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Perchè la sinistra deve tornare ad essere radicale e di classe

Intervista a Marco Veronese Passarella

Serov AriseAbbiamo rivolto qualche domanda a Marco Veronese Passarella, docente di economia presso l’Università di Leeds e co-autore con Emiliano Brancaccio del libro: “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa”. Come era già accaduto alla Scuola di formazione estiva del Collettivo Stella Rossa, dalla conversazione che abbiamo avuto sono emersi diversi temi, non soltanto tecnici, ma anche politici, sociali, culturali.

* * *

“CSR: In Italia, si guarda molto alle esperienze della sinistra radicale di altri paesi europei, in particolare di Spagna e Grecia. Gianis Varoufakis, però, ha recentemente rilasciato un’intervista in cui critica le recenti scelte del governo di Syriza e parla delle politiche di austerità che potrebbero derivare da un governo di coalizione fra Socialisti del PSOE e Podemos.

MP: Vi sono delle similitudini fra il caso greco e quello spagnolo. Personalmente, se proprio devo scegliere, mi sento più vicino a Syriza che a Podemos. Podemos non ha un chiaro riferimento di classe nel suo programma. Sostanzialmente, è un movimento sganciato dalla topologia politica tradizionale. Il che di per sé non è una cosa negativa. Solo che non mi è chiaro quale sia la loro idea di società e come pensino di darle corpo. D’altra parte, Varoufakis ha ragione quando sostiene che non vi sono margini di agibilità politica dentro l’Unione Europea. Il rischio, infatti, è che tutti i governi, anche i più progressisti e ben intenzionati, facciano come in Grecia.

 

CSR: Parlando di Grecia, a settembre il paese è tornato alle urne. Syriza si è epurata dall’ala sinistra di Unità popolare, che si era posta in rottura con i cedimenti verso l’Eurogruppo. La Troika e FMI sembrano aver commissariato la democrazia parlamentare ed il programma di riforme sociali è pesantemente condizionato da tagli, privatizzazioni e aiuti stanziati dalla comunità europea. Che giudizio dai dei due governi Tsipras?

MP: Non ho visto una cesura netta tra il primo e il secondo governo Tsipras. Si era partiti dall’idea di contestare le istituzioni europee e dal rimettere in discussione la riduzione del debito pubblico e i trattati internazionali, promettendo alla popolazione greca un superamento o almeno un allentamento delle misure di austerità. Si erano illusi di poter ottenere tali risultati sedendosi al tavolo delle trattative con la Troika. Sta di fatto che non hanno ottenuto alcuno dei risultati sperati. Bisogna prendere atto del divario fra speranze suscitate e risultati ottenuti.

 

CSR: Alcuni paesi, soprattutto quelli dei cosiddetti PIIGS, potrebbero ricorrere all’uscita dall’Eurozona come sbocco alla crisi economica. Ritieni plausibile la possibilità che l’UE imploda su se stessa?

MP: Qualche anno fa, Emiliano Brancaccio ed io parlammo di una possibile implosione dell’Area Euro in caso di un nuovo shock esterno, come il crollo del sistema bancario e finanziario. In assenza di tale shock, lo scenario inevitabile è invece quello di una lenta desertificazione delle periferie europee. Il primo vero shock esterno che ha investito l’Eurozona è stato quello generato dall’esplosione della bolla immobiliare, creditizia e finanziaria degli USA nel 2007, che ha fatto da innesco alla cosiddetta crisi dei debiti sovrani europei. Ecco, penso che un nuovo urto di quel tipo potrebbe portare ad un processo di implosione dell’Area Euro e perfino rimettere in discussione l’Unione Europea.

 

CSR: L’estrema destra avanza in tutta Europa cavalcando i temi della lotta all’immigrazione e dell’uscita dall’UE. Nella sinistra radicale, dove prolifera la confusione, si sta sviluppando un dibattito sull’accettare o meno la moneta unica ed i vincoli Maastricht. Qualcuno propone di uscire dall’Euro. Cosa ne pensi?

La crescita della destra xenofoba e populista è inquietante. Ma era facilmente prevedibile. Nel 2011, Emiliano Brancaccio mi coinvolse nel progetto che portò alla stesura dell’”Austerità è di destra” proprio per via, così mi disse, del rischio di lasciare alla destra la critica dell’Unione Europea e della moneta unica. È anzi probabile che la destra populista continui a crescere cavalcando la retorica del “no Euro”, ma declinandola in termini di guerra tra lavoratori autoctoni e immigrati, utilizzati dai capitali europei come esercito industriale di riserva. In generale, l’avanzata delle destre xenofobe è l’altra faccia della medaglia della crisi dell’Unione Europea. Anche qui in Inghilterra la situazione si sta deteriorando. Proprio come accade in Italia, anche qui si accusano i lavoratori est-europei, ma anche italiani, greci e spagnoli, che sono in forte aumento, di “rubare il lavoro” agli inglesi. Sono anche formazioni politiche non estremiste, come il Partito Conservatore, a cavalcare questi sentimenti. Il punto è che esistono condizioni materiali per cui il razzismo possa proliferare. Un flusso crescente di immigrati è percepito come una minaccia dalle classi lavoratrici autoctone. Certo, il paradosso è che, statistiche alla mano, l’Italia è ormai caratterizzata da un saldo migratorio negativo…

 

CSR: L’Italia starebbe meglio fuori dall’Euro?

MP: Dipende tutto dal “come” si intende uscire dalla moneta unica. Occorre peraltro distinguere l’Italia dagli altri paesi dell’Area Euro. Il nostro paese ha una struttura industriale ancora relativamente più avanzata, nonostante la crisi e i processi di svendita e le acquisizioni estere. In linea teorica, se l’Italia abbandonasse la moneta unica, si troverebbe ad affrontare un periodo difficile– nell’ordine di uno o due anni – per via dell’instabilità finanziaria e valutaria che ne conseguirebbe. Tuttavia, superato l’impatto iniziale, la situazione dovrebbe migliorare progressivamente. Quanto alla ripartizione di benefici e costi dell’uscita, sarebbe determinata dalle modalità di uscita. È una possibilità che deve essere discussa in ogni caso.Venendo ai possibili benefici di una svalutazione della nuova moneta nazionale rispetto alle valute dei paesi del “centro”, tale beneficio potrebbe effettivamente materializzarsi in alcune regioni a forte vocazione esportatrice, come per esempio il Veneto. Tuttavia, non è escluso che ciò potrebbe danneggiare altre regioni, soprattutto nel Mezzogiorno. Non vi sarebbero invece particolari spinte inflazionistiche, perché la svalutazione non sarebbe comunque drammatica e anche perché siamo ben lontani dalla soglia di piena occupazione. Di certo, però, bisognerebbe pensare ad un meccanismo di difesa del potere contrattuale di salariati e pensionati. Inoltre, la svalutazione della moneta nazionale in una congiuntura economica mondiale non favorevole non presenta gli stessi vantaggi di una svalutazione in periodi di forte crescita internazionale. Certo, il ritrovato surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti consentirebbe all’Italia di recuperare nel tempo un piccolo margine di sovranità monetaria e fiscale. Il guaio vero, in ogni caso, è chi gestisce l’uscita. Quali interessi di classe si mettono alla guida di questo processo. Un conto è se sono gli interessi del capitale nazionale, magari della sua parte più regressiva. Un altro è se lo sono quelli dei salariati e in generale della parte più progressista del paese. E al momento non c’è da essere troppo ottimisti.

 

CSR: Volevamo porti una domanda un po’ inconsueta. Come vivi la tua condizione di emigrante?

MP: In genere, chi viene dal Sud Italia soffre di più in distacco dalla propria terra e dai propri legami affettivi. Io vengo da una zona nebbiosa… Battute a parte, non ho intenzione di rientrare in Italia, soprattutto perché non vedo prospettive di lavoro (non precario) per me e mia moglie, anche lei ricercatrice universitaria. In generale, la situazione italiana è preoccupante.Il paese non cresce da vent’anni. È in atto da tempo un processo di deindustrializzazione e desertificazione economica. Se continua così, tra qualche anno rimarrà ben poco del paese che si risollevò nel corso del secondo dopoguerra. Non è solo una questione economica. Il declino riguarda ormai ogni aspetto della vita italiana: politico, sociale, culturale, persino sportivo…

 

CSR: Parlando di Inghilterra, Corbin sta tentando di imprimere una svolta radicale al Labour party. Lo fa parlando apertamente di socialismo. Ritieni che lo scenario inglese sia più avanzato rispetto all’Italia?

MP: In Inghilterra la situazione politica è oggettivamente più fluida. La recente affermazione di Corbin nel Partito Laburista ha riacceso molte speranze. In molti, giovani e meno giovani, si sono avvicinati o riavvicinati al partito. Un partito che, pur avendo subito con Blair un’involuzione Thatcheriana, ha mantenuto in alcune sue componenti un legame con le classi lavoratrici e le organizzazioni sindacali. Al punto che molte delle organizzazioni comuniste in Gran Bretagna non fanno mistero del loro sostegno al Labour di Corbin. Certo, le contraddizioni economiche e sociali qui non mancano. C’è tutt’ora una bolla speculativa piuttosto evidente nel settore immobiliare che alimenta la concessione di credito alle famiglie. L’economia è in ripresa, ma i salari sono al palo e, come ti dicevo, le tensioni sociali alimentate dall’afflusso di immigrati nel paese aumentano.

 

CSR: Recentemente hai scritto una riflessione su facebook circa il Movimento che contestò il g8 a Genova nel 2001. In effetti, si parla di quella esperienza secondo la narrazione neoliberista, ossia che si consumò uno scontro fra forze dell’ordine e black-bloc. Tu, invece, ponevi l’accento sul fatto che quel movimento è stato l’ultimo, in ordine cronologico, a contrapporsi alla globalizzazione capitalista e a tentare di ricostruire, su basi internazionaliste, forme di democrazia diretta.

MP: Quello che è stato ribattezzato come “movimento No global” fu in grado di mobilitare una fetta importante della società italiana, dal mondo cattolico ai centri sociali. Penso che le questioni sollevate da quel movimento siano ancora valide. È a partire da quella contestazione al progetto di mondializzazione capitalistica che bisogna lavorare per costruire un nuovo soggetto organizzato, nell’attesa che si producano nuovamente le condizioni affinché il conflitto sociale riemerga e assuma una dimensione di massa. Fuori dall’Italia, in anni più recenti, avevo sperato molto in un risveglio dell’America latina. Solo che è “bastato”, per dir così, un cambio della congiuntura economica internazionale, la caduta del prezzo del petrolio, permettere in stallo quei processi rivoluzionari e produrre anzi un’inversione di tendenza.

 

CSR: Secondo te, allora, quali sono i processi sociali più innovativi in questo momento?

MP: Paradossalmente, è più fluida la situazione nel mondo anglosassone. Non solo per via dell’affermazione di Corbin, ma anche per l’ascesa di Sanders nel Partito Democratico statunitense. Nel continente, dopo il suicidio politico di Tsipras, le novità rimangono il Movimento Cinque Stelle in Italia e Podemos in Spagna. Non riesco però a riconoscermi troppo in quei soggetti politici. L’invocazione di forme di democrazia diretta, che finisce per sfociare in forme paradossali di culto del leader, è anzi proprio il portato del tradimento delle istanze di partecipazione alimentate dal movimento no global.

 

CSR: Un’ultima domanda, quella da un milione di dollari… Esiste una via d’uscita dalla marginalità in cui sono relegati la sinistra radicale ed i comunisti in Italia?

MP: Uno dei principali problemi della sinistra radicale italiana sta nel non riuscire a mettere da parte la vecchia classe dirigente. Nessuna concessione al giovanilismo di Renzi. Anzi. Il punto, però, è che senza un ricambio, anche generazionale, non ci può essere alcuna rigenerazione della sinistra radicale italiana. L’unità, in ogni caso, non può venire da ammucchiate elettorali. Le recenti affermazioni di Corbin e Sanders impongono, peraltro, anche una riflessione sulla relazione tra radicalità e popolarità delle proposte politiche. Proprio nelle fasi di crisi emerge una domanda di radicalità. Di riferimenti forti. E di radicamento. È a quella domanda che le organizzazioni che si riconoscono nella tradizione di lotta e di pensiero comunista, socialista e anarchica devono dare una risposta, per evitare che quello spazio venga occupato dalle forze più regressive del paese. È tempo di tornare a parlare di alternativa di società. È su questo, credo, che anche Rifondazione Comunista dovrebbe fondare il proprio rinnovamento.”

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Claudio
Wednesday, 17 February 2016 21:07
Errata corrige. I dati del passo: " A tale proposito non sarebbe male ricordare com’è stata gestita l’entrata, dell’euro, in cui è stato praticato un doppio cambio, a 1000 £ per 1 € per lavoratori dipendenti e pensionati, a circa 2000 per tutti gli altri" vanno come ovvio rovesciati e cioè cambio 2000 £ per 1 € per lavoratori dipendenti e pensionati; cambio a circa 1000 per tutti gli altri. Scusate.
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Claudio
Wednesday, 17 February 2016 17:48
Innanzitutto conviene precisare, nello scritto si sta parlando della sinistra democratico/borghese, italiana ed internazionale, non di qualcos’altro, come viceversa lascerebbe presumere il titolo. Precisato ciò, bisogna prima di tutto partire dal fatto che l’attuale sistema capitalistico di produzione è entrato in una crisi profonda, come sistema produttivo e come sistema sociale, in quanto storicamente ha fatto il suo tempo. Ad accelerarne gli eventi, è stata la smisurata bramosia di profitto della grande finanza neoliberalista, la quale ha: lanciato la guerra globale al salario, depauperato le classi medie, spinto le organizzazioni statuali ad intervenire, al di là di ogni plausibile ragione economica -ma soltanto per dover soddisfare al principio, imposto dalla stessa grande finanza, di “privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite”- nel sostegno di aziende e banche al collasso, per cui anche gli stati si sono indebitati oltre ogni ragionevole misura, ed ora non sono più in grado di poter sostenere quei grandiosi investimenti pubblici che presumibilmente sarebbero necessari per cercare di rilanciare consumi e produzioni. All’interno di questo sistema produttivo e sociale, non c’è quindi soluzione.
Passando ai contenuti dell’intervista, vedo che si continua insistentemente a menarla con l’uscita dall’euro, come se esso fosse la vera ed unica causa dei molteplici mali che affliggono l’Italia e l’Europa. Non sono ovviamente dovuti a ciò, o lo sono soltanto in minima parte. Infatti, se non ci fosse stata la moneta comune, come nazione saremmo in condizioni senz’altro peggiori, se non altro perché avremmo avuto, durante tutti questi anni di presenza dell’euro, tassi d’interesse ben superiori (avete dimenticato la crisi dei debiti sovrani? Bene, tale situazione l’avremmo avuta anche durante tutti i dieci anni precedenti), ed avremmo pagato materie d’importazione in generale, e petrolio e gas in particolare, a molto più caro prezzo. Sul punto l’intervistato dice alcune cose sagge: “abbandonando la moneta unica (l’Italia) si troverebbe ad affrontare un periodo difficile”, ma non solo per un paio d’anni com'egli dice. Concordo con l’intervistato anche quando afferma “Quanto alla ripartizione di benefici e costi dell’uscita (dall’euro), sarebbe determinata dalle modalità di uscita”. A tale proposito non sarebbe male ricordare com’è stata gestita l’entrata, dell’euro, in cui è stato praticato un doppio cambio, a 1000 £ per 1 € per lavoratori dipendenti e pensionati, a circa 2000 per tutti gli altri. Passando “ai possibili benefici di una svalutazione della nuova moneta nazionale… (Dopo alcune considerazioni sulle diverse situazioni regionali e produttive, l’intervistato così prosegue):. “Non vi sarebbero invece particolari spinte inflazionistiche, perché la svalutazione non sarebbe comunque drammatica... ”. Su quest’ultima affermazione ho l’impressione che l’intervistato faccia i conti senza l’oste, del mercato, che visti i precedenti … E così conclude la parte: “Il guaio vero, in ogni caso, è chi gestisce l’uscita. Quali interessi di classe si mettono alla guida di questo processo. Un conto è se sono gli interessi del capitale nazionale, magari della sua parte più regressiva. Un altro è se lo sono quelli dei salariati e in generale della parte più progressista del paese. E al momento non c’è da essere troppo ottimisti”. Io penso che in materia di dubbi proprio non ve ne possono essere. Finché continueremo a vivere in una società borghese, a gestirla saranno i capitalisti, o chi per loro, non certamente i proletari, i cui interessi potranno essere affermati soltanto se prendono per d’avvero il potere e cambiano radicalmente il sistema sociale, superando il sistema di salario e profitto, e lo sfruttamento della forza-lavoro da parte dei capitalisti. A tale riguardo, la Grecia insegna, ma non soltanto essa, dal momento che gli esempi storici abbondano .
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