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ilpungolorosso

“Dobbiamo radicalizzarci”

La Izquierda Diario intervista Ricardo Antunes

Riprendiamo da La Izquierda Diario un’interessante, molto lucida intervista di Ricardo Antunes, in cui Antunes non si limita a trattare con la nota competenza i temi dello sfruttamento del lavoro salariato e a ribadire la critica senza appello delle teorie della “società post-industriale”, del “capitalismo digitale” o del “capitalismo della conoscenza”, ma esprime con nettezza l’impossibilità di riformare il capitalismo e la necessità urgente (oggi l’alternativa è “il socialismo o la fine dell’umanità”) di formulare una prospettiva rivoluzionaria radicalizzando il proprio pensiero al modo dei rivoluzionari russi del 1917. Ecco perché abbiamo modificato il titolo dell’intervista che ci sembra troppo limitativo ridurre al tema, pur assai rilevante, della riduzione drastica dell’orario di lavoro privilegiato dai redattori del blog argentino. (Red.)

ricardo antunesAbbiamo intervistato Ricardo Antunes, professore di Sociologia del lavoro presso l’Istituto di Filosofia e Scienze Umane dell’Università Statale di Campinas, Brasile. Autore di diversi libri, tra cui I sensi del lavoro, Trabajo y Capitalismo, Addio al lavoro?; ha curato anche la pubblicazione di Riqueza e miséria do trabalho no Brasil, Vol. I, II e III (Boitempo). Coordina le Collezioni Mundo do trabalho (Boitempo) e Trabalho e emancipação (Ed. Expressão Popular). Collabora a riviste accademiche nel suo paese e all’estero, ed è membro del comitato consultivo della rivista Herramienta.

In questa intervista facciamo un quadro della situazione attuale della classe operaia di fronte alle vecchie e nuove teorie del post-capitalismo, della società post-industriale e della “fine del lavoro”. Analizziamo la crescita esponenziale della precarietà, di pari passo con l’esternalizzazione imposta dal neoliberismo, la cui versione più moderna si può vedere nel cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”. Di fronte a questa situazione, Antunes offre la sua visione della lotta per la diversa distribuzione del tempo di lavoro in chiave anti-capitalista e si esprime su quale progetto e quale strategia dovrebbe avere una sinistra autenticamente rivoluzionaria a fronte di sinistre considerate progressiste che salgono al potere con un discorso di cambiamento per poi finire ad essere semplici amministratrici del capitalismo attraverso l’apparato statale.

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comedonchisciotte.org

Il falò delle vanità

di Alastair Crooke

photo 5296382708710230495 y 1 930x520 1 750x430L’arroganza consiste nel credere che una narrazione artificiosa possa, di per sé, portare alla vittoria. È una fantasia che ha attraversato tutto l’Occidente, soprattutto a partire dal XVII secolo. Recentemente, il Daily Telegraph ha pubblicato un ridicolo video di nove minuti in cui si sostiene che “le narrazioni vincono le guerre” e che le battute d’arresto in uno scenario bellico sono un fatto accidentale: ciò che conta è avere un filo narrativo unitario articolato, sia verticalmente che orizzontalmente, lungo tutto lo spettro – dal soldato delle forze speciali sul campo fino all’apice del vertice politico.

Il succo è che “noi” (l’Occidente) abbiamo una narrativa irresistibile, mentre quella della Russia è “goffa”, quindi, è inevitabile che gli Stati Uniti vincano.

È facile deriderla, ma possiamo comunque riconoscere in essa una certa sostanza (anche se questa sostanza è un’invenzione). La narrazione è ormai il modo in cui le élite occidentali immaginano il mondo. Che si tratti dell’emergenza pandemica, del clima o dell’Ucraina, tutte le “emergenze” sono ridefinite come “guerre”. E tutte sono "guerre” che devono essere combattute con una narrazione unitaria e obbligatoria di “vittoria”, contro la quale è vietata ogni opinione contraria.

L’ovvio difetto di questa arroganza è che richiede di essere in guerra con la realtà. All’inizio il pubblico è confuso, ma, man mano che le menzogne proliferano e si stratificano, la narrazione si separa sempre di più dalla realtà, anche se le nebbie della disonestà continuano ad avvolgerla. Lo scetticismo del pubblico si fa strada. Le narrazioni sul “perché” dell’inflazione, sul fatto che l’economia sia o no sana, o sul perché dobbiamo entrare in guerra con la Russia, iniziano a perdere colpi.

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comuneinfo

Un anatema per il femminismo

di Clare Daly

BB 380x200«Il femminismo è stato spietatamente cooptato dal complesso industriale militare…. Ma la guerra e il militarismo sono un anatema per il femminismo…. Chiunque sostenga un “militarismo femminista” sta abusando del femminismo, sta sfruttando spietatamente gli anni di lavoro e impegno femminista…. La Nato sembra aver preso una decisione molto calcolata di commercializzarsi in modo diverso, e il linguaggio dell’uguaglianza di genere era proprio ciò di cui aveva bisogno…. Ma non esiste militarismo femminista. Puoi incollare un paio di pinne a un cane e chiamarlo pesce, ma è pur sempre un cane, anche se ha un aspetto piuttosto stupido…. Tutto questo è profondamente, profondamente distruttivo. È anche incredibilmente cinico, assolutamente osceno. Ma è quello che fanno i capitalisti. Prendono tutto ciò che è buono e lo riducono in polvere…. Quindi non possiamo essere timide su questo….». Dal discorso di Clare Daly, parlamentare europea irlandese (gruppo Gue/Ngl), durante le giornate di protesta internazionale promosse a Bruxelles dal 6 al 9 luglio dalle Donne globali per la pace.

Le giornate di protesta internazionale promosse dalle Donne globali per la pace, che si sono svolte a Bruxelles dal 6 al 9 luglio, hanno preso avvio dalla presentazione della Dichiarazione al parlamento europeo da parte di Skevi Koukouma (Segreteria generale del movimento delle donne POGO) e di Ulla Klotzer (Women for Peace Finland). Nelle pagine che seguono si può leggere in traduzione italiana il discorso della deputata irlandese Clare Daly del gruppo Gue/Ngl (a sinistra nella fotografia), dedicato al tema della inconciliabilità del militarismo con il femminismo. Un puntuale resoconto degli eventi dei giorni successivi sarà pubblicato su Comune-info a breve. [Bruna Bianchi]

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materialismostorico

La democrazia dei signori

Recensione di Alessia Franco

Luciano Canfora: La democrazia dei signori, Laterza, Roma/Bari 2022, 88 pp., Isbn 9788858147405.

1200px Evening on Karl Johan StreetL’agile volume di Canfora tenta di offrire una analisi della deriva politica (e culturale) italiana, precisando quanto sia complessa la congiuntura che la determina: trasformazioni strutturali ed economiche, nonché di autopercezione da parte dei differenti e compositi strati sociali; equilibrismi istituzionali tra la dimensione delle singole sovranità nazionali e di quanto, più in alto, l’Europa “ci chiede”; la presunta esigenza di snellire le normali procedure costituzionali tendendo, attraverso eccezioni sempre più frequenti e consoli­date - complice la prolungata situazione di emergenza determinata dalla pandemia di Covid-19 - di accentramento di potere legislativo nelle mani dell’esecutivo; l’intreccio amaro di propositi e necessità, come far funzionare l’apparato dello Stato e tutti i settori pubblici mentre, nel contempo, ci viene imposto di tagliare la spesa pubblica e smantel­lare quanto resta dello Stato sociale, considerato insieme alla Costituzione un asfittico residuo di altre epoche. La chiave di lettura che Canfora tiene presente e sovente ricorda a chi legge, è la complessa relazione tra la dimensione nazionale e quella internazionale del problema politico; la causa occasionale dell’analisi è offerta dal governo Draghi, e dall’anomalia, gravida di implicanze e conseguenze, che esso ha costituito rispetto al no­stro quadro costituzionale.

Tra le categorie politiche che Canfora mette in discussione teoricamente e poi dimostra insufficientemente realizzate nella pratica contemporanea, c’è quella del “suffragio uni­versale”.

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labottegadelbarbieri

L'arma più letale della Nato? L'informazione di guerra

di Giorgio Ferrari

centrale zaporizhzhia ftg 1 640x427 1La campagna di disinformazione sui danneggiamenti alle infrastrutture civili presenti in territorio ukraino non conosce sosta da parte di quasi tutti i paesi aderenti alla Nato, con l’Italia in testa. A tenere banco sono, ancora una volta, la diga di Kakhovska e la centrale nucleare di Zaporizhzhia per le quali si addebita ai russi ogni responsabilità per quanto già accaduto o che potrebbe ancora accadere.

 

Diga di Kakhovska

A dare manforte all’accusa di ecocidio verso la Russia per aver distrutto la diga di Kakhovska, sono recentemente intervenuti il New York Times e Greta Thunberg.

Il più noto quotidiano del mondo si è spinto a scrivere un articolo dal titolo “Perché le prove suggeriscono che la Russia abbia fatto saltare in aria la diga di Kakhovka”1, dove invece che delle “prove” si esibiscono una serie di congetture che dovrebbero avvalorare l’assunto del titolo.

Si comincia con l’affermare che la diga in questione, essendo stata costruita dall’ Urss nel periodo della guerra fredda, fu concepita per resistere a qualsiasi attacco esterno: ergo nessun bombardamento avrebbe potuto abbatterla.

Conseguentemente la sua distruzione non può che essere avvenuta con delle mine appositamente collocate nei punti deboli della diga e siccome il progetto originario era russo, solo i russi possono sapere dove si trovano questi punti deboli che l’articolo del NYT individua nel cunicolo di ispezione del basamento della diga.

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lantidiplomatico

Hanno mentito sull'Afghanistan. Hanno mentito sull'Iraq. E stanno mentendo sull'Ucraina

di Chris Hedges - ScheerPost

5259bb92b8ceac22060944111e437ba4 XLIl manuale che gli sfruttatori della guerra usano per attirarci in un fiasco militare dopo l'altro, che include Vietnam, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e ora Ucraina, non cambia. La libertà e la democrazia sono minacciate. Il male deve essere sconfitto. I diritti umani devono essere protetti. È in gioco il destino dell'Europa e della NATO, nonché di un "ordine internazionale basato sulle regole". La vittoria è assicurata.

Anche i risultati sono gli stessi. Le giustificazioni e le narrazioni vengono smascherate come bugie. Le previsioni ottimistiche sono false. Coloro per conto dei quali si suppone che stiamo combattendo sono tanto venali quanto quelli contro cui stiamo combattendo. 

L'invasione russa dell'Ucraina è stata un crimine di guerra, anche se provocato dall'espansione della NATO e dal sostegno degli Stati Uniti al colpo di Stato "Maidan" del 2014, che ha spodestato il presidente ucraino democraticamente eletto Viktor Yanukovych. 

Yanukovych voleva l'integrazione economica con l'Unione Europea, ma non a spese dei legami economici e politici con la Russia. La guerra si risolverà solo attraverso negoziati che consentano all'etnia russa in Ucraina di avere autonomia e la protezione di Mosca, nonché la neutralità ucraina, il che significa che il Paese non può entrare nella NATO. Più questi negoziati verranno ritardati, più gli ucraini soffriranno e moriranno. Le loro città e infrastrutture continueranno a essere ridotte in macerie.

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lacausalitadelmoto

Minneapolis chiama Nanterre, la Francia risponde: il caos e l’onda

di Alessio Galluppi

nanterreNanterre, sobborgo di 90 mila anime a Nord Ovest di Parigi, iper marginalizzata, povera, violenta, criminosa, precaria. Roccaforte per anni del Front National (ora Rassemblement National) di Le Pen. Sempre meno “Francia Europea” e sempre più Francia variegatamente Africana. Nanterre e la Francia in una mattina di fine giugno diventa improvvisamente Atlanta, Chicago, Ferguson, Minneapolis.

Nahel, 17 anni, viene ucciso con spietata freddezza a un posto di blocco della polizia. L’omicidio ha tutte le sembianze di una esecuzione: stop del veicolo da parte di poliziotti in motocicletta; pistola alla tempia di Nahel alla guida; le grida dei poliziotti; prima un colpo alla testa con il calcio della pistola; Nahel sbatte contro lo sterzo, il piede scivola via dalla frizione, l’auto già ferma si impenna di quel poco; un secondo colpo, ma dal lato della canna della pistola viene sparato per fermare la fuga del pericoloso ragazzo francese dalla faccia poco Europea e troppo Algerina; Nahel colpito al petto muore.

Nahel Francese figlio di discendenti Algerini, ammazzato come tanti giovani afroamericani dalla polizia in America. La Francia si infiamma e soprattutto si lacera profondamente come stiamo assistendo in questi giorni.

Il solo razzismo sistemico capitalista dell’Occidente colonialista e imperialista non basta a spiegare questa esecuzione a morte sul posto. Così come l’improvvisa ribellione che ne è seguita solo in parte trova la sua radice nella materialità di un futuro precario per le nuove generazioni di francesi figli della immigrazione extra europea.

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contropiano2

Prigožin e la “Wagner”: fu vero golpe?

di Fabrizio Poggi

prigozin vero golperLa situazione verificatasi con la sollevazione dei caporioni della “Wagner” è intricata. Inutile e controproducente azzardare ipotesi: di regola, non ci si azzecca mai. Più prudente attenersi ai fatti. E i fatti sono ormai a conoscenza di tutti, mentre sui media liberal-atlantisti si sprecano le “interpretazioni”, tutte giocate sul tema “la fine di Putin”.

Per quanto ci riguarda, però, molto ma molto rimpiattato in un angolino della mente, risuona un qualcosa di déjà vu: per la precisione, l’agosto del 1991. Trentadue anni fa, nei tre giorni che l’acume liberale continua tutt’oggi a definire “golpe”, non venne sparato un solo colpo.

A quanto pare nemmeno il 24 giugno 2023, se si escludono gli episodi di scontri tra “wagneriani” e esercito nel periodo precedente la “sollevazione”. Sicuramente, così come nel 1991 si venne a sapere del “gioco delle parti” tra Mikhail Gorbačëv e gli otto “gekačepisti” soltanto diversi mesi dopo le giornate d’agosto, anche questa volta la realtà dei fatti farà capolino solo tra un po’ (o molto) di tempo.

Nessun fatto testimonia della verosimiglianza di una tale ipotesi; e, però, è dura da scacciare la sensazione che Evgenij Prigožin abbia reso un servizio a Vladimir Putin e il presidente, che ancora al mattino prometteva una «dura punizione» per i rivoltosi, nel pomeriggio ha consentito all’uscita indisturbata del wagneriano verso la Bielorussia.

Un po’ presto anche per definire con esattezza quali diverse cordate del capitale russo (e non solo) siano dietro agli uni e agli altri protagonisti delle attuali vicende e quali obiettivi strategici perseguano.

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sinistra

Sembrava un trono

di lorenzo merlo

 bvjkleTaci stupido! Non sai chi sono io.

Amazzonia

In seguito a un recente incidente aereo (1), quattro bambini tra i tredici e un anno sono sopravvissuti quaranta giorni da soli nella giungla amazzonica. A chi li ha trovati hanno raccontato che si sono nutriti secondo quanto aveva insegnato loro la nonna.

Ecco, per adesso, tenere a mente la nonna.

 

Russia o Tronista 1

C’è chi la nonna non l’ha avuta. Al suo posto gli è capitato una specie di algoritmo, una di quelle cose o bianche o nere, un codice binario dove la via dello stampino è segnata, dove l’arlecchino della vita prende bastonate di santa ragione, con somma soddisfazione dei proboviri – individui dal nullo eros – che, armati del nerbo intrecciato di scientismo e diritto, ci vengono a dire come stanno veramente le cose. Lo fanno con la tranquillità che il sapere tecnico, scambiato per conoscenza superiore, credono permetta loro.

Così, dal trono della ragione e del diritto dileggiano chi riconosce le ragioni di Putin e la causa Natorale della guerra – oltre due terzi del mondo –, e comunque quelli che non ne possono più delle esportazioni in doppio petto e armi in pugno di qualunque merda si voglia.

Rivolgendosi a questi, il tronista, inetto a cogliere l’humus d’insieme, prodromo del presente, non esita sarcasticamente a sostenere pochezze, come se il tempo fosse iniziato il febbraio scorso:

  • dunque, chi provoca – a insindacabile giudizio dell’aggressore Putin – merita una reazione anche violenta. E se l’aggredito reagisce, è terrorismo;

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alternative

Realismo utopico: un ossimoro per ricostruire la sinistra

di Alfonso Gianni

9788869440588 0 536 0 75Eppur si muove! Il Dragone cinese che pareva sornionamente adagiato in disparte in attesa degli andamenti della guerra russo-ucraina, ha affondato una zampata che ha messo in agitazione il quadro politico internazionale. Il tutto a poche settimane di distanza dal Summit del G7 che si terrà ad Hiroshima il 19 maggio e che, secondo i bene informati1, si dispone a redigere un documento assai severo contro le mire di Pechino su Taiwan. Da qui anche l’importanza che viene attribuita alla missione navale italiana negli Stretti di Taiwan, chiesta dagli Usa e che il governo Meloni si sta preparando ad esaudire. “Washington chiama, Roma risponde”, scrive compiaciuto un organo online delle nostre forze armate e di polizia.2 Al contempo la scelta della sede del prossimo G7 è emblematica e testimonia quanto il pericolo di una precipitazione nucleare del conflitto in corso in Europa aleggi sopra la testa dei grandi della terra, anche se i loro atti si muovono esattamente nella direzione opposta ad evitarlo.

La mossa cinese è consistita in una telefonata definita “lunga e significativa” fra Xi Jimping e Volodymir Zelensky. L’evento era atteso e promesso. Tuttavia non ha mancato di originare reazioni irritate e sollevare diversi interrogativi. La tesi secondo la quale si sia trattato di una semplice conversazione telefonica che non si nega a nessuno non regge al più superficiale esame delle circostanze. Come è del tutto inconsistente l’interpretazione che si tratterebbe di un gesto riparatore di Pechino, dopo lo scivolone di Lu Shaye, ambasciatore cinese in Francia, il quale si sarebbe lasciato andare, durante un’intervista alla televisione francese Lci verso la fine di aprile, a dichiarazioni effettivamente imbarazzanti come sostenere che "i Paesi dell'ex Unione Sovietica non hanno uno status effettivo ai sensi del diritto internazionale, perché non esiste un accordo internazionale per concretizzare il loro status di Paese sovrano".3

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contropiano2

“Ingerenza liberale”, autodeterminazione e realismo nelle relazioni internazionali

di Redazione Contropiano - Domenico Caldaralo*

ingerenza autodeterminazione realismoSiamo sempre alla ricerca di qualche bagliore di intelligenza in questi tempi cupi. Una guerra che rischia in ogni momento di diventare mondiale e nucleare (i due termini sono ormai sinonimi) ci viene “narrata” dal sistema dei media – con poche e dunque lodevolissime eccezioni – come uno scontro biblico tra “democrazie” e “autocrazie”. Mettendo decisamente sotto il tappeto sia gli interessi economici, sia le palesi incongruenze di queste definizioni.

Senza alcuna voglia di scherzarci sopra, bisognerebbe ricordare che l’”autocrazia” russa tiene regolarmente elezioni a tutti i livelli (da quelli federali a quelli locali), è presente un largo numero di partiti concorrenti (tra cui anche alcuni partiti comunisti), anche se – certamente – il vincitore da oltre venti anni (Putin, insomma) esercita il suo potere con un notevole autoritarismo. Si voterà l’anno prossimo, per esempio, e non è detto che Putin vinca ancora una volta…

Ma bisognerebbe anche ricordare che la “democratica” Ucraina attuale viene invece da un golpe (Majdan, 2014) che ha rovesciato il governo democraticamente eletto, permesso massacri come quello nel Palazzo dei Sindacati ad Odessa, e messo fuorilegge tutti i partiti di opposizione (dodici!).

Oltre, come tutti sanno – persino Emanuele Parsi (vedi l’incipit di un suo articolo pre-guerra, quando era solo il Donbass sotto le bombe) – a promuovere i nazisti in ogni ambito della vita nazionale (dal governo parsi ucraina 2015all’esercito).

Ma chi lo ricorda ora viene immediatamente indicato come “putiniano”, anche se magari (come noi) ha passato gli ultimi decenni a denunciarne le malefatte, fin da quando – nominato da Eltsin – contribuì alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Un briciolo di intelligenza, e quindi di riconoscimento/indagine della realtà oggettiva, è invece assolutamente necessario se si vuole almeno provare a capire qualcosa di come sta andando il mondo di questi tempi.

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lafionda

Verso l’economia di guerra

di Alessandro Somma

russia ukraine warLe conseguenze della guerra non sono solo quelle visibili a occhio nudo, quelle denunciate dalle innumerevoli immagini che raccontano la tragica quotidianità di chi sopravvive e muore sotto le bombe. Non sono da meno gli effetti su chi viene apparentemente risparmiato dal conflitto perché vive in Paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti. Semplicemente sono meno riconoscibili, sebbene coinvolgano il complessivo modo di stare insieme come società e in ultima analisi i fondamenti di quanto siamo soliti chiamare Occidente.

A mutare profondamente è l’ordine politico: la guerra richiede decisioni rapide e unanimi, a monte processi deliberativi opachi, e questo incide profondamente sulla qualità della democrazia, che vive al contrario di conflitti, di tempi scanditi dai ritmi della partecipazione e soprattutto di trasparenza. E anche l’ordine economico viene travolto: la produzione di armamenti e altri beni funzionali al conflitto deve procedere con modalità per certi aspetti incompatibili con il capitalismo, che tra i propri fondamenti vanta l’avversione verso il dirigismo e la pianificazione, utile invece a concentrare lo sforzo produttivo.

La guerra introduce insomma uno stato di eccezione, a ben vedere incrementando dinamiche che hanno preceduto il conflitto in corso[1]. Questo incide invero su un ordine politico e un ordine economico già pregiudicati dalla pandemia, e ancora prima dalle crisi economico finanziarie che hanno scosso il pianeta a partire dal 2008. Forse la novità dell’attuale stato di eccezione si coglie al meglio considerando una deriva che non era finora emersa con la stessa nettezza con cui si sta mostrando ora: la transizione verso l’economia di guerra, ovvero «un sistema di produzione, mobilitazione e allocazione di risorse finalizzate al sostegno della violenza»[2].

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cumpanis

Relazione introduttiva all’Assemblea di costituzione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”

di Alessandro Volponi*

LOGO LOSURDO 1024x320Si svolge questo nostro incontro sullo sfondo di un Paese segnato da una decadenza pluridecennale, nel corso della quale conformismo e opportunismo sono dilagati ben oltre l’orto della politica politicante. Non mancano, però, focolai di rivolta o movimenti monotematici che perseguono obbiettivi sacrosanti, episodi straordinari di protagonismo operaio (GKN) e minuscoli partiti antisistema invisibili e immobili, insomma “non tutto è di plastica, qualcosa ancora freme, frigge” per dirla con Paolo Volponi, ma il panorama è desolante e, apparentemente, senza via d’uscita. Costituire un Centro Studi intitolato a un grande del marxismo, fondato su inequivocabili premesse teoriche, mirato a socializzare conoscenze, a proporre temi di ricerca e a preparare, in definitiva, un programma di alternativa di società, è un progetto ambizioso e impegnativo che va realizzato con umiltà e tenacia.

“Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l’azione concreta di costruzione”, questa asserzione, contenuta in un articolo intitolato “Democrazia operaia” apparso ne L’ordine nuovo del 21 giugno 1919, ci ricorda lo straordinario esordio di un intellettuale collettivo formato da giovani eccezionali studiosi e da addetti alla produzione, l’avanguardia operaia torinese, che insieme progettarono di governare le fabbriche e lo Stato.

Potrà sembrare stravagante, a questo punto della relazione, un panegirico della memoria finché non si consideri che la memoria è un nemico giurato del trasformismo, del malgoverno, della criminalità organizzata, del fascismo e dell’imperialismo ed è chiaro che la Storia e il suo uso pubblico sono un grande, importante, terreno di lotta tra progresso e reazione.

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kamomodena

Appunti contro il destino. Militanti e ribelli nel Novecento

di Franco Milanesi

wenbvcerfgCosa accomuna il rapinatore bolscevico Kamo, l’operaio nero delle Pantere Nere che difende il quartiere, la studentessa negli anni Settanta che occupa la scuola o l’università? Cosa condividono la staffetta partigiana che sfida gli infami repubblichini, la miliziana nordirlandese che prepara i Troubles contro gli inglesi, il conricercatore degli anni Sessanta che inchiesta la fabbrica per sovvertirla?

La militanza: una forma totale di guardare al mondo e agire al suo interno, per ribaltarlo. Punto di vista, parzialità, conflitto, odio per il nemico, fratellanza con i propri compagni. Baricentro tra spontaneità e organizzazione, il militante si colloca lì dove l’azione modifica la teoria e la teoria indirizza l’azione.

Ripercorrendo la storia e le lotte di questa figura chiave del Novecento, cosa rimane del militante oggi? Quali ricchezze e limiti ha espresso? Che tipo di militante potrà raccogliere le sfide ancora aperte?

Sono queste le domande che ci siamo posti e abbiamo condiviso con Franco Milanesi, autore di un vecchio libretto molto interessante poiché inattuale (Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, edito nel 2010 da Punto Rosso) e ospite del primo appuntamento di MILITANTI, ciclo di incontri sulla militanza di ieri e di oggi.

Quelli che seguono, in forma di appunti, sono alcuni dei nodi e delle categorie di riflessione teorico-politica toccati da Franco nella discussione, che ha visto anche confliggere punti di vista ed esperienze di militanza differenti, perfino opposti – compresi i nostri, soprattutto per quanto riguarda i potenziali terreni del conflitto e le ambivalenze dei soggetti sociali che la nostra idea, e prassi, di militanza vuole inchiestare, presidiare, scomporre e ricomporre.

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lantidiplomatico

"La vecchia Europa ha perso la sua sovranità"

Thomas Röper intervista Maria Zakharova

Pubblichiamo alcuni, importanti, estratti dall'intervista con Maria Zakharova - condotta da Thomas Röper per il suo sito ANTI-SPIEGEL e per il suo canale YouTube. La traduzione è stata effettuata da Nora Hoppe.

720x410c50mjuyhbeRöper: Grazie per il tempo e l'opportunità di parlare con lei. Vorrei iniziare con la questione del confronto tra Occidente, Russia, Ucraina e così via. I media occidentali molto spesso ritraggono tutto questo come se Putin si svegliasse un giorno di cattivo umore e decidesse di attaccare l'Ucraina. Forse, dal suo punto di vista, come portavoce del ministero degli Esteri e del governo russo, può spiegare al pubblico tedesco, che non ne sa molto, i retroscena di questo conflitto: perché è nato, come si è sviluppata questa situazione.

Zakharova: Se uno vuole solo capire questa parte della nostra storia, il nostro rapporto con l'Occidente, e "perché è iniziata l'operazione militare, come è successo?"… vorrei precisare che dal 2014 c'è stato un continuo spargimento di sangue, per otto anni, nel Donbass – quella regione che faceva parte dell'Ucraina dopo gli anni '90 e ora fa parte delle nuove regioni russe.

Non si trattava qua di morti isolate, sporadiche. Questo è stato un massacro incentrato su civili, cioè gente comune: donne, bambini e persino uomini… che avrebbero dovuto andare al lavoro, a scuola. Sono stati tenuti in ostaggio da questa situazione politica, e per 8 anni sono state uccise tante persone lì.

Lei conoscerà molto bene le statistiche… Non so se la gente in Occidente lo sappia, ma nel corso degli 8 anni, secondo stime diverse, 11.000, 13.000, 15.000 persone sono state uccise da entrambe le parti. Questi erano rappresentanti del regime di Kiev e residenti del Donbass e anche quelli che sono venuti al popolo del Donbass dalla Russia che erano volontari. E a proposito, ci venivano persone non solo dalla Russia.