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carmilla

Studenti e operai uniti nella lotta…?

Appunti per una mobilitazione studentesca

di Sandro Moiso

28 gennaio 2022 Non si può morire di alternanza scuola lavoroLa nostalgia non è mai una buona compagna di viaggio, sia nella vita che in politica, pertanto le riflessioni che seguono esulano da eventuali rimpianti per una stagione apparentemente finita da decenni. Detto questo, però, è inevitabile registrare come in una società che non ha mai perso le caratteristiche di sfruttamento e comando sulla forza lavoro che già erano state alla base delle rivolte operaie degli anni Sessanta e Settanta, in un contesto in cui alcune caratteristiche del lavoro precarizzato sono penetrate sempre di più anche all’interno dei percorsi scolastici contraddicendo la favoletta della formazione culturale dei futuri cittadini, sia ridiventata possibile sperare in una ripresa dell’unità di intenti tra settori del mondo del lavoro e studenti, soprattutto delle scuole superiori, come è riscontrabile oggi a partire dalle mobilitazioni che hanno coinvolto gli stessi in almeno trenta città italiane dopo la tragica morte, durante l’ultimo giorno dello stage di alternanza scuola-lavoro, di un giovane diciottenne, Lorenzo Parelli, in un’azienda dislocata in provincia di Udine.

D’altra parte gli studenti medi, nelle spontanee manifestazioni avvenute dopo la morte di un loro coetaneo sul luogo di lavoro in cui avrebbe dovuto apprendere elementi utili ad una formazione professionale, cui le scuole statali sembrano aver abdicato da molti anni a questa parte, hanno evidenziato un elemento che da troppo tempo, al di là dei falsi piagnistei sindacali e governativi, caratterizza il mondo del lavoro italiano, ovvero il fatto che in questa democratica repubblica sono da contare almeno tre morti al giorno sui posti di lavoro. Cifra che il periodo di allerte ed emergenze pandemiche non ha certamente contribuito a far diminuire.

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ilrovescio

Rinnovamento industriale

di Avis de tempetes

ekologicheskie krizisi i katastrofi ponyatie klassifikaciya osnovnie prichini i istoriyaIn questi giorni qualche timido fiocco sta imbiancando le pianure, le foreste e le colline di Belgrado est. Il termometro stenta a salire sopra lo zero nella capitale serba. In questo secondo fine settimana di gennaio sono previste nuove giornate di azione contro il progetto di apertura della più grande miniera di litio d'Europa (58.000 tonnellate all'anno), lanciato dal gruppo anglo-australiano Rio Tinto. Da diversi mesi migliaia di persone partecipano a manifestazioni, ma soprattutto a blocchi stradali in tutto il paese. La devastazione ambientale programmata da questo progetto minerario nella valle di Jadar è l'innesco di una «rivolta ecologica» che a poco a poco sta minacciando la stabilità del regime autocratico. E se le massicce proteste non hanno dato luogo ad ostilità più accese in un Paese particolarmente devastato dall'inquinamento industriale, il governo serbo comincia tuttavia a ritenere più prudente sospendere temporaneamente l'arrivo del colosso minerario Rio Tinto.

All’indomani di queste giornate d’azione, e mentre un pugno di attivisti lanciavano uova contro l'ufficio informazioni di Rio Tinto a Loznica, un illustre industriale francese è intervenuto a Parigi durante una piccola cerimonia organizzata nei palazzi del Ministero dell'Economia. Quel 10 gennaio, Philippe Varin ha solennemente consegnato alle autorità il suo rapporto sulla sicurezza della fornitura all’industria di materie prime minerali. Varin vanta un nutrito palmares: ha cominciato la sua carriera di industriale nei gruppi siderurgici, per diventare in seguito direttore del gruppo PSA Peugeot Citroën di cui ha guidato la ristrutturazione industriale, e poi passare al gruppo nucleare Orano (ex-Areva), di cui ha diretto la ristrutturazione in qualità di presidente del consiglio di amministrazione; sua la responsabilità della chiusura del cantiere del reattore nucleare EPR in Finlandia.

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azioni parallele

Enrique Dussel, Cinque tesi sul populismo

di Lelio La Porta

Enrique Dussel: Cinque tesi sul populismo, Castelvecchi 2021, EAN:9788832904086, p. 64, € 9

xul solarEnrique Dussel, introdotto e tradotto da Antonino Infranca, propone un saggio recente, breve, ma ricco di implicazioni destinate ad una discussione ponderata: Cinque tesi sul populismo1.

I lemmi che l’autore pone al centro dell’attenzione, a ben vedere, sono quelli che occupano le menti delle intellighenzie del mondo intero rispetto al fenomeno che appare nel titolo del libro: rappresentanza, partecipazione, ingovernabilità, democrazia, Costituzione, neoliberismo, globalizzazione, leadership, popolo, popolare; in ultimo, un termine, interpellazione, che può apparire un neologismo, in quanto ci è più familiare l’interpellanza, ma che, nella terminologia dusseliana riveste il significato del riconoscimento da parte del popolo, nel momento in cui rivendica i propri diritti, di possedere e mettere in pratica l’«autocoscienza della propria esistenza come attore collettivo»2, come chiarisce Infranca.

Le cinque tesi di Dussel possono essere sintetizzate nel modo seguente: 1) il populismo, in America latina, ha connotato positivamente i regimi che hanno avuto inizio dalla rivoluzione messicana del 1910 e si sono poi diffusi nel Continente; 2) il populismo, sempre in America latina, ha assunto un significato denigratorio nei confronti di quei governi che si sono opposti alle direttrici di controllo economico dettate dagli Usa a partire dal 1989; 3) populismo non significa né popolare né popolo; 4) con le parole dell’autore, «la democrazia reale si collega all’organizzazione effettiva della partecipazione politico-popolare»3; 5) in che modo vada esercitata la leadership onde evitare avanguardismo o dittature carismatiche.

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perunsocialismodelXXI

Cuba al bivio

Un libro a più voci sulla crisi cubana

di Carlo Formenti

gettyimages 1233929294Cuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12 è un libro (uscito nel dicembre scorso) che prende spunto dalle manifestazioni di protesta che si sono svolte in alcuni quartieri dell’Avana e in altre città cubane l’estate scorsa, per analizzare le difficoltà che il Paese socialista caraibico si trova a fronteggiare a causa della crisi pandemica e del concomitante inasprimento del bloqueo imposto dall’amministrazione degli Stati Uniti (voluto da Donald Trump e confermato dal neopresidente democratico Joe Biden). Il libro si articola in 16 capitoletti firmati da altrettanti autori (economisti, sociologi, politologi ed esponenti di altre discipline) ed è dedicato ad uno di essi, il sociologo e storico della Rivoluzione cubana Juan Valdés Paz, venuto a mancare lo scorso ottobre. In appendice il testo di un discorso tenuto dal Presidente Miguel Diaz Canel il 18 luglio 2021 e alcune interviste a intellettuali ed artisti, nonché a giovani studenti che hanno partecipato alle proteste.

I punti di vista espressi dagli autori nei sedici testi raccolti nel volume sono articolati e differenziati, per cui è praticamente impossibile riassumere il contenuto del libro. Ho quindi deciso di non stendere un banale elenco delle varie posizioni, bensì di concentrare l’attenzione sui sei contributi che mi sono parsi più stimolanti, raggruppando i temi che vi sono trattati in tre aree: (1) ricostruzione degli adempimenti del regime nei primi trent’anni di vita e delle cause che, a partire dagli anni Novanta, rischiano di metterli a rischio; e valutazione di quali riforme economiche (2) e politiche (3) potrebbero consentire di superare la crisi.

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gruppogocciagoccia

Covid, il fallimento della sinistra

di Toby Green* e Thomas Fazi

blog10Durante le varie fasi della pandemia globale, le preferenze delle persone in termini di strategie epidemiologiche si sono sovrapposte strettamente al loro orientamento politico. Da quando Donald Trump e Jair Bolsonaro hanno preso posizione contro i lockdown, nel marzo 2020, buona parte delle persone di sinistra, “radicale” o moderata che sia, si sono prodigate per aderire pubblicamente al lockdown quale strategia per la mitigazione della pandemia – e ultimamente alla logica dei lasciapassare vaccinali.

Ora, mentre i paesi di tutta Europa sperimentano restrizioni sempre più severe per i non vaccinati, i commentatori di sinistra – di solito così accesi nella difesa delle minoranze discriminate – si contraddistinguono per il loro silenzio. Come scrittori che si sono sempre posizionati a sinistra, siamo disturbati da questa svolta degli eventi. Non c’è davvero nessuna critica progressista da fare sulla messa in quarantena di individui sani, quando le ultime ricerche suggeriscono che c’è una differenza irrisoria in termini di trasmissione tra vaccinati e non vaccinati? A ben vedere, però, la risposta della sinistra al Covid appare come parte di una più profonda crisi della politica e del pensiero di sinistra – una crisi che va avanti da almeno trent’anni. Quindi è importante identificare il processo attraverso il quale questa crisi ha preso forma. Nella prima fase della pandemia – la fase dei lockdown – sono stati coloro che propendevano verso la destra culturale ed economica ad essere più propensi a sottolineare i danni sociali, economici e psicologici derivanti dalle chiusure. Nel frattempo, l’iniziale scetticismo di Trump nei confronti del lockdown ha reso questa posizione insostenibile per la maggior parte di coloro che propendono verso la sinistra culturale ed economica.

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lafionda

Un’altra narrazione è necessaria

di Pier Giorgio Ardeni

89050 grunge flags italian italy flag 2560x1707 h 1110x460 cQuesta storia recente: la politica si è smarrita

Questa era smarrita testimonia ormai con evidenza del tratto fosco che la nostra epoca ha assunto, di decadenza e passaggio. A Roma e a Glasgow, I «grandi del mondo» a confronto senza una prospettiva comune, incapaci di scelte che richiederebbero condivisione e decisione, davanti alle ferite del mondo. Il progresso tecnologico – mai come oggi tanto potente quanto fragile, perché guidato dalla ricerca dell’efficienza (del più con meno), in nome del «benessere» – appare impotente, se spogliato dal «motore» del mercato. E incapace di riparare i suoi stessi danni, provocati dall’idea che la natura, il pianeta, potesse essere «sfruttata» inesauribilmente. E la politica, che non sa più coniugare il dominio dei forti – del più «avanzato» sul più «arretrato» – con l’emancipazione dei deboli, è inerte.

La sinistra, emersa nel Novecento sulla spinta del movimento operaio e dei movimenti di liberazione, dopo aver progressivamente abbandonato l’idea di un «mondo senza classi» – plasmata sul modello sovietico che dalla curvatura staliniana in avanti era apparso vieppiù improponibile – e dopo aver convintamente sposato la prospettiva democratica, ha finito per stingersi di ogni coloritura, senza più vedere nella trasformazione la sua ragione di esistere, facendo di democrazia liberale e un capitalismo ben temperato con lo Stato del welfare i pilastri della sua azione. Il mondo, però è cambiato. Il capitalismo predatorio della globalizzazione ha portato il conflitto di classe su un altro piano, le «classi» stesse essendo mutate, e la pendenza neo-liberista ne ha segnato il definitivo dominio, cui gli antagonismi si oppongono esplodendo caotici e indeterminati. Senza trovare più nella sinistra il loro riferimento.

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sollevazione2

Vaccini, la propaganda e la realtà

di Leonardo Mazzei

capro espiatorio 1024x585Ogni settimana un giro di vite. Ogni giorno che passa una nuova proposta di restringimento delle libertà. Ogni minuto del teatrino della (dis)informazione ufficiale occupato da una caccia alle streghe che sarebbe perfino comica ove non fosse anche tragica. La ragione di questo accanimento è semplice: tanto più cresce l’evidenza del flop della strategia vaccinale, tanto meno la si vuole ammettere. Eccoci così arrivati al paradosso dello scarso funzionamento di un vaccino imputato a chi ha deciso di non farselo! Come ha ben scritto Andrea Zhok, con la costruzione mediatica della figura criminalizzante del “no vax”, i non vaccinati sono diventati il capro espiatorio cui attribuire ogni colpa.

Quando si fermeranno? Siamo ormai così abituati al peggio che questa domanda risuona perfino banale, mal posta e fuori luogo. Non si fermeranno mai, qualora si affermasse la sinistra profezia di Klaus Schwab. Più precisamente, non si fermeranno finché non verranno fermati. Ma la lotta sarà lunga e difficile e, come ha scritto Moreno Pasquinelli: “Per adesso hanno vinto loro”.

Sappiamo bene come le misure governative non abbiano alcuna funzione sanitaria, volendo invece sviluppare un nuovo modello di controllo politico e sociale. Tuttavia, l’ossessione liberticida a cui stiamo assistendo viene giustificata proprio come l’unica via di salvezza per uscire dall’epidemia. La concatenazione logica di questo ragionamento è quanto mai semplice: primo, il virus è un mostro in grado di sterminarci; secondo, solo il vaccino può fermarlo; terzo, solo un lasciapassare sempre più stringente può convincere gli ultimi riottosi alla sacra e risolutrice puntura.

Il Mostro, il Bene e il Male: questi sono i tre ingredienti tipici di una narrazione che vorrebbe essere edificante quanto definitiva. Tralasciando qui ogni considerazione sulla malattia, che esiste ma non è la peste e neppure la Spagnola, è chiaro come questo racconto si regga fondamentalmente sul secondo elemento: il “Bene” rappresentato dal vaccino, unico strumento in grado di sconfiggere il “Mostro”.

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carmilla

Classe universale o identitarismo nazionalistico?

di Sandro Moiso

Calusca City Lights e radiocane.info (a cura di), RIOT! George Floyd Rebellion 2020. Fatti, testimonianze, riflessioni, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 256, 17,00 euro

photo 1598432405152 c0a42a5a3a8aL’ultima fatica saggistica degli infaticabili compagni della Calusca City Light e delle Edizioni Colibrì di Renato Varani tocca, come al solito, un tema non soltanto d’attualità ma anche scottante, soprattutto se si considera l’assoluzione avvenuta, pochi giorni or sono, del diciottenne Kyle Rittenhouse, accusato di aver ucciso con il proprio fucile due manifestanti antirazzisti e averne ferito un terzo, a Kenosha (Wisconsin, USA), durante le proteste dell’estate del 2020 avvenute a seguito del grave ferimento del giovane afroamericano Jacob Blake, a cui la polizia aveva sparato nella stessa città, e che è ora paralizzato dalla vita in giù.

L’episodio si inserisce infatti nel clima venutosi a creare nell’America, all’epoca ancora trumpiana, infiammata dall’uccisione di George Perry Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis, in Minnesota, e dall’estendersi dell’epidemia da Covid -19 e dei contraddittori provvedimenti presi all’epoca dal governo in carica. Se, infatti, le proteste, sfociate spesso in vere e proprie rivolte urbane, avevano preso soprattutto avvio dal riproporsi in forme sempre più violente dell’oppressione razziale, è pur sempre vero che altre proteste, quasi sempre armate, si diffusero a partire da una middle class bianca delusa nelle sue aspettative di benessere e continuità dei privilegi economico-sociali cui un lungo trend imperialistico della Land of the Free l’aveva abituata per gran parte della seconda metà del secolo precedente.

Middle class spesso associabile ad una working class bianca che, negli ultimi decenni, ha visto scomparire posti di lavoro, sicurezza economica e la forte riduzione dei livelli salariali precedenti e delle forme di previdenza, per quanto anche quest’ultime legate alle forme dell’assicurazione privata.

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lafionda

Come «spiegare» il popolo neoliberale. La politica al tempo della sua polverizzazione

di Fabrizio Capoccetti

spiegare il popolo[…] come nello Judo la migliore risposta ad una mossa dell’avversario non è mai quella di rifiutare il contatto ma di riprenderlo a nostra volta, di riutilizzarlo a nostro vantaggio come base d’appoggio per la mossa seguente (Michel Foucault, 1975)

In alto, invece, l’anima canta la gloria di Dio, percorrendo le sue stesse pieghe senza mai giungere a svilupparle interamente, «poiché esse vanno all’infinito» (Gilles Deleuze, Leibniz et le Baroque, 1988)

Se si vuole avere ragione del neoliberalismo bisogna smettere di contrapporsi ad esso: ciò non significa convalidare il noto detto thatcheriano «There is no alternative», quanto piuttosto denunciarne l’assoluta mendacità, non più, però, da un punto di vista morale (spesso scambiato per politica, quella stessa politica ridotta a morale che rappresenta il più riuscito successo del neoliberalismo[1]), ma da un punto di vista dell’azione che perverte il discorso, che agisce parlando un altro linguaggio senza cambiare discorso, che parla facendo dire allo stesso discorso cose diverse. Non si tratta, dunque, di abbandonarsi all’ordine neoliberale come se non ci fosse nulla da fare, ma di fare in modo che il neoliberalismo non abbia più nulla da dire su quello che lo si costringerà a fare rendendolo disfunzionale.

Occorre concepire il terreno ontologico della lotta politica come la sostanza riletta da Deleuze che interpreta il pensiero di Leibniz[2]. La sostanza è infinita, ma è infinita in due modi, o meglio, vi sono due infiniti: quello della materia e quello dell’anima: la sostanza è fatta di pieghe, ed è sempre una piega a dividere i due infiniti.

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popoff

Tre anni dopo cosa resta dei “gilet gialli”

di Joseph Confavreux e Fabien Escalona

Schermata del 2021 11 27 12 08 59Francia, perché l’impennata dei prezzi non porta a un’esplosione sociale? Non c’è un legame meccanico tra un contesto e una mobilitazione. Inchiesta di Mediapart 

La primavera sarà calda, l’autunno sarà turbolento, l’inverno sarà incessante… Così come la retorica militante ha spesso cercato di mobilitare le sue truppe annunciando in anticipo movimenti che non sempre si sono verificati, sembra difficile spiegare l’assenza di mobilitazione quando il contesto sembra prestarsi ad essa.

La coincidenza tra i prezzi della benzina più alti che mai e il terzo anniversario della rivolta dei “gilet gialli” solleva domande sulle ragioni dell’attuale apatia sociale: la prospettiva delle elezioni presidenziali e il confronto elettorale? Specificità della mobilitazione delle rotonde troppo inedite? La portata della repressione è stata realizzata? Assenza strutturale di correlazione tra mobilitazioni sociali e condizioni socio-economiche? Effetti di coda lunga dell’epidemia di coronavirus?

Quando, il 17 novembre 2018, il movimento dei Gilet Gialli è emerso, ha colto di sorpresa gli osservatori e le autorità. Questi ultimi riuscirono a spegnerlo solo dopo molti mesi, ricorrendo contemporaneamente a un’intensa repressione e a varie procedure pseudo-deliberative. All’epoca, l’annuncio di un aumento della tassazione sul carburante ha fornito la scintilla per la mobilitazione, che è stata originale nella sua forma, nella sua sociologia e nei suoi metodi di azione. Più in generale, la questione dei vincoli di spesa è stata al centro della conversazione nazionale.

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ilrovescio

Sulla nave dei folli

di Il Rovescio

unnamedkjgh764dMai come in questo periodo ci sentiamo come il mozzo di cui parlava Theodore Kaczynski nel suo racconto La nave dei folli. La storia è nota. La nave – metafora della società tecno-industriale – sta procedendo verso degli iceberg su cui è destinata a frantumarsi. Il mozzo lancia l’allarme ai suoi compagni di viaggio, cercando di far capire loro che cambiare rotta è l’unica scelta che contiene tutte le altre (dove approdare e come cambiare i rapporti tra l’equipaggio; insomma quelle questioni di libertà, uguaglianza e solidarietà che si pongono agli umani fin da quando esistono il dominio, la gerarchia, lo sfruttamento). Il resto dell’equipaggio elenca i problemi a suo avviso ben più gravi e urgenti da risolvere: le differenze di salario, il razzismo, il sessismo, l’omofobia e la brutalità verso gli animali. Insistendo sul fatto che per cambiare la vita sulla nave è necessario che una nave ancora esista – e cioè che la priorità di cambiare rotta fa diventare secondarie tutte le altre giuste rivendicazioni – il mozzo diventa l’oggetto degli strali incrociati da parte dell’equipaggio: reazionario, specista, omofobo, sessista! Gli insulti risuonano ancora mentre la nave si frantuma contro gli iceberg e si inabissa.

Come nel precedente La società industriale e il suo avvenire (il cosiddetto manifesto di Unabomber, la cui paternità, a onor del vero, Kaczynski non ha né smentito né rivendicato) e nei successivi Colpisci dove più nuoce e Anti-tech revolution, la parte presa di mira è soprattutto la sinistra, rappresentata fino al parossismo dall’equipaggio della nave. Data la sua natura “sovra-socializzata”, riformista e progressista, la sinistra è condizionata secondo Kaczynski a diventare la principale stampella del tecno-capitalismo, il quale nasconde i propri programmi di disumanizzazione attraverso le sue seducenti promesse di superamento di ogni limite e di espansione dell’Io. Dire che ci siamo in pieno è oggi persino banale.

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lafionda

Il lavoro offeso. Lottiamo per la dignità

di Cristina Quintavalla

portuali23L’esercito francese aveva subito la più cocente delle sconfitte: l’imperatore Napoleone III era stato catturato, l’esercito prussiano era giunto sino a Parigi e aveva imposto una resa disonorevole alla Francia imperiale, che pure sembrava proiettata grazie a vent’anni di fasti e successi verso l’egemonia del continente europeo.

Il governo Thiers, nel mezzo di una devastante crisi economica, sociale, politica, chiese proprio al nemico prussiano di liberare 100.000 prigionieri di guerra per disporre delle forze necessarie per reprimere la Comune di Parigi e dare la caccia ai comunardi. Proprio così: fu ricercata un’ intesa col nemico, che aveva così sprezzantemente umiliato e messo in ginocchio la Francia, contro i lavoratori francesi in lotta.

Nemico sui campi di battaglia, ma alleato contro la classe proletaria in quella che fu definita “la settimana di sangue”, nel corso della quale fiumi di sangue irrorarono le strade parigine e la più vile caccia all’uomo fu perpetrata. La mattanza presentò il suo conto: 20.000 i morti , 7500 le condanne ai lavori forzati e le deportazioni.

Si tratta di una delle pagine più efferate della storia, ma che dovrebbe rimanere scolpita nelle nostre menti, quasi una bussola, soprattutto per coloro che si illudono sulla possibilità di conciliare gli interessi contrapposti di classi contrapposte. Di chi si illude di stringere patti sociali, accordi nel mutuo interesse, di chi farnetica di “pace sociale”, di presunte/sedicenti regole della democrazia, volte solo a camuffare la legalità borghese.

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badialetringali

Riflessioni sul PCI

di Marino Badiale

VECCHIA SEDE DEL PCI1. Introduzione.

Questo intervento espone alcune riflessioni su aspetti di fondo della storia del Partito Comunista Italiano. Si tratta di temi sui quali sono andato interrogandomi a lungo, in parte per motivi legati alla mia storia personale. Le tesi che esporrò hanno carattere ipotetico, e sottolineo questo aspetto: esse andrebbero intese come stimoli a discussioni e ricerche di tipo storico, finalizzate a corroborarle o limitarne la validità o confutarle.

La discussione svolta in questo articolo non riguarda l’intera storia del PCI, ma si concentra su quel periodo nel quale esso è effettivamente un agente storico fondamentale nella costruzione dell’Italia attuale. Si tratta del periodo che va dal 1943 (con l’inizio della Resistenza) agli anni Settanta. I pochi accenni ai primi vent’anni di vita del Partito serviranno solo per segnalare alcuni aspetti rilevanti per le mie argomentazioni. Per quanto riguarda invece la parte finale della storia del PCI, cioè gli anni Ottanta, ritengo che essa non apporti nessuna autentica novità: come cercherò di argomentare più avanti, il declino del PCI inizia negli anni Settanta e si esprime nella disgraziata politica del “compromesso storico” che il partito sceglie allora di perseguire. Gli anni Ottanta, con la scomparsa finale del partito comunista in quanto tale, sono solo la stanca conseguenza delle scelte precedenti.

 

2. Quale doppiezza?

Il periodo sul quale mi concentrerò, dall’inizio della Resistenza agli anni Settanta, è quello nel quale il PCI si radica nella realtà del nostro paese, acquista un seguito di massa e diventa il primo partito della sinistra italiana, caratteristica che, mi pare, distingue il nostro paese da ogni altro paese occidentale.

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materialismostorico

La questione nazionale e la sinistra sovranista

di Alessandro Barile (Sapienza Università di Roma)

Note attorno al libro di Michael Löwy, Comunismo e questione nazionale. Madre- patria o Madre terra?, Meltemi, Milano 2021

2012 02 05 questione nazionaleNecessario corollario del fenomeno populista dell’ultimo decennio è la questione nazionale. In qualche modo l’uno spiega l’altra e viceversa: difficile stabilire i confini, ragionare sui nessi causali, e lo scivolamento (più o meno lento, forse non inevitabile) del populismo in sovranismo esplicita il legame unificando i due concetti. Il populismo organizza in posizione politica una pulviscolare richiesta di maggiore “protezione sociale”, sia questa declinata in senso progressivo (ovvero “dal basso” delle popolazioni impoverite contro “l’alto” dei mercati globali), o in senso regressivo (recupero o difesa di un’identità da usare contro minacce esterne alla comunità locale e “sovrana”). Non per caso allora dalla crisi dei mutui sub-prime, l’ascesa di Syriza e Podemos e l’affermazione del Movimento 5 stelle in Italia (fenomeni originati in un arco di tempo che va dal 2008 al 2013), le scienze sociali e il mercato editoriale sono stati invasi da pubblicazioni attorno al tema della sovranità nazionale1. Dove è andata a situarsi in tempi di globalizzazione ed europeismo? Se una certa rassegnazione teleologica considerava inevitabili tanto questa globalizzazione quanto questo europeismo, cosa è successo quando ambedue questi processi storici sono entrati in una crisi strutturale e a quel punto considerata, altrettanto finalisticamente, come “irreversibile”? Dopo la globalizzazione non poteva che esserci un ritorno alla nazione, veniva affermato con la sicurezza di chi andava sostituendo Marx con Polanyi, così credendo di aver risolto le presunte aporie della teoria marxista. Sempre non a caso il marxismo di questo decennio è andato in confusione. Perché se la recessione economica sembrava continuare a confermare le previsioni marxiane sull’inevitabilità della crisi, il riaffacciarsi della questione nazionale ha presentato questi problemi su di un terreno scivoloso e ambiguo, collegato ad una delle principali “zone di discomfort” del pensiero marxista.

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carmilla

Dare a Cesare quel che è di Cesare

(e ai sindacati confederali quel che spetta loro)

di Sandro Moiso

1977.02.17 Cacciata di Lama segretario della Cgil dallUniversità 1Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.

Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.

Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.