’arcinoto assioma di Carl Von Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”[1]. Ma, fatto degno di nota, di cui qui si discuterà, è che ad entrambi in una simile occasione, ciascuno all’insaputa dell’altro, è venuto da postulare che tale detto resterebbe valido solo se rovesciato. Conclusione condivisa è quindi che sia la politica ad essere continuazione della guerra, non viceversa[2].
Lungi dall’essere riducibile a una questione puramente terminologica o a una curiosità accademica, questo rovesciamento di prospettiva può essere invece accolto come un nodo problematico assai significativo di molte dispute tutt’ora in corso all’interno della variegata galassia della militanza anticapitalista; e più in particolare, delle recenti dispute insorte intorno al crescente pericolo di un terzo conflitto mondiale, divenuto più che mai sensibile a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e dei supporti bellici concessi a profusione in suo favore dalla Nato.
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Solo armi: le scelte dei leader Ue, tre chiavi di lettura
di Chiara Bonaiuti
Il comportamento dei leader europei nella corsa al riarmo per la guerra in Ucraina non corrisponde né ai principi condivisi nel diritto internazionale, né agli interessi strategici, tanto meno a quelli economici. Analisti di diverse famiglie teoriche lo confermano: la mancanza di trattative è sonnambulismo e cova la catastrofe
Premessa
Il confronto tra pacifisti e interventisti viene spesso presentato come una contrapposizione tra idealisti e realisti, irrazionali e razionali. Ma è davvero realista chi ritiene che la guerra, il riarmo e l’escalation più siano l’unico modo per respingere Putin? Sono davvero così irrazionali i pacifisti che premono per l’apertura di un tavolo delle trattative oppure lo sono i decisori politici europei che stanno andando dritti verso la catastrofe come dei sonnambuli?
Con un approccio analitico vorremmo analizzare qui quali siano i fattori che spiegano questa corsa al riarmo da parte della classe dirigente italiana ed europea. Facendo riferimento alla letteratura sul commercio di armi, consideriamo tre gruppi di variabili che possono spiegare il comportamento dei leader europei: gli ideali; gli interessi strategici o gli interessi economici. Ciascun gruppo di variabili fa riferimento ad una diversa famiglia di teorie della politica estera europea: i costruttivisti, i realisti e neorealisti e i liberisti.
I principi della democrazia e della difesa dei diritti umani
Un primo gruppo di teorie ruota attorno al costruttivismo, secondo cui le idee e i valori sono importanti e possono influenzare le scelte politiche. Tra gli studiosi costruttivisti, Manners introduce il concetto di potere normativo europeo. Egli sostiene che l’identità e il comportamento dell’UE si basano su un insieme di valori comuni: pace, diritti umani, democrazia, Stato di diritto, uguaglianza, solidarietà sociale, libertà, sviluppo sostenibile e buon governo, contenuti nei trattati dell’UE. Questi valori hanno un fondamento giuridico e si trovano formalizzati nei Trattati dell’Unione.
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Discorso di Putin del 21 febbraio. Traduzione integrale in italiano
a cura di Marinella Mondaini
Traduzione integrale del discorso di Putin del 21 febbraio*
Un Messaggio epocale e carico di amore, per il proprio popolo e per l’umanità.
Non c’erano giornalisti italiani al 18º Messaggio di Putin perché il Cremlino ha accettato solo la presenza dei paesi amici della Russia.
Il messaggio del Presidente all’Assemblea Federale è un discorso pubblico annuale del capo di Stato, rivolto a entrambe le Camere del Parlamento e ai capi di tutte le regioni della Federazione Russa.Esso valuta lo stato delle cose nel paese e determina le principali direzioni della politica interna ed estera. Il primo discorso che Vladimir Putin ha enunciato davanti ai deputati e ai senatori è stato a luglio del 2000 e recava l’emblematico titolo: “Quale Russia costruiamo?”
Quest’anno all’evento sono stati invitati anche i partecipanti all’Operazione Speciale Militare russa in Ucraina.
Putin ha parlato per quasi due ore di fila, interrotto da 53 applausi, di cui 4 in piedi. Un discorso impressionante e potente per contenuto e per carica emotiva, che ha toccato tutte le sfere: politica interna ed estera, situazione mondiale e in particolare valutazione sull’Ucraina, l’Operazione Speciale militare, le riforme interne, anche nel campo dell’Istruzione, dove è proposto un ritorno alla preziosa esperienza sovietica, dove il maestro, il professore ritorna al suo valore originario: quello non solo di insegnante, ma anche di educatore, una figura che non dev’essere “emanatore di servizi”! Inoltre si raggiunge così anche lo scopo di distogliere giovani e bambini dalle reti sociali.
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L’Iniziativa di Sicurezza Globale (GSI) presentata dalla Cina
di * * *
Quando una potenza mondiale in ascesa ed in ottima salute economica presenta una base di discussione a tutto il mondo – e in primo luogo alle potenze ex dominanti (l’area “euro-atlantica”, ovvero agli Stati Uniti) – su come rifondare l’ordine internazionale, ci si attenderebbe molta attenzione da parte di tutti i protagonisti.
Non perché quelle proposte debbano essere tutte belle, buone e giuste, ma per l’importanza del soggetto che le propone. La cosa logica sarebbe che si entrasse nel merito, confutando e controproponendo…
Se dobbiamo regolarci sulla reazione (inesistente) dei media occidentali, invece, possiamo già dire che molto difficilmente questa proposta verrà presa in considerazione.
L'élite europea è appecoronata sotto il nuovo comando strategico Usa (il Washington Post di ieri titolava apertamente “La visita di Biden in Polonia ci ricorda chi comanda davvero in Europa“), e non sembra interessata a frenare più di tanto la deriva guerrafondaia, unilaterale, suprematista occidentale che si va imponendo senza più neanche discutere.
Dio confonde coloro che vuol perdere, dice un antico aforisma. Non è la prima volta che il senno esce fuori dalle teste “coronate”. Solo che in fondo a questa strada, questa volta, c’è il rischio di restarci tutti. Definitivamente.
*****
Iniziativa di Sicurezza Globale (GSI): documento concettuale
Premessa
Il tema della sicurezza riguarda il benessere delle persone di tutti i Paesi, la nobile causa della pace e dello sviluppo mondiale e il futuro dell’umanità.
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Germania. “Mettiamo fine a questa guerra”
Der Spiegel intervista Alice Schwarzer e Sahra Wagenknecht
I giornalisti dello Spiegel, Susanne Beyer e Timo Lehmann, hanno curato una lunga intervista ad Alice Schwarzer e Sara Wagenknecht. La prima nota giornalista, la seconda parlamentare della Linke spesso dissonante rispetto alla linea ufficiale del Partito della Sinistra tedesca.
Le due donne hanno lanciato un appello per fermare la guerra in Ucraina e stoppare la fornitura di armi da parte della Germania. L’appello ha raggiunto le 500.000 firme ed è diventato un fatto politico. Per sabato prossimo, 25 febbraio, i firmatari dell’appello hanno convocato una manifestazione contro la guerra alla porta di Brandeburgo a Berlino.
Contro la manifestazione di sabato a Berlino si sta scagliando il fronte conservatore e quello guerrafondaio, quest’ultimo assai più trasversale. Il politico della Cdu Roderich Kiesewetter ha lanciato un suo appello contro il corteo di sabato prossimo.
Tra i primi firmatari figurano lo scienziato Joachim Krause dell’Istituto per la politica di sicurezza dell’Università di Kiel e l’ex parlamentare dell’FDP Hildebrecht Braun. Ma anche il gruppo parlamentare della Linke ha preso le distanze della manifestazione.
I giornalisti dello Spiegel incalzano le due esponenti del movimento contro la guerra a tutto campo, inclusi alcuni colpi bassi riservati in questi dodici mesi a tutti coloro che nei vari paesi, Italia inclusa, si sono opposti alla logica guerrafondaia.
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The Guardian - Hacker israeliani hanno influenzato i risultati delle elezioni in decine di paesi
di Stephanie Kirchgaessner, Manisha Ganguly, David Pegg, Carole Cadwalladr and Jason Burke
Secondo quanto rivela il quotidiano The Guardian, un team giornalistico investigativo ha scoperto un gruppo israeliano responsabile della manipolazione di oltre 30 elezioni in tutto il mondo. Gli hacker hanno portato avanti le macchinazioni attraverso attacchi informatici, sabotaggi e bot di disinformazione sui social network
Una squadra di contractor israeliani che sostiene di aver manipolato più di 30 elezioni in tutto il mondo utilizzando hacking, sabotaggi e disinformazione automatizzata sui social media è stata smascherata da una nuova indagine.
L'unità è gestita da Tal Hanan, un 50enne ex agente delle forze speciali israeliane che ora lavora privatamente con lo pseudonimo di "Jorge" e sembra aver lavorato sottotraccia nelle elezioni di vari Paesi per più di due decenni.
A smascherarlo è un consorzio internazionale di giornalisti. Hanan e la sua unità, che utilizza il nome in codice "Team Jorge", sono stati smascherati da filmati e documenti sotto copertura trapelati e fatti arrivare al Guardian.
Hanan non ha risposto a domande dettagliate sulle attività e sui metodi del Team Jorge, ma ha detto: "Nego di aver commesso qualsiasi illecito".
L'indagine rivela dettagli straordinari su come la disinformazione viene utilizzata come un’arma dal Team Jorge, che gestisce un servizio privato che si offre di intromettersi segretamente nelle elezioni senza lasciare traccia. Il gruppo lavora anche per clienti corporate.
Hanan ha detto ai giornalisti in incognito che i suoi servizi, che altri descrivono come "operazioni clandestine”, erano a disposizione di agenzie di intelligence, campagne politiche e aziende private che volevano manipolare segretamente l'opinione pubblica. Ha detto che sono stati utilizzati in Africa, America meridionale e centrale, Stati Uniti ed Europa.
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Da Mao a Xi: un socialismo vivo
di Diego Angelo Bertozzi
Prefazione al volume" "Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del XXi secolo" (LAD edizioni (euro 14,00) e-mail a: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.; This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)
Per introdurre, spero degnamente, questo importante e originale lavoro faccio un salto all'indietro nel tempo. Nella sua recensione del libro “La sinistra assente” del compianto Domenico Losurdo, pubblicata sul Corriere della Sera del 3 novembre, il professor Luciano Canfora, pur riconoscendo i meriti del testo, ne criticava a più riprese le posizioni relative alla Repubblica popolare cinese. Secondo Canfora infatti, il vertiginoso sviluppo economico del Paese asiatico sarebbe avvenuto in forte contraddizione con le premesse teoriche del socialismo cinese e della rivoluzione maoista. Un giudizio che nulla ha di sorprendente: con le sue affermazioni lo studioso si inserisce in un filone di pensiero ben consolidato – anche a sinistra – di condanna degli sviluppi di quello che si auto-definisce “socialismo con caratteristiche cinesi” e, quindi, di rigetto di un tradimento che si sarebbe consumato nel post-rivoluzione culturale per sfociare in una restaurazione autoritaria all'insegna del liberismo capitalista. La Cina, secondo una lettura divenuta negli anni senso comune, non solo non rappresenterebbe un'alternativa reale alla restaurazione liberista in atto dal 1989, ma ne sarebbe, invece, parte attiva con il suo bagaglio di sfruttamento, diseguaglianze raccapriccianti e pulsioni imperialiste.
In fondo basterebbe poco per dimostrare che l'affermazione di Canfora “lo stato di cose che si è affermato in quel grande Paese, trasformatosi ormai nell'esatto contrario di ciò che si proponeva di essere alla metà del Novecento” concede troppo alla vulgata dominante. Si potrebbe partire dal discorso di Mao che il 1° di ottobre del 1949 sancì ufficialmente la nascita della Repubblica popolare cinese: “Ci siamo uniti, con la guerra di liberazione nazionale e con la grande rivoluzione popolare, abbiamo abbattuto gli oppressori interni ed esterni e proclamiamo la fondazione della Repubblica popolare cinese. Da oggi il nostro popolo entra nella grande famiglia di tutti i popoli del mondo, amanti della pace e della libertà”.
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Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire
Un estratto dal libro Guerra alla guerra
di Matteo Pucciarelli
[Esce in questi giorni per i tipi di Laterza il nuovo libro di Matteo Pucciarelli, Guerra alle guerra. Guida alle idee del pacifismo italiano.
Il capitolo 8, di cui riportiamo ampi estratti e che s’intitola «Guerra nelle parole. Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire», è in larga parte imperniato su un’intervista a WM1 realizzata nel settembre 2022 e sul lavoro critico fatto da Wu Ming nel pieno dell’emergenza pandemica, durante un coprifuoco dell’anima durato un biennio. Pucciarelli getta uno sguardo retrospettivo su quel lavoro, lo riconsidera e ne prolunga diverse linee.
Non capita ogni giorno – anzi, non ci era ancora capitato – di veder riconoscere legittimità e valore a quelle nostre riflessioni e prese di posizione in un testo pubblicato da una delle principali case editrici del Paese.
Il fatto che a riconoscerlo sia un giornalista che lavora a Repubblica, il quotidiano che più si mostrò forsennato nella caccia all’untore – ossia, nelle varie fasi: al «furbetto», al «negazionista», al «nomask», al «novax», al «nogreenpass» ecc. – e che oggi ha il primato della retorica guerrafondaia rende l’evento ancor più importante.
Grazie dunque a Matteo, e buona lettura. WM]
* * * *
«Narrazioni tossiche»*: è questa la definizione che il collettivo di scrittori Wu Ming ha dato a tutta una serie di distorsioni e mistificazioni di parole, in questa guerra che solo dopo si combatte con i fucili o con i droni telecomandati, con la violenza e la prevaricazione, ma prima è fatta di un sapiente e costante lavoro di decostruzione culturale.
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Ipocrisia sulla guerra
di Sergio Farris
Il 2023 si è aperto con un nuovo rilancio, da parte occidentale, dell'escalation militare nel confronto con la Federazione russa. Il Parlamento italiano ha votato a favore del sesto atto per l'invio di materiale bellico a Kiev.
Se non altro, dovrebbe risultare ancora una volta più nitido che dal centro dell'impero – gli USA – non si mira nel breve termine a una trattativa di pace che possa porre termine al conflitto in Ucraina.
Vinte le resistenze tedesche riguardanti l'approvvigionamento di carri armati Leopard–2 a Zelens'kyj e approvati nuovi provvedimenti di 'aiuti' finanziari e militari da immettere nel 'pozzo senza fondo' ucraino, restano pochi dubbi sul fatto che laddove la nostra classe dirigente parla di 'pace', il termine va decodificato come 'sconfitta, ritiro incondizionato dei russi e integrazione dell'Ucraina nell'ambito di influenza occidentale'.
Si alimenta una continua 'escalation' ma la si definisce ricerca della 'pace giusta'.
D'altronde, fin dal 24 febbraio del 2022 ambiguità e simulazioni semantiche sono parte integrante del racconto sulla guerra che il nostro sistema comunicativo ha avuto cura di propalare.
Il nostro apparato mediatico, riflettendo la posizione politico – culturale prevalente, ha continuamente alimentato ad arte un'interpretazione dell'evento bellico nell'est–Europa tale da trascinare l'opinione pubblica verso una presa di posizione acritica e assolutamente faziosa. Sono stati artificiosamente delineati due campi: quello dei probi democratici filoatlantisti e quello degli esecrabili filoputiniani. Chi, in questi mesi, ha cercato di riconoscere il contrasto di interessi geopolitici al fondo del conflitto, è stato condannato – per direttissima – a far parte del campo dei simpatizzanti del potere russo e, più in generale, di regimi dittatoriali.
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Poche parole chiare sul caso Cospito
di Michele Castaldo
Sta facendo molto rumore il cosiddetto caso Cospito: i poteri dello Stato si rimbalzano le responsabilità, i partiti politici si azzuffano, il governo di centro-destra o destra si compatta, la cosiddetta sinistra va allo sbando e con essa anche il cosiddetto estremismo di sinistra, mentre gli anarchici tendono a coalizzarsi. La questione che sta facendo tanto discutere è la condizione del carcere duro del 41 bis. In un bailamme del genere riuscire a raccapezzarci qualcosa è abbastanza difficile per chi vorrebbe tenere la barra dritta di una visione anticapitalistica, che vuol dire antisistema, in una fase di per sé molto complicata. Ma, come dire, è la storia che impone delle divaricazioni.
Chiariamo perciò da subito che se la questione si ponesse nei termini di schierarsi, con lo Stato o con gli anarchici, non ci sarebbe dubbio alcuno a stare contro lo Stato che interpreta le leggi del capitale contro gli sfruttati, gli emarginati e gli immigrati per salvaguardare l’accumulazione. Questo in primis, in secundis da sempre l’oppressione e lo sfruttamento ha provocato schegge di ribellioni individuali che spesso sono state teorizzate come concezione anarchica. Dunque da una parte c’è il potere costituito e dall’altra le espressioni di riflesso agente a un dominio ritenuto a giusta ragione oppressivo. Pertanto chi non si rivede nell’ordine costituito è immediatamente attratto da chi in un modo o nell’altro lo combatte. Ovviamente – questo è un punto dirimente – si è sempre disposti a sostenere la causa di chi viene represso, come nel caso di Sacco e Vanzetti negli Usa o di Pinelli nel ’69, mentre si è titubanti di fronte ad atti e gesti cosiddetti terroristici, ovvero di piccoli attentati che però vengono ingigantiti e utilizzati dal potere costituito per scoraggiare ogni tipo di mobilitazione sociale sul problema che causa l’atto “terroristico” o anarchico.
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Da Christopher Lasch al suicidio della sinistra positivista
di Lelio Demichelis
Christopher Lasch (1932-1994) è stato certamente un intellettuale scomodo, poco amato dalle sinistre liberal americane, dalle femministe, dagli intellettuali europei. Eppure, è stato autore di opere fondamentali come La cultura del narcisismo, La rivolta delle élite, Il paradiso in terra (tutte pubblicate o ripubblicate da Neri Pozza).
Scomodo, ma quindi necessario. Come Heidegger (facendo le debite proporzioni), che è essenziale per capire cos’è la tecnica, ma che la sinistra si rifiuta di leggere e di capire restando anzi preda di una visione idilliaca – come scriveva, criticandola, Raniero Panzieri settant’anni fa – della tecnologia. O meglio, aggiungiamo, della razionalità strumentale/calcolante-industriale che ci domina dalla rivoluzione industriale e che è essenza (andando oltre Heidegger) anche del capitale/capitalismo, poiché basati – tecnologia e capitalismo – sulla stessa logica di accrescimento illimitato e infinito di sé come mercato e profitto, oltre che come sistema tecnico, producendosi appunto quello che chiamiamo tecno-capitalismo e che trova oggi nel totalitarismo del digitale, e nella digitalizzazione delle masse, la sua ultima (per ora) fase storica. E quindi, così come un grande intellettuale di sinistra, Claudio Napoleoni, aveva letto lo scomodo Heidegger per capire cosa sia la tecnica (che non è neutra come ingenuamente credono i marxismi, ma possiede un determinismo proprio – ontologico, teleologico e teologico), così oggi le sinistre dovrebbero rileggere anche lo scomodo Lasch per capire come è cambiato il mondo e recuperare un legame con la realtà da cui si sono dissociate per inseguire lo storytelling tecno-capitalista, cioè confondendo il progresso con la tecnica (con la razionalità strumentale/calcolante-industriale) e infine con il mercato neoliberale.
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Il divorzio tra élite e popolo
di Paolo Mossetti
Paolo Mossetti è uno scrittore e giornalista che ha lavorato nel marketing editoriale e come traduttore. Si occupa di cultura economica, politica e conflitti su diverse riviste tra cui N+1 e le edizioni italiane di Esquire, Wired e Forbes
Era il settembre 1955 e l’attentato a Plaza de Mayo aveva già cambiato la storia dell’Argentina. Il 16 di quel mese, con il bombardamento della Casa Rosada, si era scatenato a Buenos Aires il colpo di stato definitivo contro il governo di Juan Domingo Perón. Tre giorni dopo Perón si dimise e il 23 il generale Eduardo Lonardi entrò in carica. Perón andò in esilio. La maggior parte dei partiti politici, dei settori militari, della chiesa cattolica e degli uomini d’affari festeggiò l’evento, applaudendo all’installazione di una dittatura non meno brutale di quella appena rimossa.
Il nuovo corso fu chiamato Revoluciòn libertadora, e l’ambasciata statunitense affermò che il neogoverno era il più “amichevole” che avesse avuto da anni. Presto arrivarono le sparatorie e la proscrizione dei peronisti. L’odio nell’aria era tale che il contrammiraglio Arturo Rial disse agli operai comunali: “Dovete sapere che la Rivoluzione Liberatrice fu fatta perché in questo benedetto paese il figlio dello spazzino morisse spazzino”.
All’epoca, gran parte degli intellettuali argentini era militante contro il peronismo. Non era estraneo a questa tendenza lo scrittore Ernesto Sábato, protagonista per mezzo secolo del dibattito pubblico. Tuttavia questo ex militante comunista era perplesso. Come qualche altro sparuto pensatore non ancora accecato per dalla libertà conquistata, provava empatia per la tristezza che gran parte del popolo argentino provò quando il caudillo fu rovesciato. Nei mesi successivi alla caduta di Perón, Sábato pubblicò un breve saggio sotto forma di lettera aperta, mai tradotto né ripubblicato dopo la prima edizione del 1956, nel quale si interrogava sulla violenza e la natura degli eventi appena trascorsi.
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