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Libertà, svastiche e carri armati

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D18248 39Pungente, scomoda analisi di Massimo Gramellini su La Stampa: comunismo e nazismo sono la stessa cosa. Questo perché, sebbene l’intento di fondo fosse diverso (“ll dominio di una razza in seguito a stermini di massa” in un caso, “la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo” nell’altro), le “utopie” vanno giudicate sulla base non delle intenzioni, ma delle “applicazioni”; e benché il nazismo abbia, in pochi anni, realizzato molti degli obiettivi che si era prefissato, il comunismo si è rovesciato in un sistema “oppressivo, violento e liberticida” che non è stato da meno. Bene ha fatto il governo ucraino, quindi (questo il contributo dell’opinionista verso il 25 aprile) ad equiparare per legge comunismo e nazismo, giacché “nella storia non esiste traccia di comunismi senza carri armati e polizie segrete”.

Già: esiste nella storia traccia, però, di stati senza carri armati e polizie segrete? A ben vedere, no. Le istituzioni che Gramellini vuole, in negativo, difendere (quelle “democratiche” sotto il cui potere viviamo) possiedono (e usano in continuazione) carri armati senza omettere di spiare i propri cittadini, aumentando anzi la potenza del controllo sociale (vedi le intercettazioni telefoniche e cibernetiche di massa e l’educazione alla delazione e all’abiura portata avanti senza posa dal sistema giudiziario e dalle istituzioni formative).

Le “democrazie” moderne, dove le forze di polizia si moltiplicano e si privatizzano, gli eserciti si professionalizzano e diversificano le sfere di intervento, e il controllo sociale si avvale delle più sofisticate tecnologie disciplinari e pedagogie mediali, sembrano possedere in forma pervasiva alcuni tratti normalmente attribuiti alle democrazie popolari del novecentesco Est, o agli stati di matrice fascista.

Eppure, direbbe Gramellini, i sistemi contemporanei, figli di quelli “occidentali” di ieri, non possono a loro volta essere accostati agli stati fascisti o “comunisti”, perché meno oppressivi in quanto democratici. Bella lì. Si dà il caso però che “democrazia” sia un termine fortemente controverso. Le forme cui è stato consegnato il “potere al popolo” dalle costituzioni contemporanee sono oggi ampiamente discusse, con un pluripartitismo abortito nel pensiero unico e una delega elettorale castrata, oltre che dall’uniformità dell’offerta politica e dalla difformità delle condizioni sociali, da leggi elettorali dove il rapporto tra voto e risultato elettorale, e tra voto ed eletto, è sempre meno sostanziale. Non è un caso che tutti i movimenti detti dai giornalisti e dalle polizie “antidemocratici” o “antipolitici”, nel passato come nel presente, tendano in primo luogo a contestare il concetto di democrazia fatto proprio da istituzioni che, dall’alto del potere sovrano, stabiliscono (con l’aiuto dei giornalisti più servili)  limiti e confini di questa idea.

Democrazia è, infatti, un’idea per tutti e per nessuno. Il suo significato può essere esteso, compresso o dislocato a seconda del contesto ideologico. In Germania il riferimento alla democrazia era contenuto nel nome della vecchia repubblica socialista di parte orientale (DDR stava per “repubblica democratica tedesca”), ma compare anche nella costituzione dell’attuale repubblica federale (l’occidentale di un tempo) e nella denominazione del partito nazista contemporaneo, l’NPD (Nationaldemokratische Partei Deutschland: “partito nazionaldemocratico della Germania”).

Oggi dietro questo termine ambiguo e polivalente, vago e sovente contraddittorio, vuole scomparire in realtà l’ideologia liberale, vero antagonista tanto di ciò che è sempre stato compreso e nominato come “comunismo” quanto della distinzione politica sostanziale tra violenza (sociale o istituzionale, passata o presente) fascista e antifascista (perché per lo più comunista). L’ideologia liberale vive del suo autoannullamento nella presunta equiparazione di ciò che essa stessa tiene a presentare come le sue fallimentari, possibili alternative. Tenta di sottrarsi alla crisi delle ideologie che della storia novecentesca è stato frutto positivo e proficuo, fingendo di non esistere e celandosi di volta in volta dietro al riferimento opaco a uno status quo presunto democratico o alla necessità di una resistenza morale e intellettuale (e a una “guardia” anche poliziesca che non deve essere mai abbassata) contro il fantasma dello “scontro sociale” da cui sorge la famigerata “intolleranza politica” (in cui tutto il pensiero extra-liberale viene compresso).

In verità è proprio in rapporto all’organizzazione capitalista dell’economia, e all’organizzazione liberale del diritto – più che alla mera costellazione narrativa che ne fornisce giustificazione – che tanto il “comunismo” quanto il nazismo trovano una possibile spiegazione storica, sebbene in forma tra loro diversa. La “violenza”, l”eccidio della libertà” e la conseguente “oppressione” propri del comunismo, ad esempio, si originano storicamente nell’odio presente in milioni di persone per chi è stato ritenuto di volta in volta causa dell’impoverimento generale delle esistenze concrete di milioni di persone (governi liberali e fascisti compresi). Molti semplificano i fatti storici presentando intere epoche, e le vicissitudini di intere aree geografiche, magari popolate da milioni o miliardi di persone, come il frutto dell’azione e della volontà di un leader e di pochi seguaci; ma affinché masse enormi si mobilitino in una direzione e accadano eventi anche drammatici devono esistere i relativi retroterra sociali.

L’odio, quando si organizza, produce anche cose positive. Ad esempio può imporre riforme sociali, rivoluzioni, pratiche autodifese di liberazione (ciò che accade dalla notte dei tempi, ed è ipocrita chi attribuisce alle sole rivoluzioni novecentesche questo rivendicabilissimo fondamento nell’inimicizia e nella discordia). Può, naturalmente, produrre situazioni meno piacevoli. Può permettere ad una classe o un ceto politico di restaurare il suo potere, a una manica di carrieristi o burocrati di curvare in senso conservatore il desiderio di rinnovamento, ad avventurieri fanatici di incanalare la rabbia verso gente a caso in nome di narrazioni demenziali (è il caso del fascismo e dei suoi simili, ma anche di molti episodi legati al socialismo). Ciononostante l’odio non è, come fingono di credere gli apologeti della società liberale, prodotto da fascisti e comunisti (né dagli islamisti, dai “populisti”, e da tutti gli altri folli possibili di questo pazzo mondo): esso è prodotto proprio dall’organizzazione liberale della società e dalle condizioni di vita che essa impone (sfruttamento, fatica, stress, isolamento sociale, internamenti, deportazioni, guerre, massacri, devastazioni ambientali, peggioramento delle condizioni di salute, ecc.).

Il capitalismo liberale, però, non si limita a produrre odio: lo usa per la propria riproduzione. Altra differenza tra comunismo e fascismo è infatti che, se il primo fu un prodotto delle società capitaliste in termini relativi – antagonisti – il secondo fu prodotto politico diretto delle classi dirigenti liberali. Soltanto gli imbecilli possono credere che il fascismo sia stato una malattia dello spirito, che si è propagata grazie a quattro cialtroni. Il fascismo è l’evoluzione del diritto liberale in presenza di minacce sociali rilevanti (e poco importa, al liberale criptofascista, se queste ultime si dicano comuniste o meno). Per questo l’autoritarismo di destra è un fenomeno graduale dal punto di vista politico, istituzionale e del diritto, ed è un fenomeno in continua innovazione. La costituzione di Weimer è rimasta formalmente in vigore lungo tutto il periodo nazista, proprio come lo statuto albertino durante il fascismo. Quando, dopo il 1945, le costituzioni sono cambiate, i signori dell’industria tedesca e italiana hanno continuato a tenere le redini “invisibili” che della “mano” di Adam Smith sono miserabile intelaiatura reale (più “applicata” e meno “utopica”).

In questi anni di rivolgimenti politici mondiali e di crisi del modello liberale degli anni Novanta, di tutto abbiamo bisogno meno che di una descrizione edulcorata della storia. Distinguere in senso valutativo comunismo e fascismo non è compito storico e politico che sia possibile realizzare sulla base di un mero computo della violenza e dell’oppressione, benché non vi sia paragone neanche da questo punto di vista. Tanti stronzi che ci opprimono e ci sfruttano oggi hanno tutte le ragioni per continuare a demonizzare uno spettro dato per morto tante volte, perché sarebbero, se esso realizzasse i desideri di molti, sen’altro in disgrazia e senz’altro oppressi. Fulcro non è “l’utopia”, né la violenza, bensì la direzione politica e sociale che diversi progetti politici hanno e assumono, e l’interesse materiale cui tentano di dar organizzazione e sostanza pratica, visione e strategia. Oppressione di chi? Libertà di chi? Queste sono le domande cui il liberale finge di non dover rispondere. L’efficacia effettiva che un progetto ha nel divaricare il futuro dal passato, i nuovi rapporti sociali da quelli vecchi, che sono quelli liberali: questo fa la differenza per chi non ha vissuto lo sfruttamento e le polizie di ieri, ma sta vivendo e affrontando quelli di oggi.

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