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lantidiplomatico

Nessuna “fine della storia” in Ucraina

di Scott Ritter* – ConsortiumNews

180903 r32687La visione trionfalista della democrazia liberale post-Guerra Fredda di Francis Fukuyama – pubblicata nel 1989 – aveva un grosso punto cieco. Ha omesso la storia.

“Quello a cui stiamo assistendo non è solo la fine della Guerra Fredda, o il superamento di un particolare periodo della storia del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: cioè, il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione dell’Occidente, la democrazia liberale come forma finale di governo umano”.

Queste parole, sono state scritte dal politologo americano Francis Fukuyama, che nel 1989 pubblicò “The End of History”, un articolo che sconvolse il mondo accademico.

“La democrazia liberale”, scrive Fukuyama, “sostituisce il desiderio irrazionale di essere riconosciuto come maggiore degli altri con il desiderio razionale di essere riconosciuto come uguale”.

“Un mondo composto da democrazie liberali, quindi, dovrebbe avere molti meno incentivi per la guerra, dal momento che tutte le nazioni riconoscerebbero reciprocamente la legittimità delle altre. E in effetti, negli ultimi duecento anni esistono prove empiriche sostanziali del fatto che le democrazie liberali non si comportano in modo imperialistico le une verso le altre, anche se sono perfettamente in grado di entrare in guerra con stati che non sono democrazie e non ne condividono i valori fondamentali.“

Ma c'era un problema. Fukuyama ha continuato notando quanto segue:

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machina

Il rompicapo della ricomposizione dentro le rivolte della banlieue

Intervista ad Atanasio Bugliari Goggia

Schermata del 2023 09 24 17 32 29Frutto di una lunga ricerca sul campo, Atanasio Bugliari Goggia ha scritto, per i tipi di Ombrecorte, due importanti volumi sulle lotte e le organizzazioni politiche di banlieue. Dopo le rivolte di giugno è stato intervistato da diverse riviste e siti italiani, tuttavia abbiamo sentito ugualmente la necessità di interrogarlo per approfondire alcuni temi che ci sono sembrati trascurati e che invece riteniamo di primaria importanza: dal rapporto tra la composizione di classe delle rivolte e le organizzazioni politiche al problema della ricomposizione tra pezzi di proletariato metropolitano, separati da una linea del colore che alimenta le più feroci forme di razzismo. Nessuno possiede ed è in grado di praticare le soluzioni ai problemi discussi nell’intervista, tuttavia il nostro ospite ci offre un’importante indicazione: solo la forza delle lotte riesce a rendere appetibile la pratica della ricomposizione e a spezzare la linea del colore. Al contrario tutte le altre forme liberali di antirazzismo non fanno che confermare, anche se con un segno diverso, quella separazione che rappresenta il nostro principale problema politico. Con questa intervista inauguriamo, insieme alla sezione «vortex», un piccolo dossier sulla Francia in vista del dibattito con Louisa Yousfi, Houria Bouteldja e lo stesso Atanasio Bugliari Goggia, che si terrà a Bologna il 22 Settembre all’interno del «Festival Kritik 00» organizzato da Punto Input, Machina e DeriveApprodi.

* * * *

In altre interviste hai offerto una spiegazione delle rivolte inserendole nel quadro di crisi economica e sociale che ormai attanaglia da diversi lustri tutta l’Europa. È possibile individuare altri elementi che ci aiutino a comprendere il fenomeno? Ad esempio il tema dell’integrazione mi sembra un aspetto centrale, soprattutto in un paese come la Francia dove, tra le altre cose, esiste il diritto di suolo. Cosa ne pensi?

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lafionda

Una storia del conflitto politico

di Joseph Confavreux

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la traduzione, a cura di Salvatore Palidda, di un recente articolo di Joseph Confavreux. Si tratta della recensione di «Une histoire du conflit politique», di Julia Cagé e Thomas Piketty, un libro ritenuto da più parti importante perché sfida la politologia con un approccio multidisciplinare assai poco praticato

arton10102.pngNelle librerie venerdì 8 settembre, Une histoire du conflit politique (Le Seuil), a cura di Julia Cagé e Thomas Piketty, è già ai vertici delle vendite di “saggistica”. Perché questa zona arida di geografia elettorale incontra un tale successo, anche se le sue conclusioni sono raramente controintuitive e la parte esigente del mondo della ricerca ne giudica molti degli elementi sintetizzati come già noti? La risposta è dovuta solo in parte alla notorietà dei suoi autori e ai meccanismi ben rodati di una promozione che riserva al gruppo Le Monde e a Radio France il diritto di rompere l’embargo prima della pubblicazione a cui sono chiamati a resistere altri giornalisti. Il successo di pubblico e mediatico del libro è dovuto soprattutto al fatto che sono pochi i ricercatori che sperano niente meno che trovare soluzioni concrete alle disfunzioni della democrazia francese, all’impasse della vita politica del paese e alle disuguaglianze che ne minano i contorni. Il lavoro estende spesso alcune analisi e proposte già sviluppate in Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (2018) e Il prezzo della democrazia di Julia Cagé (Baldini & Castoldi, 2020).

Ancora meno numerosi sono i ricercatori che sviluppano database tanto voluminosi quanto nuovi per supportare le loro dimostrazioni – pur disponendo delle risorse finanziarie e umane. Il lavoro di Cagé e Piketty, con il sito eccezionale per accessibilità ed esaustività ad esso allegato (unehistoireduconflitpolitique.fr), costituisce infatti uno strumento che talvolta va oltre quelli della statistica pubblica.

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sinistra

Gomblotto: come le fantasie di complotto alimentano il regime

di Luca Busca

qanonExcusatio non petita, accusatio manifesta

Chiedo venia per l’uso, peraltro occasionale, della prima persona singolare. In un articolo giornalistico questo espediente finisce per svilire la presunta oggettività che l’esposizione di una notizia dovrebbe restituire. Scrivere in prima persona colloca immediatamente l’opera nel mondo immaginario della fantasia o in quello reale dell’espressione di un opinione. Il secondo caso si avvicina molto alla narrazione che segue, racconto che tecnicamente sarebbe stato difficile realizzare in modo impersonale. In secondo luogo, in considerazione della lunghezza quello che segue assomiglia più a un piccolo saggio che a un articolo.

Ciò premesso, questo lavoro costituisce l’epilogo di due articoli da me scritti per Sinistrainrete (divide-et-impera-il-grande-complotto e una-dissidenza-dissennata-dissipa-il-dissenso) in cui esprimevo una forte incredulità in merito a come una larga fetta del dissenso, creato dalla scellerata gestione della pandemia prima e della guerra poi, si perdesse dietro “complottismi” palesemente inesistenti, screditando e indebolendo la diffusione della ribellione. Mi risultava del tutto incomprensibile come si potesse ancora negli anni ’20 del terzo millennio negare l’esistenza di una questione ambientale o, in altri casi, escluderne l’origine antropica per poi imputarla alle scie chimiche chiaramente generate dall’uomo, cadendo nella trappola della reductio ad unum dei cambiamenti climatici. Non ero in grado di decifrare la permanenza del complotto giudaico massonico e del potere occulto del “Deep State” nell’area critica nei confronti del pensiero unico neoliberista. Né come potesse sopravvivere quest’aura destrorsa, conservatrice, tradizionalista e fortemente cattolica in un movimento che si definiva “anticapitalista”.

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lantidiplomatico

“Sistema di credito sociale” cinese: tutte le menzogne e le ipocrisie dell'occidente

di Leonardo Sinigaglia

720x410c50jm9uiycrh.jpgSin dall’inizio del suo primo mandato a Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping diede grande attenzione al tema della legalità, sostenendo l’unità dialettica tra il processo globale di riforma e il rafforzamento dello Stato di diritto, una visione i cui riflessi si possono notare nella lotta alla corruzione, nel rafforzamento della disciplina e nell’impegno per regolamentare il mondo digitale. Pochi mesi dopo essere stato eletto Segretario Generale, parlando ad una sessione di studio dell’Ufficio Politico, affermò come “la costruzione di una società moderatamente prospera in ogni suo aspetto [avesse] reso più forte l’esigenza di un governo secondo la legge”, rendendo necessario ottenere “una legislazione più scientifica, un’applicazione più severa della legge, un potere giudiziario più giusto e una maggiore osservanza della legge da parte di tutti i cittadini” e promuovere “un controllo, un governo e un’amministrazione dello Stato basati sulla legge, [...] uno Stato, un governo e una società fondati sul diritto, al fine di creare una nuova situazione di Stato di diritto[1]. La difesa dei cittadini da arbitrio e abusi dei funzionari, dal potere delle tangenti e dall’incertezza di un diritto non codificato si qualificavano come parti integranti di quella prosperità comune che il Partito Comunista Cinese si prefiggeva di costruire, ma allo stesso tempo lo sviluppo del principio di legalità avrebbe anche sostenuto “il solido sviluppo economico e sociale del nostro paese e [aperto] più ampi spazi di sviluppo per il socialismo con caratteristiche cinesi"[2].

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lantidiplomatico

“Io capitano”, il film di Garrone, è un falso storico

di Michelangelo Severgnini

720x410c50ytjidhkmg.jpg“L'Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà”.

Parafrasando la celebre frase di Mario Monicelli, potremmo dire: “Il Leone d’oro si vince con la bandiera blu stellata, cambiando la realtà”.

E che valga a questo punto di buon auspicio per la vittoria del Leone d’Oro per il film “Io Capitano” diretto da Matteo Garrone, se non altro.

In estrema sintesi questo lavoro è un falso storico, perché, ispirandosi alla realtà, la stravolge e soprattutto ne occulta i significati e i nessi reali che le danno forma e la riformula all’interno di una narrazione fiabesca, per altro ampiamente in voga già da un paio di decenni, che non è nemmeno edulcorazione: è puro depistaggio delle coscienze. A che pro? Al fine di lasciare tutto così com’è, per il compiacimento e la soddisfazione di Mamma Europa. 

Non sono nemmeno in grado di dare un giudizio estetico al film, perché non c’è corrispondenza tra scelte artistiche e significati espressi. Pertanto lo sfoggio estetico tutt’al più è un esercizio pirotecnico. L’arte è un’altra cosa.

Non sono nemmeno in grado di immaginare la reazione che provoca nello spettatore medio. I pochi spettatori presenti in sala del resto non mi hanno aiutato in questo: muti dall’inizio alla fine non mi sembra abbiano lasciato la sala delusi, ma nemmeno entusiasti.

Durante tutto il film appaiono qua e là spaccati realistici (segno che almeno qualcuno tra gli sceneggiatori ha fatto lo sforzo per informarsi), alternati a momenti verosimili per quanto improbabili e a lacune clamorose, personaggi della storia vera che nella storia finta non ci sono, spariti, come per effetto di un gioco di prestigio.

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domenico de simone

Ma che succede in Occidente? Perché sono diventati tutti stupidi?

di Domenico De Simone

Schermata del 2023 09 07 13 47 47.pngIl primo settembre di ogni anno in Russia si celebra la giornata della cultura e dell’istruzione. Con agosto finisce l’estate e ricomincia la scuola, e tornare a studiare è una festa. Deve essere una festa, perché conoscere, cercare, curiosare, imparare per tutta la vita, insomma il sapere, è una parte essenziale dell’umanità. La copertina del libro di Travaglio, “Scemi di guerra“, è emblematica del momento di follia generale che ha preso non solo l’Italia ma tutto l’Occidente. A proposito, consiglio vivamente di leggerlo, così come consiglio di leggere al contrario quello che viene scritto sulla guerra da media italiani, quasi tutti. Le notizie che passano, come di chiaramente Tucker Carlson in questa intervista, tradotta dall’Antidiplomatico, sono veline della disinformazione di matrice statunitense. Lui faceva il giornalista di denuncia con molto successo su Fox News, e alla fine hanno costretto l’emittente, nonostante la sua popolarità e i suoi numeri, a licenziarlo perché dava troppo fastidio al “Potere“. Carlson aggiunge che i poteri forti, quelli che contano davvero, non la marionetta Biden e il coro di minus habens che gli sta intorno, hanno già deciso di andare a fare la guerra alla Russia. E che stanno portando l’America e l’Occidente tutto alla rovina con decisioni ed azioni palesemente sbagliate e rovinose. A partire dal golpe in Ucraina del 2014, dalla decisione di mandare al potere una banda di pazzi violenti, pubblicamente e dichiaratamente nazisti, razzisti e guerrafondai, che stanno portando il popolo ucraino all’estinzione e la loro nazione alla dissoluzione. Scrivevo nel marzo del 2014 chi è stato realmente a fare il colpo di stato in Ucraina e quali fossero i reali interessi in gioco.

All’inizio della guerra facevo considerazioni sulle conseguenze economiche e politiche in palese controtendenza con il quasi unanime entusiasmo con cui era stato accolto l’invio di armi per distruggere i cattivi russi che intendevano impadronirsi del mondo. Raccontavo un’altra storia che si è in gran parte largamente verificata e il resto verrà in breve tempo.

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lantidiplomatico

Venezuela, la destra abbaia ma il popolo non la segue

di Geraldina Colotti

720x410c50moivgb.jpg“Se un cane morde un uomo non fa notizia, ma se un uomo morde un cane, sì”. La frase data del 1882, viene attribuita a John B. Bogart, caporedattore del New York Sun e viene solitamente citata nelle prime lezioni di giornalismo per introdurre i reporter al favoloso mondo dell’informazione modello nordamericano. Da quando, però, la storia, da scontro di interessi fra le classi è stata trasformata in “narrazione”, e l’informazione in una merce al servizio dei grandi oligopoli, che la gestiscono e frammentano nei centri di smistamento globale, il trucco è quello di trasformare i fatti in uno spettacolo da baraccone, occultandone l’origine e le cause, per costruire “matrici d’opinione”.

Il Venezuela, e prima ancora Cuba, esempio di resistenza e prospettiva generale, ne sono una prova: qualunque latrato, emesso ad uso mediatico dai personaggi agiti da Washington viene moltiplicato fino a sembrare, a seconda degli obiettivi – mostrare forza, commuovere o convincere - un ruggito, o il guaito di un animaletto perseguitato, o la canea minacciosa di una muta che attacca.

Lo schema si intensifica, in Venezuela, a ogni appuntamento elettorale. A cinquant’anni dal golpe in Cile dell’11 settembre 1973, l’imperialismo Usa la pensa ancora come Kissinger che così diceva qualche mese prima della vittoria di Allende alle elezioni del 1970: “Non vedo perché dobbiamo aspettare e permettere che un paese diventi comunista solo per l’irresponsabilità del suo popolo”. Un’”irresponsabilità” che il popolo venezuelano si è assunta da 25 anni, votando ripetutamente il socialismo bolivariano, e per questo continua a sopportare un assedio multiforme, tanto feroce quanto inutile, definito con il termine di “sanzioni”, ma che deve intendersi con quello di “misure coercitive unilaterali”.

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comedonchisciotte.org

Il Piano B degli Stati Uniti

di Observer R

PianoBIl termine “Piano A” è comunemente usato per indicare la strategia attuale; il termine “Piano B” definisce invece una strategia di riserva o alternativa nel caso in cui il Piano A non dovesse funzionare.

 

Piano A

Sin dai tempi dalla Guerra ispano-americana, il Piano A degli Stati Uniti (USA) è sempre stato una qualche forma di imperialismo. All’epoca (1898), negli Stati Uniti esisteva una Lega Anti-imperialista, ma non riscuoteva molto successo. Per molti anni, essere imperialisti era stato politicamente corretto, ma, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sia l’imperialismo che le colonie erano passati di moda. Alla fine, come termine sostitutivo, gli scienziati politici e gli articolisti delle riviste di relazioni internazionali avevano iniziato ad usare la parola “egemonia”. I riferimenti più generali al Piano A degli Stati Uniti utilizzavano i termini “democrazia liberale” e “ordine internazionale basato sulle regole”. I critici hanno spesso usato il termine “impero americano” per infastidire l’establishment. Negli ultimi anni, uno degli obiettivi del Piano A statunitense era stato il cambio di regime in Russia, per creare un governo simile a quello di Eltsin.

La guerra in Ucraina, come parte del Piano A degli Stati Uniti, ha avuto un lungo periodo di gestazione, con una “rivoluzione arancione” nel 2004 e un’alternanza di cambi di regime tra chi propendeva per gli Stati Uniti e chi per la Russia. Prima del 2014, il governo ucraino aveva optato per un pacchetto economico più vantaggioso da parte dell’Est (Cina e Russia) rispetto all’offerta dell’Ovest (Stati Uniti e Unione Europea).

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crs

Fuori norma. Lo “stile” operaista

Ida Dominijanni intervista Mario Tronti

mario tronti 900x600 1“Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”, scrisse Mario Tronti in una breve autobiografia filosofica del 2008 che conteneva tutte le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt’intero il suo percorso al di là dell’icona del “padre dell’operaismo italiano” cui il successo internazionale di “Operai e capitale” lo ha consacrato. Quell’icona, certo, gli apparteneva, eppure non mancava di irritarlo quando faceva velo al resto e al seguito della sua ricerca: il pensiero negativo e la cultura della crisi, l’autonomia del politico e il corpo a corpo con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, il confronto con il pensiero teologico e mistico, e, dopo l’’89-‘91, il pensiero della fine – fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna – che, in polemica con le letture democratico-progressiste del cambio di stagione, apre il fronte della critica trontiana della democrazia politica. In questa intervista – una delle molte – che facemmo per “il manifesto” (20/06/2006) in occasione della ripubblicazione di “Operai e capitale” quarant’anni dopo la sua prima uscita, Tronti ripensa l’esperienza operaista non come scuola ma come stile di pensiero, ne restituisce la dimensione collettiva e ne ricostruisce i nessi inscindibili con il proprio percorso filosofico e politico successivo.

* * * *

Operai e capitale”, che in questi giorni viene riproposto da Deriveapprodi quarant’anni dopo la sua uscita einaudiana nel ’66, è considerato il libro di culto dell’operaismo. In poche parole, proviamo a restituire il messaggio e la dirompenza di quel libro?

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lacausadellecose

L’incubo e il sogno di una notte di mezza estate

di Michele Castaldo

John Henry Fuseli The NightmareChissà cosa pensava William Shakespeare mentre scriveva Sogno di una notte di mezza estate, di sicuro, nonostante la fase storica fosse ascendente, sarà stato meno sognatore di certi personaggi dei nostri giorni, mentre l’umanità vede e vive l’approssimarsi della catastrofe e si contorce intuendo che non c’è soluzione ad essa. Ci sbagliamo? Proviamo a ragionare.

Sul Corriere della sera, l’11 luglio, Maurizio Ferrara in Green Deal, Il clima e la posta in gioco, annota genuinamente un concetto di una donnetta che va per la maggiore in questo periodo, che da grande “sorella d’Italia” è americana che più di tanto non si può, e che dice, a proposito di allarme climatico e necessità di trasformazioni radicali: «Non possiamo smantellare la nostra economia e le nostre imprese», alla maniera Pirandelliana: «Così è (se vi pare!)».

Dal momento che la donnetta che si atteggia a grande statista, e parla prendendo dalla tasca le parole, c’è chi in modo più “responsabile” cerca di riflettere cosa comporterebbe – ammesso e non concesso che la cosa fosse possibile – una sorta di riconversione industriale generalizzata, definita de-carbonizzazione, quali rischi per i livelli occupazionali, il welfare e via dicendo.

Antonio Polito – sempre sul Corriere della sera - dedica due articoli, il 13 luglio, Per l’Europa il nuovo confine è la “questione verde” e il 19 luglio con “Apocalittici “ e “Indifferenti” L’impossibile dialogo sul clima, arrampicandosi sugli specchi suggerisce una razionalità tra il negazionismo e il catastrofismo. Insomma per la prima volta nella storia del modo di produzione capitalistico, in Occidente, e non solo, si parla di approssimarsi alla catastrofe per l’azione dell’uomo e il suo rapporto con i mezzi di produzione.

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ilpungolorosso

“Dobbiamo radicalizzarci”

La Izquierda Diario intervista Ricardo Antunes

Riprendiamo da La Izquierda Diario un’interessante, molto lucida intervista di Ricardo Antunes, in cui Antunes non si limita a trattare con la nota competenza i temi dello sfruttamento del lavoro salariato e a ribadire la critica senza appello delle teorie della “società post-industriale”, del “capitalismo digitale” o del “capitalismo della conoscenza”, ma esprime con nettezza l’impossibilità di riformare il capitalismo e la necessità urgente (oggi l’alternativa è “il socialismo o la fine dell’umanità”) di formulare una prospettiva rivoluzionaria radicalizzando il proprio pensiero al modo dei rivoluzionari russi del 1917. Ecco perché abbiamo modificato il titolo dell’intervista che ci sembra troppo limitativo ridurre al tema, pur assai rilevante, della riduzione drastica dell’orario di lavoro privilegiato dai redattori del blog argentino. (Red.)

ricardo antunesAbbiamo intervistato Ricardo Antunes, professore di Sociologia del lavoro presso l’Istituto di Filosofia e Scienze Umane dell’Università Statale di Campinas, Brasile. Autore di diversi libri, tra cui I sensi del lavoro, Trabajo y Capitalismo, Addio al lavoro?; ha curato anche la pubblicazione di Riqueza e miséria do trabalho no Brasil, Vol. I, II e III (Boitempo). Coordina le Collezioni Mundo do trabalho (Boitempo) e Trabalho e emancipação (Ed. Expressão Popular). Collabora a riviste accademiche nel suo paese e all’estero, ed è membro del comitato consultivo della rivista Herramienta.

In questa intervista facciamo un quadro della situazione attuale della classe operaia di fronte alle vecchie e nuove teorie del post-capitalismo, della società post-industriale e della “fine del lavoro”. Analizziamo la crescita esponenziale della precarietà, di pari passo con l’esternalizzazione imposta dal neoliberismo, la cui versione più moderna si può vedere nel cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”. Di fronte a questa situazione, Antunes offre la sua visione della lotta per la diversa distribuzione del tempo di lavoro in chiave anti-capitalista e si esprime su quale progetto e quale strategia dovrebbe avere una sinistra autenticamente rivoluzionaria a fronte di sinistre considerate progressiste che salgono al potere con un discorso di cambiamento per poi finire ad essere semplici amministratrici del capitalismo attraverso l’apparato statale.

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comedonchisciotte.org

Il falò delle vanità

di Alastair Crooke

photo 5296382708710230495 y 1 930x520 1 750x430L’arroganza consiste nel credere che una narrazione artificiosa possa, di per sé, portare alla vittoria. È una fantasia che ha attraversato tutto l’Occidente, soprattutto a partire dal XVII secolo. Recentemente, il Daily Telegraph ha pubblicato un ridicolo video di nove minuti in cui si sostiene che “le narrazioni vincono le guerre” e che le battute d’arresto in uno scenario bellico sono un fatto accidentale: ciò che conta è avere un filo narrativo unitario articolato, sia verticalmente che orizzontalmente, lungo tutto lo spettro – dal soldato delle forze speciali sul campo fino all’apice del vertice politico.

Il succo è che “noi” (l’Occidente) abbiamo una narrativa irresistibile, mentre quella della Russia è “goffa”, quindi, è inevitabile che gli Stati Uniti vincano.

È facile deriderla, ma possiamo comunque riconoscere in essa una certa sostanza (anche se questa sostanza è un’invenzione). La narrazione è ormai il modo in cui le élite occidentali immaginano il mondo. Che si tratti dell’emergenza pandemica, del clima o dell’Ucraina, tutte le “emergenze” sono ridefinite come “guerre”. E tutte sono "guerre” che devono essere combattute con una narrazione unitaria e obbligatoria di “vittoria”, contro la quale è vietata ogni opinione contraria.

L’ovvio difetto di questa arroganza è che richiede di essere in guerra con la realtà. All’inizio il pubblico è confuso, ma, man mano che le menzogne proliferano e si stratificano, la narrazione si separa sempre di più dalla realtà, anche se le nebbie della disonestà continuano ad avvolgerla. Lo scetticismo del pubblico si fa strada. Le narrazioni sul “perché” dell’inflazione, sul fatto che l’economia sia o no sana, o sul perché dobbiamo entrare in guerra con la Russia, iniziano a perdere colpi.

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comuneinfo

Un anatema per il femminismo

di Clare Daly

BB 380x200«Il femminismo è stato spietatamente cooptato dal complesso industriale militare…. Ma la guerra e il militarismo sono un anatema per il femminismo…. Chiunque sostenga un “militarismo femminista” sta abusando del femminismo, sta sfruttando spietatamente gli anni di lavoro e impegno femminista…. La Nato sembra aver preso una decisione molto calcolata di commercializzarsi in modo diverso, e il linguaggio dell’uguaglianza di genere era proprio ciò di cui aveva bisogno…. Ma non esiste militarismo femminista. Puoi incollare un paio di pinne a un cane e chiamarlo pesce, ma è pur sempre un cane, anche se ha un aspetto piuttosto stupido…. Tutto questo è profondamente, profondamente distruttivo. È anche incredibilmente cinico, assolutamente osceno. Ma è quello che fanno i capitalisti. Prendono tutto ciò che è buono e lo riducono in polvere…. Quindi non possiamo essere timide su questo….». Dal discorso di Clare Daly, parlamentare europea irlandese (gruppo Gue/Ngl), durante le giornate di protesta internazionale promosse a Bruxelles dal 6 al 9 luglio dalle Donne globali per la pace.

Le giornate di protesta internazionale promosse dalle Donne globali per la pace, che si sono svolte a Bruxelles dal 6 al 9 luglio, hanno preso avvio dalla presentazione della Dichiarazione al parlamento europeo da parte di Skevi Koukouma (Segreteria generale del movimento delle donne POGO) e di Ulla Klotzer (Women for Peace Finland). Nelle pagine che seguono si può leggere in traduzione italiana il discorso della deputata irlandese Clare Daly del gruppo Gue/Ngl (a sinistra nella fotografia), dedicato al tema della inconciliabilità del militarismo con il femminismo. Un puntuale resoconto degli eventi dei giorni successivi sarà pubblicato su Comune-info a breve. [Bruna Bianchi]

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materialismostorico

La democrazia dei signori

Recensione di Alessia Franco

Luciano Canfora: La democrazia dei signori, Laterza, Roma/Bari 2022, 88 pp., Isbn 9788858147405.

1200px Evening on Karl Johan StreetL’agile volume di Canfora tenta di offrire una analisi della deriva politica (e culturale) italiana, precisando quanto sia complessa la congiuntura che la determina: trasformazioni strutturali ed economiche, nonché di autopercezione da parte dei differenti e compositi strati sociali; equilibrismi istituzionali tra la dimensione delle singole sovranità nazionali e di quanto, più in alto, l’Europa “ci chiede”; la presunta esigenza di snellire le normali procedure costituzionali tendendo, attraverso eccezioni sempre più frequenti e consoli­date - complice la prolungata situazione di emergenza determinata dalla pandemia di Covid-19 - di accentramento di potere legislativo nelle mani dell’esecutivo; l’intreccio amaro di propositi e necessità, come far funzionare l’apparato dello Stato e tutti i settori pubblici mentre, nel contempo, ci viene imposto di tagliare la spesa pubblica e smantel­lare quanto resta dello Stato sociale, considerato insieme alla Costituzione un asfittico residuo di altre epoche. La chiave di lettura che Canfora tiene presente e sovente ricorda a chi legge, è la complessa relazione tra la dimensione nazionale e quella internazionale del problema politico; la causa occasionale dell’analisi è offerta dal governo Draghi, e dall’anomalia, gravida di implicanze e conseguenze, che esso ha costituito rispetto al no­stro quadro costituzionale.

Tra le categorie politiche che Canfora mette in discussione teoricamente e poi dimostra insufficientemente realizzate nella pratica contemporanea, c’è quella del “suffragio uni­versale”.