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palermograd

Berlino 2016: another brick in the wall?

Con questo articolo, una testimonianza di viaggio che riflette sullo scenario politico e economico della Germania e di Berlino, riprendono, dopo la pausa estiva, le pubblicazioni di Palermograd. Le elezioni in Meclemburgo-Pomerania registrano l’avanzata di Alternative für Deutschland che supera la CDU, il partito della cancelliera tedesca Angela Merkel. A due settimane dal voto del 18 Settembre di Berlino è difficile pensare che non potranno esserci ripercussioni sul quadro nazionale governato dalla Große Koalition

kopi“Härte allein hilft nicht in der Rigaer Straße”, titolava il 13 luglio scorso il quotidiano tedesco Tagesspiegel: “a Rigaer Straße il solo uso della forza non aiuta”. Questa estate mi sono imbattuto, un po’ per caso e un po’ per necessità, nel corso delle ormai consuete vacanze a Berlino, nel distretto di  Friedrichshain, nella vicenda della vertenza di Rigaer Straße 94. Avevo già letto della rivolta dei linksautonomen a Berlino-Est su Il Manifesto (18.07.2016): a fine Giugno scontri tra attivisti politici e polizia, feriti e arresti, per difendere dallo sgombero delle forze dell’ordine lo stabile occupato di Rigaer Straße, Hausprojekt in der R.S.94. E oggi la vertenza relativa alle questioni abitative è diventata uno dei temi più scottanti della campagna elettorale che si chiuderà il 18 Settembre con l’elezione della Camera dei Deputati e delle assemblee municipali della città-Stato di Berlino. Il punto è che il test elettorale non potrà non avere riflessi e ricadute più generali sull’attuale Große Koalition di Merkel e Schäuble.

Berlino ha fin dai primi anni ’70 del secolo scorso un’interessantissima storia, per altro a me quasi del tutto sconosciuta, relativa allo squatting, all’occupazione da parte di singoli e gruppi politici di immobili non abitati. Nella RFT le occupazioni spesso erano legate all’emersione del movimento che, esploso nel ’68, era portatore delle tendenze politiche e sociali di protesta di quegli anni, confliggenti con gli apparati di potere e le strutture egemoniche capitalistiche. Giovani studenti, immigrati, disoccupati, fricchettoni, attivisti ambientalisti, militanti pacifisti, punks, un movimento esplosivo,  ricco e creativo che ha contribuito a creare non solo spazi di opposizione e controcultura ma anche luoghi nei quali sperimentare forme, alternative al modello dominante, di cooperazione, partecipazione e economia solidale.

A partire dagli anni ’90, a seguito del processo di annessione della RDT alla RFT, le occupazioni si sono estese anche a Berlino Est, generate tra l’altro dall’incertezza giuridica determinata dal vuoto legislativo che in un primo momento segnò il crollo del socialismo reale. Ne seguì un processo di occupazione di massa di qualche centinaio di stabili non abitati, molti dei quali abbandonati da gente che si trasferiva ad Ovest, che fu poi completamente legalizzato (almeno per le occupazioni che precedettero il luglio del 1990). Insomma, Berlino vanta una storia, contraddittoria e complessa ma anche abbastanza remota e radicata nella coscienza civile dei suoi cittadini, di ferma opposizione al processo di gentrification, caratterizzato dalla rimozione più o meno violenta di quartieri ad alta densità popolare sostituiti da zone residenziali con abitazioni di lusso per la ricca borghesia delle professioni e dell’impresa, che ha imperversato, da trent’anni a questa parte, in tutte le grandi città europee. Negli ultimi anni, a Berlino, i prezzi delle abitazioni sono cresciuti da 1.500 euro al metro quadro ai 3.000 euro di adesso e probabilmente, considerando il prezzo degli immobili nelle altre grandi città europee, il trend in aumento non tenderà ad arrestarsi. La stessa politica praticata dalla BCE con tassi di interesse pari a zero favorisce, peraltro, l’esplosione di bolle sul mercato immobiliare.

A dimostrazione dell’opposizione a che il centro della città, soprattutto a est, venga trasformato in una vuota vetrina a uso e consumo di commercianti e turisti o in un candido e specchiato salotto per i benestanti, parla la solidarietà manifestata dagli abitanti nei confronti degli squatters. Di fronte agli sgomberi forzati prende forma la volontà di non lasciare la città nelle mani della speculazione immobiliare. Sul Tagesspiegel del 12 Luglio, che non è certo un quotidiano particolarmente vicino ai radicali di sinistra, si poteva leggere: “Jetzt reden Anwohner: Anwohner der Rigaer Straße fordern ein Ende der “sinnlosen Polizeieinsätze” und eine “transparente Informationspolitik” vom Senat. Die Polizei führt nun keine Personenkontrollen auf dem Gehweg mehr durch”. (Adesso parlano gli abitanti: i residenti di Rigaer Straße chiedono la fine delle “insensate operazioni di polizia” e una “più trasparente politica di informazione” da parte del Senato. La Polizia ora non effettuerà più alcun controllo per strada delle persone). Il consenso che esperienze politiche come quella di Hausprojekt 94 hanno sedimentato è ampio e profondo, come dimostrano anche articoli come quello apparso sul Berliner Abendblatt del 23 luglio, intitolato “zwischen Protest und Frust” (tra protesta e frustrazione), che significativamente  evidenziava la sconfitta di quanti avevano pensato, in particolare il ministro degli interni Frank Henkel (CDU), di risolvere la crisi di Rigaer Straße 94 criminalizzando il movimento e riducendo il tutto a un problema di ordine pubblico.    

La storia di Rigaer Straße 94, e più in generale dei movimenti di protesta in Germania, ci racconta di un paese non pacificato e nel quale non mancano i soggetti che incarnano e danno espressione politica ai motivi della protesta e del dissenso. Proprio Berlino, la città che durante la guerra fredda era stata il simbolo non solo della separazione della Germania ma della stessa divisione in Europa e, inoltre, della capitolazione del socialismo reale di fronte alla schiacciante vittoria del capitalismo,  adesso testimonia, ironia della storia, della necessità di riaffermare la priorità da assegnare alla politica piuttosto che al mercato. In fondo è questo il significato da attribuire alle rivendicazioni che aspirano all’idea che la redistribuzione delle risorse e le risposte ai bisogni sociali (abitazione, istruzione, sanità, pensione) passino per la prima istanza, di governo razionale delle dinamiche e dei processi sociali, e non per la seconda, di affidamento esclusivo al libero gioco delle forze del mercato. La crisi globale degli ultimi anni ha costretto persino un settimanale filogovernativo come Die Zeit ad ammettere che il dogma del libero mercato ha indebolito l’economia e aumentato le disuguaglianze (Mark Schieritz, Tod eines Dogmas, (Morte di un dogma, 05.06.2016).

Certo, non c’è dubbio, la Berlino della RDT era soprattutto quella raccontata da Anna Funder (C’era una volta la DDR, Feltrinelli, Milano, 2005), ma non si capisce nulla degli orrori della Stasi  se non si riconosce (beninteso, comprendere non vuol dire giustificare), che quel regime garantiva, in cambio dell’impunità dei burocrati che gestivano il monopolio del potere politico, diritti sociali ora ampiamente inevasi. D’altra parte, se Berlino è oramai la capitale oltre che della Germania, nei fatti, anche di un’Unione Europea segnata dal timbro delle politiche dell’austerità, è pur vero che, per la sua storia remota e recente, resta una città che, entro il panorama delle grandi metropoli europee, continua a mantenere proprie spiccate peculiarità.

In fondo Berlino Est vive ancora oggi, a distanza di più di venticinque anni, gli effetti del processo di annessione e colonizzazione che ebbero luogo, ad opera della RFT, a partire dall’unione monetaria del 1990. Guido Gentili, qualche anno fa, sul Sole24ore (I 20 anni tedeschi sono meglio dei 150 italiani, 05.10.2010) sentenziava di una raggiunta parità tra Est e Ovest della Germania, e ne inferiva la conclusione che Mezzogiorno d’Italia ed ex RDT avrebbero camminato a ritmi ben diversi. Al di là di affrettate interpretazioni che hanno apologeticamente narrato di una riunificazione paritaria, e per lo più riuscita, forse sarebbe meglio utilizzare altre griglie interpretative. Che si debba parlare di vera e propria annessione lo riconosce anche Michael Gehler nel suo Le tre Germanie, (Odoya Library, Bologna, 2013) sottolineando correttamente come ai sensi dell’articolo 23 della Grundgesetz, si sia trattato di un’adesione della RDT alla giurisdizione della carta costituzionale della RFT. E così la RDT sarebbe stata, testuali parole, “inghiottita” (Le tre Germanie, Odoya Library, Bologna, 2013, p.285).

Vladimiro Giacchè ha spiegato in modo esemplare che le conseguenze economiche dell’Anschluss del 1990 furono ben diverse da quelle raccontate dal mainstream dominante: “la narrazione ufficiale dell’unificazione (…) racconta di un’economia in rovina distrutta da 40 anni di socialismo, alla quale con il marco tedesco viene portato il benessere e lo sviluppo. Parla di uno straordinario successo economico, il cui peso è stato generosamente sostenuto dalla Germania ricca che ha deciso di condividere il proprio modello vincente, l’economia sociale di mercato, con la Germania povera. Racconta di infrastrutture ricostruite e di centri storici risanati (e questo è vero). Racconta degli oneri sopportati dall’Ovest per ricostruire i Länder dell’Est, e di una solidarietà della cui opportunità è sempre più difficile convincere i cittadini dell’Ovest col passare degli anni (…). Purtroppo le cifre ci raccontano una verità ben diversa. L’impatto immediato dell’unificazione economica sulla Germania Est è sintetizzabile in poche cifre. In due anni, dal 1989 al 1991, il prodotto interno lordo segna un -44 per cento, la produzione industriale addirittura un -67 per cento; i disoccupati ufficiali (quelli registrati come tali negli uffici del lavoro) sono 830.000; ma, soprattutto, il numero degli occupati scende di oltre 2 milioni di unità (2.095.000), dagli 8,9 milioni del 1989 ai 6,8 milioni del 1991.” (Anschluss, l’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2013).

D’altra parte non era scritto da nessuna parte che con il crollo del muro di Berlino si dovessero barattare le libertà politiche con l’adesione incondizionata al modello del libero mercato. Alessandro Somma nel suo L’altra faccia della Germania ricorda che, all’indomani della caduta del Muro, nel Novembre del 1989, un appello sottoscritto da più di un milione di persone chiedeva che oltre ad abbattere le strutture staliniste penetrate in tutte le sfere della vita venisse promossa la nascita di una società solidale nella quale fossero assicurate pace e giustizia sociale, libertà e tutela dell’ambiente. Nello stesso appello, scrive sempre l’autore, si faceva presente il pericolo che il corso degli eventi seguisse una direzione ben diversa, che avrebbe comportato la svendita dei nostri valori e che si sarebbe concluso solo quando la Germania dell’Ovest avrebbe fagocitato quella dell’Est. (L’altra faccia della Germania. Sinistra e democrazia economica nelle maglie del neoliberalismo, DeriveApprodi, Roma, 2015, pp.21-22).

Ma torniamo al presente. Sono oramai abbastanza diffusi gli studi che avanzano la tesi secondo cui la strategia sperimentata nei confronti della RDT per acquisirne il patrimonio industriale e la ricchezza economica, ossia la conversione alla pari del Marco orientale e occidentale, sia stata adottata dalla Germania, una volta istituita l’area dell’euro, per assoggettare alle proprie priorità economiche i paesi più deboli, soprattutto quelli dell’area Mediterranea dell’Unione Europea. Attraverso il vincolo monetario, le relazioni economiche tra la Germania e gli altri partner europei, sembrano sottostare alle stesse dinamiche (crescita esponenziale del debito, politiche recessive dettate dalla ricetta dell’austerità, tagli alla spesa pubblica, distruzione dello stato sociale, privatizzazioni) che hanno condotto alla svendita e all’espropriazione dell’intero patrimonio industriale della ex RDT. È evidente che si tratta di un modello di crescita economica che lega in un nesso strettissimo il rialzo del saggio di profitto alle esportazioni e che tuttavia avvantaggia, in presenza di una valuta unica e dunque in assenza di svalutazioni e di limitazioni tariffarie o di altro genere alla circolazione delle merci, i paesi che sul mercato mondiale sono tecnologicamente più sviluppati. Domenico Moro scrive che “il mercato internazionale autoregolato, in ambito capitalistico, determina uno scambio ineguale e produce un effetto di allargamento dello squilibrio tra i vari Paesi, penalizzando quelli più arretrati. (…) Ne è un chiaro esempio nell’area euro la Germania, che ha realizzato, proprio a partire dall’introduzione della valuta unica, una crescita del Pil pro capite molto più veloce rispetto a quella di altri Paesi come l’Italia, la Francia e la Spagna. (…) La competitività di prezzo della Germania, tra il 2010 e il 2012, è aumentata molto più di quella dei suoi partner dell’euro come Francia, Italia e Spagna. Il risultato è, per l’appunto, l’enorme surplus commerciale della Germania, il secondo mondiale in valore assoluto dopo la Cina, al quale corrisponde il debito commerciale degli altri Paesi europei meno avanzati (Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015, pp.111-112).

Non bisogna dimenticare, inoltre, che in Germania la centralità che, storicamente, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, è stata attribuita alle esportazioni, secondo una logica competitiva che non dovrebbe però sussistere all’interno di un'unica area comunitaria, si è fondata, a partire dal governo Schröder, non più sull’innovazione di processo ma soprattutto su politiche del lavoro finalizzate a mantenere basse le retribuzioni e l’esenzione dei contributi sociali. I Minijob e i Midijob, introdotti dalle riforme Hartz, hanno precarizzato le condizioni di lavoro, aumentato la competizione tra i lavoratori e creato un esercito di circa sette milioni e mezzo di lavoratori con un impiego marginale. Le riforme Hartz, attraverso un calo del salario reale del 6%, hanno permesso allo Stato tedesco di diminuire i costi dell’apparato produttivo nazionale e, per questa via, che in altre parole è quella della svalutazione interna, procedere ad un incremento della competitività estera. Come ricorda in un intervista lo studioso dell’Università di Jena Klaus Dörre, “das deutsche Beschäftigungswunder hat eine dunkle Seite. Es beruht darauf, dass es einen Niedriglohnsektor gibt, der kontinuierlich zwischen 22 bis 24 Prozent der Beschäftigung” ( il miracolo del lavoro tedesco ha un lato oscuro. La soglia dei lavoratori a basso salario oscilla costantemente tra il 22 e il 24% del totale degli occupati), (Anita Staudacher, Kurier.at, 02.08.2016). Recentemente la Süddeutsche Zeitung riferiva che gli stessi pensionati tedeschi ricorrono sempre più spesso ai minijob, sono quasi un milione quelli di età superiore ai 65 anni. Segno di un aumento della povertà anche presso gli anziani. Per non parlare, scrive ancora Somma, “del numero delle persone scese sotto la soglia della povertà, impressionante per il quarto Paese al mondo per produzione di ricchezza, nel quale la disoccupazione è oltretutto scesa nel tempo: se nel 2006 i poveri erano meno di 2,4 milioni, nel 2013 si è superata quota 2,8 milioni, pari al 15,5% della popolazione” (L’altra faccia della Germania, pp. 134-135). Entro questo scenario spiccano i dati negativi registrati dalla capitale tedesca in fatto di disoccupazione (10,7% della popolazione in età lavorativa), sussidi economici relativi all’Hartz IV ( a Giugno del 2016 ne fruiva circa il 16% dei cittadini di Berlino a fronte di un dato nazionale attestato al 7,7%) e tasso di povertà (il 20%, un quinto dei berlinesi nel 2014).  

La lotta al costo del lavoro con conseguente contrazione dei salari reali, calo dei consumi e stagnazione della domanda interna è, naturalmente, continuata sotto il conservatorismo patrimoniale, così lo ha definito Massimo D’Angelillo, di Merkel e Schäuble. Secondo D’Angelillo gli anni della Merkel, gli anni della crisi scoppiata nel 2008 e della grande paura, sono stati gli anni di un’ulteriore svolta che ha sancito la consacrazione della Germania a paese guida dell’Europa. Il problema è, scrive sempre l’autore, che l’asse strategico dell’iniziativa economica ha spostato il proprio baricentro proprio sulle conseguenze finanziarie e patrimoniali degli straordinari avanzi della bilancia commerciale i cui investimenti possono generare, se indirizzati ad esempio nei titoli di debito pubblico di altri paesi, rendite enormi. Se la Merkel fa dunque delle banche e dei detentori dei grandi patrimoni finanziari i propri principali referenti sociali, non c’è da stupirsi che, nella fiorente e ricca Germania, aumentino le disuguaglianze. Ancora nel 1990 il decile superiore dei cittadini tedeschi deteneva il 33% dei redditi complessivi, nel 2010 l’ammontare era diventato del 37%. Infine, è del tutto ovvio che “questa crescente diseguaglianza con quote di Pil che si trasferiscono dai ceti più poveri, connotati da un’alta propensione al consumo, ai ceti a più bassa propensione, contribuisca alla recessione e renda ancor più necessario ricercare compensazioni macroeconomiche innescando una maggiore domanda estera” (La Germania e la crisi europea, Ombre Corte, Verona, 2016, p.146).

C’è dunque una stretta connessione che da un lato lega le politiche fondate sulle esportazioni e sui surplus della bilancia commerciale della Germania al peggioramento delle condizioni di vita di una parte non insignificante dei suoi cittadini, costretti a subire segmentazioni sociali sempre più aspre e una redistribuzione delle ricchezze verso l’alto sempre più accentuata. Dall’altro lato, come è ormai risaputo, la stessa strategia fondata sul vincolo valutario, la spirale del debito e la risposta dell’austerità, tutte condizioni di possibilità perché possano reiterarsi gli avanzi commerciali tedeschi, determina nei paesi europei più periferici, e non solo in quelli se pensiamo agli scricchiolanti fondamentali dell’economia francese, i processi di divaricazione economica registrati negli ultimi anni. Del resto, nel momento in cui vige un’unione valutaria e viene meno la strategia compensatrice della svalutazione non resta altro che la compressione dei salari interni e la riduzione fiscale per le grandi imprese e i grandi patrimoni.

In conclusione, anche se apparentemente il modello tedesco sembra risultare vincente, nella realtà dei fatti esso sta producendo, se si assumono le ragioni dell’uguaglianza e della giustizia sociale, danni sempre più gravosi e costosi. A pagare sono non solo i paesi dell’unione monetaria più deboli come la Grecia e gli altri riconducibili all’acronimo PIGS, ma anche una buona fetta della stessa popolazione tedesca che si riconosce sempre meno nelle politiche della Merkel e dei suoi alleati socialdemocratici. Nasce da qui il successo di partiti, come l’AfD, che si presentano come antitetici al sistema e che cavalcano il populismo e la xenofobia. Tuttavia anche in Germania vi sono segnali che vanno in controtendenza, che, come l’esperienza di Hausprojekt di Rigaer Straße 94, indicano la possibilità di sperimentare l’opposizione e la proposta di una politica differente. Perché l’uso della forza e dell’austerità, a Friedrichshain come nell’intera Unione Europea, quasi mai risolve i problemi.

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