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Verifica dei poteri

di Euronomade

banca-finanza-aziendale1“Siamo pronti anche ad altri interventi non convenzionali”, dichiara solenne Draghi dalla Reggia di Capodimonte a Napoli. I banchieri applaudono all’eroe della faccia espansiva dell’austerity: da Intesa San Paolo/Banconapoli a Unicredit, è tutto un inno allo sforzo erculeo del banchiere buono per vincere l’idra a doppia testa della recessione e del debito. Intanto, i manifestanti della benemerita mobilitazione Block Bce decidono, con una schivata intelligente, di sciamare per il quartiere Sanità, dove il corteo non ha alcuna difficoltà a farsi capire. Lì hanno le idee molto chiare sulla natura della crisi: un enorme processo di estrazione e di concentrazione di ricchezza, che distrugge quel che resta del welfare, impone precarietà, traduce l’instabilità finanziaria in un tentativo continuo di rafforzamento del comando.

L’autunno si apre insomma con una sintesi piuttosto eloquente: da un lato, si dispiega un tentativo impegnativo, che sarebbe pericoloso sottovalutare, di innestare un’altra marcia nella gestione della crisi. Si intensifica lo sforzo di immettere liquidità nel sistema bancario, e, contemporaneamente, si cerca di motivare le banche a far filtrare questa liquidità nelle imprese. Ma, dall’altro lato, il tentativo di “americanizzare” la Bce, di trasformarla definitivamente in un governo politico della crisi e di farne il centro di una nuova politica espansiva, tocca sempre più il suo limite.

Non si tratta neanche dello scontro della Bce con la tradizionale difesa dell’austerità del governo tedesco: su quel fronte, anzi, si registra la crepa rilevantissima dell’emergere anche lì, nel cuore della politica del rigore, dell’esaurimento della crescita e della crisi della domanda. Il mostro vero che la Bce non sa come fronteggiare non abita (solo) a Berlino: ma è dentro la stessa natura di quella costituzione finanziaria di cui la Bce aspirerebbe ad essere il motore. I mercati finanziari ne hanno dato subito prova, già durante il vertice napoletano, accogliendo con un mezzo tracollo in Borsa le “misure eccezionali” di Draghi: la norma fondamentale della costituzione finanziaria non è nelle mani della Bce.

Le immissioni di liquidità possono assumere anche dimensioni eccezionali, annunciare interventi sui titoli spazzatura, approntare nuovi piani di finanziamento a lungo termine: è l’accumulazione finanziaria a dettare le sue compatibilità. E l’unico modo di convincere il sistema bancario a far passare qualcosa di quella liquidità, di tutta quella moneta ormai a costo zero, è allora, anche per la Banca centrale, quella di insistere, senza scampo e senza alternativa, sulle “riforme di struttura”, o, in altri termini, sul rafforzamento del comando finanziario e sul potenziamento della sua forza estrattiva: intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo, finanziarizzazione dei servizi, saccheggio dei beni comuni. Le dinamiche tra i molteplici centri di potere, tra sistema finanziario, imprese, politiche nazionali, Banca centrale, possono in questo quadro incontrare anche momenti di forte instabilità e conflittualità: ma, comunque, sono obbligate a muoversi dentro il quadro fissato dall’imperativo delle riforme di struttura, non a caso recitato come un mantra da tutti gli attori in campo. Non è un caso: le richieste di “disobbedienza” ai parametri dei Trattati, e persino le ipotesi di rottura dell’Unione monetaria, in questa fase, sono tutte giocate perfettamente all’interno della norma finanziaria. Si può annunciare lo sforamento, come ha fatto la Francia, barcamenarsi tra l’appoggio all’alleato francese e la conferma delle proprie rette intenzioni, come prova a fare Renzi: ma nulla di tutto questo può infrangere il quadro. L’austerity espansiva, così, si rivela per quello che è: iniezione di liquidità tutta divorata dalla rendita finanziaria, in cambio di un’imposizione sempre più rigida delle politiche di sfruttamento, di precarizzazione e di estrazione. Un quadro nel quale una qualsiasi ripresa di politiche di investimento, di segno più o meno keynesiano, sembra quantomeno improbabile, e non certo solo per la ferocia tedesca nei confronti delle dichiarate buone intenzioni del banchiere illuminato o dell’agitazione dei governi mediterranei.

Per le lotte dei movimenti sociali, questo quadro è forse ancor più complicato di quello che offriva la prima fase dell’austerity – tanto più in un momento in cui la guerra investe violentemente l’Europa tanto da Est quanto da Ovest. Ci si trova davanti a politiche che mirano di certo a rafforzare i dispositivi di sfruttamento, ma inseriscono contemporaneamente nuovi momenti di dinamicità nella gestione. Il governo Renzi in questo senso è esemplare: intensifica la precarizzazione, facendo saltare le ultime garanzie residue, e, nel frattempo, si presenta come il superamento di tutte le oramai inutili mediazioni, a cominciare da quella sindacale. Per esempio, spalanca davanti agli occhi del precariato della scuola la riapertura delle assunzioni, e contemporaneamente impone ai futuri assunti obblighi di mobilità insostenibili e una violenta gerarchizzazione delle condizioni di lavoro. Prova quasi a convogliare su di sé la rappresentanza delle voci precarie, a mettere a frutto il generale e giustificatissimo risentimento per la decrepitezza del sindacato, riscopre persino la virtù del contratto a tempo indeterminato. Un tempo indeterminato senza garanzie e servito insieme allo smantellamento del welfare, con la promessa sempre rinviata, perché impossibile in questo quadro, di metter mano alla riforma degli ammortizzatori sociali: un tempo indeterminato che riassume decisamente l’aspetto del lavoro servile. “Sbloccare” è la parola d’ordine generalizzata: ma sbloccare, nel recinto della costituzione finanziaria, significa sostanzialmente giocare la partita del controllo ferreo della mobilità della forza lavoro.  La ricchezza del lavoro vivo viene così continuamente sollecitata, rimobilitata e sottoposta a ricatto: e coerentemente con la natura estrattiva del capitale finanziario, che associa continuamente sfruttamento del lavoro e spossessamento diretto della cooperazione sociale, s’annuncia una stagione di intensa finanziarizzazione dei servizi, che segna un passo oltre le tradizionali politiche di privatizzazione. Resta però il punto decisivo: una simile politica non stabilizza la crisi. La proclamata postausterity, in Italia come in tutt’Europa, risolvendosi comunque nell’inasprimento del comando finanziario, continua ad avere a che fare con l’impossibile costruzione di una vera e propria costituzionalizzazione della finanza: la stessa accumulazione finanziaria continua ad essere continuamente minacciata dallo spettro della deflazione, della crisi radicale della domanda.

Così, dentro l’instabilità costitutiva del comando finanziario, continua ad aprirsi quello spazio dei movimenti sociali che si è manifestato nel ciclo di lotte degli ultimi anni. Il problema sta però nel saper essere all’altezza, nel quadro europeo, di un comando finanziario estremamente dinamico e tendenzialmente centralizzato, con la nuova aspirazione costituente  della Bce, ma attraversato da spinte conflittuali e comunque incapace di stabilizzare la crisi. I movimenti sociali, all’interno di questa trasformazione, hanno saputo sviluppare lotte di una portata molto rilevante, specie quando sono riusciti a collocarsi su quel crinale complesso tra lavoro e vita, sul quale il comando finanziario esercita la sua forza estrattiva. Sono le lotte che abbiamo definito come lotte del “sindacalismo sociale”, che hanno prefigurato connessioni inedite tra rivendicazioni “tradizionali” sul salario, mobilitazioni precarie sul reddito, azioni di riappropriazione dal basso dei servizi, a cominciare dai movimenti per il diritto all’abitare e per il diritto alla città. Su un piano diverso, si sono poi sviluppati gli esperimenti del nuovo mutualismo, che hanno sondato le capacità dell’autorganizzazione della cooperazione sociale sino ad accennare alla costruzione di vere e proprie istituzioni del comune. Sono movimenti dentro e contro la crisi che ci ricordano come siano fuori luogo tutte quelle analisi che dipingono il capitale finanziario come una sorta di Moloch invincibile: la sussunzione reale, il campo della vita integralmente messa al lavoro, segna senz’altro una rottura delle modalità tradizionali della relazione capitale-lavoro, ci consegna a dispositivi di sfruttamento differenziati e comunque molto diversi da quelli del capitalismo industriale, ma questo non significa che la cooperazione sociale si sia fatta debole e silente, anzi la crisi ne ha rivelato ancor più la natura produttiva. Il punto fondamentale, però, è che lo sviluppo, per quanto instabile, della costituzione finanziaria sta modificando complessivamente il piano sul quale tutti questi esperimenti si sono sviluppati, aprendo una fase di crisi evidente anche della forma-movimento, così come si è sviluppata in questo ultimo ciclo. Questo continuo attraversamento di mutualismo e di rivendicazione, di esperimenti di costruzione di istituzioni autonome e di organizzazione del conflitto, ha costituito senza nessun dubbio il patrimonio più importante sedimentato dalle lotte più recenti, sia su scala nazionale che transazionale: è il riconoscimento di una cooperazione sociale forte, produttiva e capace di inventare nuove forme dell’agire. Ma questo addensarsi di risorse e di esperienze, di fronte al differenziarsi e all’intensificarsi dei dispostivi di cattura e di messa a valore, è chiamato ad un processo di trasformazione e di intensificazione.

La rivendicazione, difesa e riappropriazione dei commons non può più eludere il nodo della creazione/invenzione di uno spazio politico complessivo, problema almeno in Italia, a differenza per esempio di quanto è accaduto per diversi aspetti nell’esperienza spagnola, rimasto non solo irrisolto, ma spesso neanche realmente tematizzato: l’evoluzione della crisi fa tramontare – finalmente! – qualsiasi possibilità di interpretare il comune come uno spazio “terzo”, semplicemente interstiziale, tra pubblico e privato, e richiede che le esperienze di invenzione istituzionale riprendano la discussione sul senso dell’azione politica.  Altrimenti, l’alternanza di atti di brutale normalizzazione (la sequenza degli sgomberi degli spazi occupati è eloquente) e di cooptazione in nome di un commons management, già costantemente perseguito dai gestori più avvertiti della crisi, rischia di consegnare quel patrimonio di esperimenti alla dispersione o a un destino di sussidiarietà residuale. D’altro canto, le molteplici esperienze del “sindacalismo sociale” si trovano davanti ad un passaggio simile: il mix ibrido, produttivamente ibrido, tra mutualismo e conflitto non può più evitare la costruzione di forme organizzative capaci di assicurare efficacia e stabilità all’azione politica, e capacità reale di aggredire i meccanismi finanziari di scomposizione e ridefinizione continua dello spazio pubblico.

Nel recente seminario di Passignano, Euronomade ha messo a tema la necessità di questo passaggio, la necessità, insieme, di un’intensificazione dell’invenzione istituente della cooperazione sociale, ma anche di una politicizzazione complessiva delle sue forme: in sintesi, e con una evidente semplificazione, abbiamo evocato una “critica dell’orizzontalismo” dei movimenti e la necessità di un ripensamento radicale e non elusivo del problema del potere. Intendiamoci: il problema del potere, per la cooperazione sociale contemporanea, non ha evidentemente nulla a che fare né con la riproposizione della rappresentanza, né con forme più o meno simboliche di rappresentazione del conflitto. Si tratta semmai di potenziare insieme sia il lato del mutualismo che quello del conflitto, riappropriandosi di volta in volta della decisione comune sulle funzioni “costituzionali” che la finanziarizzazione disarticola e prova a finalizzare alla ripresa dell’accumulazione; di connettere in nuove forme organizzative complessive le iniziative di produzione di welfare dal basso, inventando le modalità perché queste forme possano essere effettivamente vissute e agite dalle soggettività contemporanee, mobilissime ed eterogenee; infine, ma è probabilmente l’elemento decisivo che solo può rendere realistica un’azione di riappropriazione del potere di decisione democratica, di continuare a lavorare sull’indispensabile salto di scala dell’azione politica dei movimenti: da quella incapacitante degli spazi nazionali a quella delle intersezioni nello spazio europeo. Ci sembra di vedere, nelle pratiche che si affacciano a questo autunno, molti segni che un lavoro in questa direzione è effettivamente praticabile: il laboratorio del social strike, per esempio, assume la dimensione europea delle rivendicazioni di salario minimo, di reddito di base e di nuovo welfare e, contemporaneamente, sperimenta il ripensamento radicale dell’organizzazione delle lotte e della negoziazione politica, oltre la dimensione dello stesso sindacalismo sociale. Del resto, un autunno che si è aperto ponendo come centrale il ruolo e la funzione della BCE, e lo ha fatto mostrando una grande capacità di coinvolgimento e di apertura “sociale” proprio sul tema fondamentale della nuova costituzione “politica”, ci chiama a lavorare con un qualche rinnovato ottimismo della ragione.

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