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Cambiare, tra il dire e il fare

Cambiamento politico nell’era complessa

Pierluigi Fagan

complessita4La vicenda greca si presta ad alcune considerazioni sul tema del cambiamento politico, un tema la cui attualità è indiscutibile per tutti coloro che non sopportano il come vanno le cose nel presente e sono viepiù preoccupati (anche qualcosa di più) per come andranno nel futuro.

1. Il fronte del malcontento somma tutti coloro che per ragioni concrete (salari, lavoro) e concrete-ideali (giustizia sociale, democrazia, ecologia, sogno di un mondo migliore), soffrono una situazione particolarmente distante dalle loro aspettative.

2. Il fronte ha dunque una composizione assai variegata ed ha avuto, sino ad oggi, scarse possibilità di pesarsi ovvero di rendersi cosciente del suo peso stante che la politica, che è l’attività di conservare-cambiare lo stato di cose, richiede peso sufficiente. C’è il peso inerziale di chi vuol conservare e c’è il peso dinamico di chi le vuol cambiare. In genere, il secondo, deve superare il primo non di poco se si vuole superare l’inerzia che è lo stato naturale delle cose. Deve superarlo di non poco anche perché la messa in moto del cambiamento procederà lungo strade lunghe e tortuose. La lunghezza e la tortuosità della strada del cambiamento è un attrito e l’attrito erode massa al peso del cambiamento per cui, se non si parte da un capitale di peso politico congruo, dopo poco tempo ovvero dopo aver fatto appena l’inizio del lungo percorso, ci si ritrova senza il necessario peso politico.

3. Non c’è solo l’inerzia, la lunghezza e la tortuosità che assieme fanno l’attrito contro il quale la dinamica del cambiamento rischia di perdere massa e dinamica, ci sono anche gli avversari del cambiamento. Questi sono il potere vigente di un preciso stato di cose. Questo potere, rispetto al potere del cambiamento ha molti vantaggi: a) l’esperienza; b) una concreta intenzionalità forgiata nell’abitudine a gestire le contraddizioni concrete del potere; c) il possesso dei mezzi strutturali (il potere del denaro, il comando della funzioni politiche, sociali, economiche, di ordine armato cioè -polizia ed esercito-); d) il potere dei mezzi sovrastrutturali quali l’informazione, gli opinion leaders.

4. In linea ancorpiù generale, mentre la conservazione è riferita ad uno stato di cose che è, il cambiamento è riferito ad uno stato di cose che ancora non è. Questo “non essere ancora” è la sua libertà che ne è anche la sua potenza ma ne è anche la sua indeterminazione in quanto non si sa, a priori, quanta parte della vasta collezione di NO (no a questo, no a quello, basta con i così e con i colì….) potrà trasformarsi in SI e quanta dell’unità verificata su i NO si manterrà una volta che si dovranno produrre i SI (facciamo questo e quello, i così ed i colì…).

5. Il fronte del cambiamento, mano a mano che procede lungo la via dello scontro politico, viepiù se ottiene la possibilità di gestire importanti leve di potere (ad esempio, un qualche governo dei sistemi politici, sociali, economici, culturali, armati) scopre l’interno della “scatola nera”, una conoscenza che non aveva prima di iniziare il suo processo di cambiamento. Prima, aveva coscienza solo degli effetti di ciò che agisce nella scatola nera dei poteri, durante, comincia a scoprire come effettivamente funziona la scatola nera. Questo genera altri due importanti problemi non preventivati: e) si verifica di non avere una teoria del cambiamento specifica non dello stato di cose che si vuole produrre ma di come produrlo attraverso la scatola (non più nera) di cui si sta prendendo conoscenza del cosa è, del come funziona, dei limiti e specifiche condizioni di possibilità che la sua struttura comporta. A questo punto occorrerebbe non solo la teoria generale su gli effetti che si vogliono produrre ma anche una teoria specifica su come maneggiare la scatola che è lo snodo di tutti gli ingranaggi sociali, politici, economico-finanziari, delle forze armate (interne ed esterne); f) questo fatto nuovo tende a separare le élite politiche del cambiamento, dal loro corpo espressivo, dalla massa o base del movimento poiché mano a mano che i primi si avventurano nei misteri della scatola nera, i secondi rimangono fuori in un universo molto semplificato fatto di sofferenze concrete, fretta di modificare lo stato di cose che le produce, idee assai vaghe e stereotipate su ciò che si vuole conseguire che in genere è una qualche forma di ingenuo “tutto e subito”.

Vediamo allora cosa succede nel concreto e nel sintetico della questione greca, alla luce dei cinque punti analitici preposti.

1.1 Il fronte del malcontento greco ha nome Syriza. Syriza è una unione di eterogenei punti di vista che hanno in comune la volontà di dare una alternativa alle politiche di potere delle oligarchie greche che a loro volta eseguono le disposizioni delle oligarchie europee ed euro-tecniche. Syriza è un totale maggiore delle sue parti, le parti si sono connesse intorno all’iniziativa di un gruppo specifico (Synaspismòs) il quale, a sua volta, era una coalizione di ambientalisti, pacifisti, femministe, socialisti democratici, eurocomunisti ed eco socialisti. Nel ’93 raccolgono uno striminzito 2,94% alle politiche, nel ’96 un 5,1%. Dopo una travagliata storia tipicamente di sinistra (scissioni e ribaltoni interni) una già coalizione, si forma in una coalizione di ordine superiore, Syriza, convergendo la propria eterogeneità con trozkisti, maoisti, cittadinanza attiva ed altre forme di radicalismo ecologico ed anticapitalista. Tsipras ne diventa leader nel 2008 e solo nel 2013, Synaspismòs si scioglie definitivamente in Syriza. Alle politiche 2007 pesa ancora solo uno 5,04%. Nel 2012 esplode prima al 16.77% poi al 26.89%. Infine trionfa nel 2015 col 36.34%. Viepiù che cresce, Syriza si apre verso la parte destra della sinistra e l’ultimo risultato è la somma non solo delle eterogenee radicalità costitutive ma anche di molta sinistra generica (ex PASOK) tradita dallo spostamento al centro dei partiti storici. Alla sua sinistra rimangono vari movimenti, oltre allo storico partito comunista greco (KKE) che conta comunque su un consenso duro intorno al 5-6%.

Sono chiare due cose: la prima è che l’asprezza della situazione greca ha favorito un movimento di aggregazione che è storicamente problematico a sinistra (la sinistra si è storicamente unita solo in presenza di gravissime minacce come nei fronti popolari antifascisti), aggregazione di NO che non è detto sia facilmente trasformabile in SI; la seconda è che ciò è avvenuto in poco tempo (triplicazione in cinque anni).

2.1 Syriza si trova al potere da cinque mesi, in una situazione assai difficile e sulla scorta di un inevitabile scarto tra programmi ideali atti a catalizzare consenso nella fase pre-elettorale e la loro concreta applicabilità nello stato delle cose reale. Nonostante il brillante successo, Syriza è costretta ad una innaturale unione parlamentare con un movimento di centro-destra per quanto non conformista. Recentemente, ad esempio, il governo vara una legge sul riconoscimento della nazionalità dei nati di seconda generazione di immigrati, contro il parere del suo stesso alleato e con l’aiuto parlamentare di una parte dell’opposizione. Non solo Syriza pesa solo un terzo del paese ma al suo interno convergono posizioni nazionaliste ed alter-europeiste, riformiste dell’euro dell’Europa e alternative ad entrambe, marxiste-leniniste e più blandamente riformiste per quanto radicali mentre al suo esterno convergono posizioni viepiù spostate sullo spettro di centro-sinistra. Il referendum quasi doppia il peso di Syriza sebbene sommando posizioni assai eterogenee quali i votanti di Alba dorata, molta base del KKE e molta cittadinanza addirittura al solito votante partiti d’opposizione, di centro se non di centro-destra. Tsipras, con realismo politico, interpreta il voto come un generico NO al memorandum (addirittura come un NO ancorpiù generico alle politiche della troika di questi anni stante che pochi si sono avventurati nella ostica lettura del memorandum Juncker e stante che una settimana di campagna elettorale certo non permette la diffusione e penetrazione di conoscenza appropriata) e non come un NO al capitalismo, all’euro, all’Europa. Chi conosce appena un minimo la Grecia non può che convenire su questa rappresentazione della mentalità greca dei grandi numeri.

3.1 Ma è necessario fare anche un passo cronologico indietro. Il governo greco , si trova ad un certo punto della trattativa con l’eurocrazia in un vicolo cieco: accettare la posizione della controparte è suicidio politico, rifiutarla decisamente significa dover rispondere delle conseguenze all’intero popolo ed al frammentato suo stesso elettorato. Stante la distanza informativa tra chi sta facendo politica ai massimi vertici e chi sta affrontando la vita civile dell’estate greca, sicuro è il tracollo del governo una volta che fosse chiamato a rispondere di sue decisioni radicalmente negative così come per ragioni opposte di quelle eventualmente positive. Decide allora una mossa laterale. Indire un referendum per riattingere la propria legittimità alla fonte di un chiaro mandato popolare. Sia la variegata composizione interna a Syriza, sia ciò che di essa si riflette sul governo e la sua azione, sia l’opposizione, il paese tutto, la controparte eurocratica particolarmente contrariata del veder portata in pubblico una trattativa che di norma si svolge nelle segrete stanze, il mondo dei portatori d’interesse geo-finanziario (borse, fondi e banche del sistema mondiale per altro già alle prese con movimenti tellurici asiatici) e geo-politico (russi, cinesi ed americani) vengono tutti chiamati in gioco sincronicamente ad una partita che da poker si trasforma in telesina, cioè un poker con quattro carte scoperte e solo una coperta e dove si invita il pubblico degli elettori greci e delle opinioni pubbliche ad interessarsi e partecipare attivamente. Questo ricorso alla bilancia quantificatoria serve a tutti per pesarsi politicamente.

La mossa ha molti pregi, tra cui quello di portare l’avversario a giocare un gioco in cui non è bravo ovvero confrontarsi pubblicamente. Ne nasce il penoso spettacolo che ha minato a livello mondiale la credibilità dell’eurocrazia, comunque andrà a finire la faccenda. Non solo. Ha reso esplicito la divergenza d’interesse tra Fmi e UE-BCE, tra Germania-Europa del nord-dell’est ed USA-Italia-Francia, tra USA – Russia e Cina, tra banco-finanza mondiale e Germania,  tra un’opposizione chiacchierona ed il suo elettorato (portando alla definitiva uscita di scena del capo dell’opposizione Samaras, il che significa crearsi un TINA There Is No Alternative alle spalle ovvero non avere una opposizione interna pronta ad occupare lo spazio di una eventuale caduta del governo).

Il tutto, contro l’immensa forza del sistema informativo-mediatico nazionale ed europeo, stante che, va ricordato, il governo greco è il primo esperimento di concreto e radicale contrasto al potere assoluto del centro-destra-sinistra eurocratrico che spadroneggia nel continente e  del neoliberismo ideologico altrettanto assoluto. Con le banche chiuse ed il Paese al pre-collasso. Controllando polizia ed esercito al punto da evitare spiacevoli atti di forza contro ma non tanto da poter immaginare atti di forza a favore (ad esempio imporre la presa della banca nazionale, uscire dalla NATO ed altro conseguente una svolta radical-rivoluzionaria). Mostrando a tutta l’opinione pubblica europea che la socialdemocrazia è addirittura il nemico principale del cambiamento poiché questo mette in stridente contraddizione la loro ragion pura (virtualmente di sinistra)  con la loro ragion pratica (concretamente di destra).

4.1  Si giunge così all’epilogo del referendum ed alla difficile gestione della fase successiva. La ragion pura di Varoufakis si divide dalla ragion pratica di Tsipras il quale mostra col suo herpes labiale, a quale immane stritolamento psichico – emotivo è soggetto. Il quadro però è cambiato, il cambiamento ha fatto un passo in avanti, il cambiamento finalmente è, per la prima volta in Occidente, uscito dall’universo liscio delle parole e delle teorie per entrare nell’universo concretamente complesso della realtà fattuale. Ma mentre il primo continua a vivere nel suo sogno di perfezione, il secondo scopre l’enorme attrito del reale. Non ci si rende conto del volume enorme di informazioni che non abbiamo: cosa ha veramente detto Putin a Tsipras? Cosa gli hanno detto i cinesi? Cosa Obama e Lew? Cosa Hollande, unico appiglio per quanto gelatinoso? Cosa si sono detti Tsipras e Merkel? Cosa è noto ai greci dei movimenti e contraddizioni interne all’Fmi? Cosa è noto al governo come sentiment dei poteri greci, polizia, esercito, confindustria, massoneria, opposizione parlamentare ed semi-parlamentare, opinione diffusa. Quali minacce sbarrano la strada ad una Grexit e quali interessi spingono invece a promuoverla ma da destra e non da sinistra? Quali scenari sono stati dipinti per il dopo? Di chi fidarsi in questo gioco? Come sopravvivere politicamente a questo gioco che, ricordiamolo, era iniziato con uno strisciante tentativo di uccidere per sempre il neonato cambiamento greco per desertificare la speranza anche in Spagna, Irlanda, Portogallo ed Italia?

5.1.  Tutto ciò ci ha portato al cuore dell’ultimo punto. L’eterogeneità di quel terzo del popolo greco che nonostante tutto è giunto al potere politico concreto, si screpola davanti all’attrito del reale. Comprensibili e giustificabili coerenze ideali, vanno in contraddizione insanabile con scelte limitate e nonostante ciò molto rischiose. Se si vince si vince quasi nulla ma se si perde si può perdere tutto. L’unità contro il nemico si contorce nella controspinta della contestazione dell’amico. L’opinione pubblica favorevole al cambiamento mostra tutta la sua impreparazione democratica. Visioni idealiste forgiate sul modello binario bene-male, sul principio di non contraddizione che acceca coi suoi lampi le sfumature intermedie, una disarmante ingenuità di solito trattenuta quando ci si impegna a decostruire le menzogne del potere tradizionale affiora laddove si comincia a rilanciare su facebook i “Tsipras ha tradito!”, laddove si crede immediatamente alla versione ufficiale di un Varoufakis che cede la testa per un traguardo superiore salvo poi rendersi conto dell’ovvio ovvero che i due avevano idee diverse su come gestire il dopo-voto e che se l’economista greco-americano ha dalla sua la ragion pura, il Primo ministro politico ha dalla sua quella pratica. Si copiano-incollano titoli di quegli stessi organi d’informazione che la settimana prima sembravano così palesemente di dis-informazione. Tutti coloro che si sono presi la briga di approfondire il memorandum Juncker non si prendono la briga di analizzare la nuova posizione, ci si dimentica che quel memorandum valeva fondi per 7 miliardi e questo per più di 50 (non capendo proprio cosa sono, in cosa sono politicamente trasformabili cinquanta miliardi perché nell’universo liscio delle idee le cose appaiono solo al nominarle e non sono necessari i soldi per farle davvero), che bisogna aspettare di vedere appieno quali sono stati gli accordi di mediazione poiché questi certo prevedono che il governo greco parli solo di riforme ma altrettanto certo che a qualcun altro toccherà parlare di dilazioni (il periodo di grazia) e di parziale ristrutturazioni del debito, prima di valutare se il peso politico dato dal referendum, corrisponde in quanto più ed in quanto in meno al risultato portato a casa alla fine del gioco.

Questa riflessione non conclude perché la storia non è conclusa ed i totali si tireranno alla fine, fine che tra l’altro, non è detto che sarà come a tutti ormai sembra sarà cioè con un accordo, per quanto sofferto, tra le parti. Ma a questo punto ancora inconcluso si possono comunque trarre tre, parziali conclusioni:

A) Il referendum greco e tutto ciò intorno ad esso si è sviluppato, ha prodotto una sipario strappato. Il sipario che copriva la politica economica, monetaria e propriamente politica in sé per sé della sbilenca costruzione europea. Le élite si sono pubblicamente divise, hanno dato uno spettacolo indecoroso. Una per quanto variegata sinistra ha resistito al potere di un paese reale (non quelli immaginari dell’idealismo malattia endemica della sinistra marxista-platonico-hegeliana). Il cambiamento, per la prima volta, ha dato segni di moto.

B) Essere contro il potere impone realisticamente essere per un altro potere, quello che è possibile date le condizioni di possibilità concrete. Chi vuole cambiare davvero, adesso sa che non basta dire NO ma bisogna avere piani, strategie e preparazione per la lunga lista dei SI necessari alla trasformazione. Che bisogna rispolverare i dettami dell’egemonia gramsciana. Che la democrazia è un fake della narrazione dominante ma che questo fake informa anche molto dello schieramento per il cambiamento. Tutto noi, non siamo mai stati democratici. Che la politica come arte del possibile non significa solo mediare nel compromesso ma anche tener conto di ciò che è possibile nella contraddittorietà del reale. Che -l’Europa dei popoli- non solo è un concetto scarsamente realistico e difficile ma è anche assai problematico poiché sono i popoli tedesco e nord europeo, dell’est Europa, di una Italia che teme manovre per compensare il taglio dei debiti greci ad esser entrati in conflitto con quello greco. Che forse non solo questa Europa non funziona ma l’idea stessa di unire entità così eterogenee è balzana. Che dentro la Spagna, il Portogallo, l’Italia ed anche la Francia si sono palesati gli unici alleati naturali dei greci e che questo deve pur avere un significato più solido che non la contingenza (se ne parlò qui, due anni or sono).

C) Ma forse, l’insegnamento più grande di questa piccolo spicchio di storia contemporanea è spingerci ad aprire un cantiere immenso e complesso che si domandi come si cambia il mondo, quanto tempo è necessario, quali i rapporti tra tattica e strategia, tra élite politiche ed intellettuali e l’opinione di base, tra schemi mentali semplificati e complessità arzigogolata del mondo reale, tra l’incommensurabilità che affligge gli specialisti solo della moneta, solo dell’economia, solo della politica, solo (invero assai pochi) della geopolitica, su come poter pensare queste cose tutte assieme perché tutte assieme sono nel reale che si vuol trasformare, sul ruolo che giocano i social network e l’informazione on line per creare contraddizioni interne allo stesso fronte del cambiamento ingenuo, quanto e come dobbiamo occuparci di politica internazionale, di teoria dei giochi, di sistemi informativi, di formazione politica, di strategia, di polizia ed esercito, di circolazione monetaria e dell’odiato capitalismo che forse siamo condannati a riformare prima ancora di disfarcene come ben detto dal nuove eroe del cambiamento con moto e stile informale (ma preparazione sostanziale). Vedere anche come discutiamo tra noi, quanto ostracizzare, quanto insultare, quanto assumere sorrisetti da dotti ignoranti, quanto avvelenare gli stessi pozzi da cui dipende la nostra sete di nuovo, quanto sopportare le prediche sulle pagliuzze nell’occhio quando le sequoie premono lì dove molto di noi sono usi avere solo movimenti in uscita.

Insomma, secondo A. Badiou (col quale raramente sono d’accordo stante che è un platonico auto-dichiarato) la Storia si è rimessa in moto. Questo riattiva il lungamente assopito e depresso “principio speranza”. Urge aprire una nuova stagione di cambiamento del mondo previa revisione del come lo interpretiamo. Ricordiamoci che siamo tutti per un mondo migliore, che questo non è dietro l’angolo, che per spostare il mondo anche solo di uno striminzito centimetro è necessaria la forza di milioni e milioni di braccia, che siamo nel 2015 ed il 1789-99, il 1848, il 1870, il 1917-22 sono lontani uno-due secoli. Che la realtà pensata è sempre molti gradi meno complessa di quella concreta, cioè che la mappa non è il territorio (G. Bateson).

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