Print Friendly, PDF & Email

ilpungolorosso

Cremaschi, i suoi 1.000 orologi e la truffa “sovranista” di Eurostop

La redazione di “il cuneo rosso”

In calce una prima risposta  di Giorgio Cremaschi  e una replica di "Il cuneo rosso"

022 zafL’assemblea di Eurostop tenutasi a Roma il 28 gennaio scorso merita due note di commento. Nulla che passerà alla storia, intendiamoci. È solo cronaca. Cronaca di una delle tante forme, in Europa, di accodamento delle sinistre alla tematica, imposta dalle destre iper-nazionaliste, dell’uscita dall’euro e dall’UE come (falsa) via maestra per risolvere i gravi problemi sociali creati dalla crisi del sistema capitalistico. Le tesi presentate a Casalbruciato erano già state presentate nelle precedenti iniziative di Eurostop. Però un paio di cose almeno in parte nuove, ci sono state. Anzitutto l’estrema nettezza con cui è emerso il messaggio politico effettivo di Eurostop, soprattutto grazie all’ospite d’onore del consesso, il magistrato Paolo Maddalena. E poi la violenza verbale, il sarcasmo con cui il mite Cremaschi si è ritenuto in dovere di attaccare ogni prospettiva di lotta che sia fondata su basi di classe, quindi internazionaliste, anziché, com’è l’Ital-exit, su basi democratiche e popolari, e quindi nazionali e nazionaliste.

Il documento preparatorio dell’assemblea e l’intervento introduttivo di Cremaschi hanno come loro termine-chiave la rottura. Rottura con che cosa? Con l’euro e l’UE – la Nato, sebbene nominata, è rimasta molto sullo sfondo; si è parlato ben poco delle guerre Nato, e meno ancora del militarismo e dell’imperialismo italiano. Rottura con “la globalizzazione liberista”: è questo il nemico dal cui dominio affrancarsi, in un processo di “liberazione dal capitalismo liberista”.

Per quale obiettivo? Riaffermare “la sovranità democratica e popolare del nostro paese“. Si tratta, perciò, quanto al nemico, di un nemico essenzialmente esterno all’Italia. Altrimenti che senso avrebbe parlare di recupero di sovranità? E, quanto al movimento politico da mettere in campo, si tratta di un movimento che punta al “cambiamento progressista”. Un progresso che è costituito curiosamente da un ritorno all’indietro. Infatti la rottura proposta da Cremaschi “è riconquista di democrazia, potere popolare, eguaglianza sociale”. Naturalmente anche il socialismo è evocato, è d’obbligo in simili discorsi; non guasta, come lo zucchero a velo sul pandoro (a chi piace). È evocato, in coda, anche il conflitto di classe, che deve portare energia al progetto “sovranista” di sinistra: costituirne cioè la manovalanza. Ciò non toglie che esso si presenti con margini di ambiguità tali da poter coinvolgere, forse, anche settori di lavoratori e di giovani disposti realmente a lottare. È questo il solo motivo per cui ce ne occupiamo.

L’ospite d’onore, Maddalena, vice-presidente emerito della Corte Costituzionale, ha avuto il merito di spazzare via una buona parte delle ambiguità di partenza dell’assemblea mettendo chiare le carte in tavola per tutto il circo social-nazionalista lì presente. L’anziano giurista ha tenuto una vera e propria lezione (non i 7 minuti a testa degli interventi). Divisa in due parti: una di economia, l’altra di politica. Quella sul capitalismo contemporaneo è stata a dir poco sgangherata perché ha ripetuto, per giunta male, la fregnaccia secondo cui il capitale finanziario è colpevole di ogni male sociale, come se il capitale finanziario fosse un’altra cosa dal capitale senza altri aggettivi e specificazioni. La seconda parte del suo discorso, più lineare, più competente, più esplicitamente politica, è stata un peana per la “nostra meravigliosa Costituzione”. Specie per l’art. 42, perché pone limiti alla proprietà privata (si è visto negli scorsi 70 anni, e più ancora negli ultimi 30!) e le mette accanto, alla pari, anzi: al di sopra, la proprietà pubblica (in realtà, statale).

La parte economica della lezione ha opposto tra loro keynesismo e neo-liberismo, due politiche che tutto sono salvo che opposte, essendo entrambe espressione di differenti, e complementari, necessità capitalistiche (questa opposizione fasulla era rimasta sottotraccia nella relazione di Cremaschi). Al keynesismo ha rivendicato il merito della spesa sociale dello stato, come se essa facesse parte organica delle politiche keynesiane – una tesi sostenibile solo ignorando tutto del keynesismo reale, specie quello di guerra (il keynesismo più vero!) da un lato, e dall’altro ignorando che solo le lotte della classe lavoratrice e lo sfruttamento imperialista hanno consentito un po’ di welfare a tempo in Occidente e in Italia. Così al summit di Eurostop Keynes, il Lord britannico speculatore di borsa dal feroce spirito anti-proletario, è uscito con l’aureola di santo salvatore di coloro che si sudano la vita a salario, quando ce l’hanno, il salario. Al neo-liberismo, per contro, Maddalena ha accollato tutti i frutti maligni del capitalismo. Inclusa, per intero, la crisi del 2007-2008 in quanto prodotta da una “deformazione dell’attuale sistema economico”, che senza le deformazioni neo-liberiste sarebbe evidentemente un’economia differente, messa bene in forma, esente da crisi. Puerilità desolanti.

Quanto al suo messaggio politico, lo si può condensare così: la “nostra meravigliosa Costituzione” è keynesiana, e ad essa si deve tornare, ribellandosi alle legislazioni europee, scritte e approvate da “traditori della patria” (testuale, come tutto ciò che è qui tra virgolette). Per fare che cosa? Per “ricostituire l’unità del popolo italiano”, la “nostra comunità politica” fondata sulla triade popolo-territorio-sovranità, cioè la nazione – dobbiamo specificare: borghese? In coda il “programma concreto”: no alle privatizzazioni e alle delocalizzazioni, nazionalizzazione dei terreni abbandonati, riconquista del territorio italiano, etc., con lo stato, la “proprietà pubblica”, nella parte dell’eroe buono di tutta la storia, che ha il compito di riportare all’unità le diverse componenti del “popolo”, anzitutto quindi il capitale e il lavoro.

Applausi. Applausi caldi. Applausi generali, filiali, riconoscenti – un intervento “ricco e stimolante”, l’ha definito un esponente della Rete dei comunisti… Applausi più convinti di quelli riservati alla relazione di Cremaschi, per non parlare poi degli altri interventi. Applaudiamo anche noi. Perché Maddalena ha spiattellato, forse senza esserne cosciente fino in fondo, qual è, spogliato dalla fuffa che lo ricopre, il reale contenuto della “rottura” evocata con consumata demagogia da Cremaschi: il ritorno, in economia, ad una politica keynesiana e, in politica, alla repubblica parlamentare come strutturata dalla Costituzione. Del resto, il punto 13 del documento preparatorio dell’assemblea coincide alla virgola con la prospettiva esposta dall’ospite d’onore, un democristiano di lungo corso, a suo modo dignitoso come nemico di classe:

“La rottura punta alla regressione della globalizzazione, per far avanzare di nuovo una democrazia fondata sulla eguaglianza sociale. Nel referendum costituzionale abbiamo misurato il contrasto strategico tra la Costituzione del 1948 e la governance europea e occidentale. Bisogna agire su questo contrasto e trasformarlo in rottura politica: o la Costituzione antifascista, o l’Euro, la UE, la Nato“.

Ovvero: usciamo dall’euro e dall’UE per tornare alla nazione, alla sovranità nazionale – altro punto essenziale trattato da Maddalena; a una nazione che abbia a suo punto di riferimento la Costituzione del 1948. Cremaschi ha la faccia di bronzo di definirla “fondata sull’eguaglianza sociale”. Fondata sull’eguaglianza sociale? Con tanto di protezione della proprietà privata dei mezzi di produzione “riconosciuta e garantita dalla legge”? Con tanto di divieto costituzionale al “popolo sovrano” di esprimersi in materia di fisco, essenziale strumento della lotta di classe dall’alto contro i lavoratori? Una Costituzione in “contrasto strategico con l’euro, la UE, la Nato”? Ma quale narrazione inventa? I padri della Costituzione del ’48, libro sacro di Eurostop, sono stati, all’unanimità o a maggioranza, tra i promotori del processo di unità economica-politica dell’Europa e della nascita della Nato – protetti a priori, nella “nostra meravigliosa Costituzione”, dal divieto al suddetto “popolo sovrano”, che secondo Maddalena sarebbe addirittura il produttore delle leggi, di immischiarsi nelle faccende di somma importanza quali i trattati internazionali, come quelli istitutivi della Nato, dell’Unione europea, dell’euro, che non possono essere neppure oggetto di referendum (art. 76).

La nazione, il paese, il nostro paese, il popolo italiano, la nostra comunità politica: questo il soggetto chiamato in campo dalla “rottura” evocata da Cremaschi e dagli altri, con formule tratte pari pari dall’armamentario classico del nazionalismo, dello stalinismo (il fronte popolare) o da quello più slavato di Landini (l’esperienza coalizionale…). Formule rese subito elastiche, quanto al riferimento alle classi sociali e alle forze politiche con cui consorziarsi, da alcuni aggressivi interventi “anti-settari”, che hanno invocato a gran voce “la più vasta unità del popolo italiano“, e proposto con decisione la massima apertura ai cinquestelle. C’è chi, come Porcaro, si è spinto fino a dire: finiamola di aver paura del termine nazione, e/o interessi nazionali! E anche della bandiera sarà il caso di discutere. Di quella tricolore, beninteso. Qui si è fermato: il resto delle porcate, la prossima volta. Ha però anticipato il tema: se è vero che siamo stati sempre con Cuba e con il suo “patria e socialismo”, perché fare tanto gli schizzinosi con la nostra patria? Ed ecco, con un pessimo gioco di prestigio, messi sullo stesso piano, qualunque cosa si pensi del “socialismo” di Castro e Guevara, un paese dominato dall’imperialismo che si è battuto per decenni, a suo modo, contro il massimo degli imperialismi, e un paese come l’Italia, imperialista da un secolo e passa, che da solo o in varie e variabili alleanze imperialiste, aggredisce, bombarda, inquina altri paesi, super-sfruttando i proletari e i contadini di altri paesi in Est Europa, in Medio Oriente, America Latina, Africa in combutta col super-imperialismo yankee. Definitelo come volete: imperialismo straccione, a scartamento ridotto, di secondo rango rispetto alla Germania, ma sempre imperialismo – secondo i calcoli attendibili di J. Smith, all’ottavo posto nel mondo per la spremitura del lavoro fuori dalle proprie frontiere e anche, grosso modo, per il numero delle proprie missioni militari all’estero (se non come spesa bellica).

Dunque il 28 gennaio Eurostop ha iniziato a sdoganare apertamente, oltre al tema del recupero della sovranità nazionale, la difesa della patria. Cosa, del resto, inevitabile, data l’intima connessione tra i due temi. L’ha fatto, si capisce, da sinistra. Con tanto di formule fumose sull’Ital-exit gestita dal basso, sulla “rottura sociale”, i diritti democratici, le “città ribelli”, la “cittadinanza europea” (ma non volete uscire dall’UE?), la “questione sociale”, le nazionalizzazioni, etc. La sostanza di fondo però è: uscire dalla globalizzazione, o far regredire la globalizzazione, rompendo con euro e Unione europea, mettendosi in proprio come nazione, liberi dai lacci e lacciuoli di Bruxelles e Berlino. Per andare dove? Ovvio: per andare, anzi per restare, dove non si può non essere nel XXI secolo: nel mercato mondiale globalizzato. Poiché non si esce certo dal mercato mondiale cambiando la moneta o uscendo dall’Unione europea, ma solo – e peraltro in misura molto parziale – con la rottura rivoluzionaria del potere politico del capitale e l’avvio della trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali capitalistici.

Promettere di ‘uscire dalla globalizzazione’, come fanno Cremaschi e le forze politiche e sindacali riunite in Eurostop, è una pura e semplice truffa. L’antesignana della rottura con la UE May, premier tory del Regno Unito, l’ha detto chiaro: vogliamo liberarci dai lacci UE per stare più di prima sul mercato globale, per starci come una potenza globale, per giocare da soli, in proprio, la nostra partita. ‘Uscire dalla globalizzazione’? Neanche se ne parla. Semmai starci ancora più a fondo dentro accentuando la propria competitività come nazione. Il che significa accentuando al massimo la competizione tra i proletari britannici, o che vivono nel Regno Unito, e i lavoratori di tutti gli altri paesi, e creando nel Regno Unito condizioni di maggior favore per la profittabilità del capitale e il suo rafforzamento. Un programma al 100% anti-proletario, pur se condito di grasse e falsissime promesse ai proletari britannici. Sulla stessa linea Tremonti, uno dei primi e più abili ad alimentare in Italia la “rivolta” anti-tedesca e anti-UE, a cui si accoda la sinistra “sovranista”: “Credo che nello spirito dei tempi e nell’andamento della storia si apra una fase sovranista, che non vuol dire chiudersi, ma difendere quello che hai e valorizzarlo sull’esterno“. Accrescere la competitività della nazione-Italia nel mondo, nella economia mondiale, anche attraverso misure di tipo mercantilistico e lo sganciamento dall’UE. Sganciarsi dai vincoli europei, liberarci dal “dominio di Germania e Francia” per valorizzare di più il capitale made in Italy “sull’esterno”, cioè nel mercato mondiale. Questa la prospettiva disegnata dalla destra più aggressiva di Salvini, Fratelli d’Italia, Tremonti e parte di Forza Italia, nonché dal vertice del partito-azienda Grillo-Casaleggio, indiscutibilmente di destra, e non a caso sodale dei tipi Farage, o no?

Eurostop propone un emendamento a questa prospettiva (contro cui, peraltro, non si sono sentite veementi critiche all’assemblea di Eurostop): sì allo sganciamento da euro e UE, proposto in tutta Europa da una parte delle destre, ma per ritornare al welfare e alla Costituzione attraverso un “nuovo sistema economico e politico, che non è ancora socialista, ma che non è più quello ordoliberista”. Rompere con l’UE e l’euro per “far avanzare di nuovo (?!) una democrazia fondata sulla eguaglianza sociale”. Quel “di nuovo” è tutto un programma, perché sottintende che già si avanzò un tempo in questa direzione sotto la guida della Costituzione, mentre gli unici avanzamenti che ci sono stati, sono stati il frutto delle lotte operaie e sociali. Lo è altrettanto il vaghissimo concetto di “eguaglianza sociale” che, se fosse preso alla lettera, significherebbe avanzare verso una società senza classi, senza proprietà né privata né statale dei mezzi di produzione, mentre in questo contesto significa tutt’altro: tornare indietro verso una meno diseguale ripartizione della ricchezza sociale capitalisticamente prodotta – che è il massimo degli obiettivi possibili, evidentemente, per Cremaschi&Co., per tutta una fase storica.

Non varrebbe la pena di perder tempo a mostrare quanto questa ‘via d’uscita progressista’ dai mali che affliggono oggi la classe lavoratrice, costituisca una truffa nella truffa, dal momento che la sola cosa che l’uscita dall’euro garantirebbe di sicuro è la svalutazione dei salari come effetto immediato della svalutazione della moneta e, perciò, l’intensificata pressione sui lavoratori per accrescere i propri orari di lavoro e la loro produttività. Non varrebbe la pena, se non fosse che tale ipotesi sta guadagnando strada tra i lavoratori, sempre più tentati, nella loro passività e, al momento, nella loro sfiducia in sé stessi come classe, da questa scorciatoia. Sempre più tentati dal dare il loro voto nelle prossime elezioni alle formazioni politiche che con più decisione ventilano l’uscita dall’euro.

A dire di Cremaschi nell’attuale stasi delle lotte c’è, però, una cosa interessante: il “rifiuto del sistema” e delle “sue élites” da parte delle “classi subalterne” che, per quanto contraddittorio e distorto, va raccolto e orientato in senso… sovranista “sociale”. Ora, è vero che c’è un crescente distacco e una crescente avversione di una consistente parte dei lavoratori salariati e dei precari nei confronti dell’élite politica e, solo in parte, di quella economica. Ma questo processo, invece che deviato in senso nazionalistico contro nemici esterni, andrebbe aiutato a radicalizzarsi su contenuti e obiettivi di classe contro il nemico che è ‘in casa nostra’, i capitalisti e il governo Gentiloni che comandanosulle nostre vite con il pieno sostegno dei poteri forti del capitale globale.

Per noi la vera rottura da operare è quella della passività, della pace sociale, con il ritorno alla lotta. Alla lotta di classe dispiegata contro i capitalisti e le compatibilità capitalistiche che, tanto dentro quanto fuori dall’euro e dall’UE, hanno soffocato i proletari negli scorsi decenni. Rilanciare la lotta di classe per consistenti aumenti di salario sganciati dalla produttività; per la riduzione generalizzata e drastica dell’orario di lavoro a parità di salario e senza contropartite; per l’azzeramento del debito di stato, che è un debito di classe esploso in Italia per decisione del nostro keynesiano Andreatta, con l’immancabile concorso del santone keynesiano-liberista Ciampi; per la riconquista dell’agibilità sui luoghi di lavoro; per il ritiro immediato di tutte le missioni militari del nostro imperialismo; per l’abolizione di tutta la legislazione contro gli immigrati; per la difesa intransigente, solidale dei piccoli settori di classe più attivi oggi duramente aggrediti (il pensiero non può che andare, qui ed ora, ai facchini della logistica); per la rinascita del movimento e dell’organizzazione di classe – questi, se ci si pone dal punto di vista degli interessi dei lavoratori, gli obiettivi da perseguire, questo il programma politico e sociale di lotta nell’immediato! Altro che scimmiottare da sinistra le parole d’ordine delle più reazionarie tra le destre europee!

È proprio a questo proposito il secondo aspetto parzialmente nuovo dell’assemblea del 28 gennaio. Nella quale, a iniziare dal documento preparatorio, Cremaschi&C. hanno messo nel mirino quanti si rifiutano di sposare il loro nazionalismo sociale. “Altre forze (…) rifiutano di accodarsi alle social-democrazie, ma fuggono dalla realtà della politica rifugiandosi nella predicazione della rivoluzione  mondiale come unica soluzione. Questa fuga nella palingenesi totale a volte poi copre opportunismi molto concreti nella pratica”. Più tranchant e irrisorio ancora è stato l’ex-sindacalista della Cgil nel suo intervento, quando si è detto stufo della critica di nazionalismo alla prospettiva di uscita dall’UE proponendo di distribuire a questa genìa di critici internazionalisti 1000 orologi per tutta Europa, così da sincronizzare il momento x dell’assalto simultaneo al potere.

Non saremo noi a negare che esistono, purtroppo, internazionalisti platonici che, materialmente e psicologicamente fuori dai processi di lotta reali, si limitano a ripetere in modo macchinale formule tanto ultimative quanto astratte perché collocate sul puro piano dei principi. Ma neghiamo nel modo più deciso che un simile modo di (fra)intendere l’internazionalismo proletario appartenga a tutti i militanti e gli organismi che respingono la ricetta di Eurostop e dintorni come disastrosa forma di nazionalismo. Per quanto ci riguarda, non proponiamo certo di attendere l’ora x sincronizzata per tutta l’Europa, che è evidentemente la più facile delle battutacce. Pensiamo a un nuovo ciclo rivoluzionario, dentro e fuori l’Europa, che è tutt’altra cosa, e lavoriamo in vista di esso. Ci sembra angusto l’orizzonte europeo entro cui i Cremaschi pretendono di rinchiudere eurocentricamente la lotta tra le classi, che peraltro sempre più subordinano alla lotta tra nazioni. La nostra convinzione è di essere ad uno svolto storico del capitale globale, ad una crisi storica di inaudita profondità del sistema sociale capitalistico che, spazzando via ogni illusione di ‘terze vie’ keynesiane-progressiste e di ‘pacifica competizione’ tra le nazioni, impone un aut-aut globale radicale, ben rappresentato dall’ascesa di Trump e dal contemporaneo riaccendersi delle tensioni sociali negli Stati Uniti: o un durissimo scontro tra nazioni imperialiste e capitaliste sulla pelle degli sfruttati di tutto il mondo, per ridefinire i rapporti di forza tra esse, e soprattutto per ricostituire le condizioni della massima profittabilità per il capitale; o un altrettanto duro, epocale scontro degli sfruttati di tutto il mondo contro i propri sfruttatori, contro il sistema sociale del capitale globale, per il suo rovesciamento; un rovesciamento richiesto a gran voce anche da madre natura, stufa di essere brutalmente violata e saccheggiata (a cui la pur incoerente Naomi Klein ha saputo attribuire una formula esatta: “Solo una rivoluzione ci salverà”).

Questo scontro è già iniziato, alla scala internazionale. Potremmo fare qui un lungo elenco di lotte ‘settoriali’ degli sfruttati già capaci di darsi una dimensione internazionale a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, dallo sciopero statunitense/europeo all’UPS allo sciopero dei porti suscitato dalla lotta di Liverpool, alle lotte di ‘Via campesina’; o di lotte che, pur localizzate in una nazione, hanno avuto un’evidente valenza internazionale, a cominciare dal formidabile 1° maggio 2006 negli Stati Uniti, sciopero generale dei lavoratori immigrati, con milioni di proletari e giovani di tutte le nazionalità in piazza!, per proseguire con la miriade di scioperi del giovane proletariato industriale cinese delle zone speciali contro le grandi multinazionali (e non solo); e arrivare alle sollevazioni di massa del mondo arabo del 2011-2012, lasciate criminalmente sole dai militanti europei concentrati sul proprio ombelico e avvelenati dall’arabofobìa e dall’islamofobìa. Tutti questi processi indicano, a chi ha gli occhi per vedere, che alla globalizzazione del capitale i settori più vivi e avanzati delle classi lavoratrici e dei movimenti di lotta – pensiamo anche al rinascente movimento delle donne – avvertono la necessità di contrapporre non l’impossibile, e bancarottiera, fuga dalla globalizzazione, bensì la globalizzazione delle lotte e dell’organizzazione di classe. Di questi processi, e soprattutto del loro significato d’insieme, della prospettiva che essi delineano, certo in modo ancora fragile, non vi è stata la minima traccia nell’assemblea di Eurostop, in tutt’altre faccende affaccendata. E una tale indifferenza verso gli straordinari sforzi di lotta dei proletari, degli sfruttati, dei movimenti che hanno l’epicentro lontano dall’Italia, costituisce un aiuto al loro isolamento.

Così come, passando dal macro al micro, dal mondo all’Italia, tutte le forze assemblate in Eurostop stanno dando il loro contributo a isolare le lotte del SI-Cobas in un momento di dura repressione statale su di esse: nell’assemblea di Eurostop, che è stata così calorosa con un anziano magistrato, c’è stata solo una compagna di numero che ha proposto un odg di solidarietà al SI-Cobas contro la squallida montatura di polizia e magistratura ai danni del compagno Aldo Milani, ma è stata totalmente ignorata da quanti erano lì per la famosa “rottura”. Indicativo, no?

Siamo ben consapevoli che la nostra proposta politica classista e internazionalista mirata allo zenith, oggi lontano, della rivoluzione sociale, richiederà tempo, e un immane sforzo di lavoro teorico, politico, organizzativo. Ma questa è la sfida che ci pone lo scenario globale e locale sempre più drammatico di un capitalismo alle prese con una crisi dell’accumulazione che non riesce a risolvere, e che si sta trasformando in una crisi di legittimità dell’intero sistema sociale capitalistico. La sfida è radicale. Ricorda per certi versi il contesto di inizio ventesimo secolo, ma con forze in campo di moltiplicata potenza, anche sul nostro versante. Il mondo di inizio ventunesimo secolo, segnato una catena di catastrofi economiche e belliche, è gravido di sviluppi rivoluzionari, che pongono, su tutti i piani, una alternativa tra sistemi sociali antagonisti, capitalismo e socialismo, alla scala globale. Con le loro trombonate pro-Costituzione, pro-Keynes, pro-sovranità nazionale, Eurostop e i suoi futuri alleati-domini, ben rappresentati dal giudice Maddalena, credono di potervi sfuggire con il proporre un vacuo, impotente ritorno all’indietro, che costituisce una vera e propria fuga dalla realtà dell’economia, e anche della politica, mondiale e nazionale. Da un lato. E dall’altro con una immersione nel livello più imputridito e logoro della politica, la dimensione nazionalistica e elettoralistica di essa – poiché pure di elezioni si è parlato, naturalmente. Chi per dire che è un po’ presto per presentarsi, specie se i tempi sono quelli del rolex di Renzi; chi per rimarcare la necessità di dare appoggio ai cinquestelle (indicativa in proposito, la timidezza, quasi la paura, con cui l’ex-senatrice di Rifondazione Palermi, oggi esponente del Pdci, ha obiettato in modo sommesso, quasi bisbigliando: non vi pare che la vostra simpatia per la ditta Grillo&Casaleggio sia esagerata?). Un appoggio che l’USB e altri organismi presenti all’assemblea hanno già abbondantemente operato negli anni e nei mesi passati. E di nuovo si ri-preparano a operare senza vergogna.

Qui alla fine, tanto per cambiare, precipita tutto. La prospettiva politica di Eurostop devia così su una falsa pista quel poco, o pochissimo, che si muove oggi nella classe lavoratrice. E contribuisce a immobilizzarlo iniettandogli in corpo un veleno paralizzante e altamente nocivo, ed esponendo così i lavoratori ancor più impreparati e indeboliti di oggi ai nuovi violentissimi attacchi in arrivo. Alla faccia del realismo dei piccoli passi…

Agli internazionalisti militanti, non platonici, coscienti delle dimensioni strategiche e tattiche che l’internazionalismo rivoluzionario deve avere; e soprattutto ai giovani compagni e militanti di movimento con dentro un sentimento internazionalista o anche solo un sano ripudio di ogni forma di nazionalismo ‘italiano’, un caldo invito a darsi una mossa. Altrimenti il nazionalismo “sociale” di sinistra, che è già in campo e abbastanza strutturato, continuerà a produrre indisturbato i suoi danni, moltiplicando quelli, già profondi, causati dalle destre. Sveglia! C’è tanto lavoro da fare, per tanti! E sarà decisamente più entusiasmante che lucidare un ferrovecchio irrimediabilmente arrugginito come la nazione.

Marghera, 11 febbraio 2017
La redazione de “il cuneo rosso” –  com.internazionalista@gmail.com

P.S. – Sovranità viene da sovrano, re. Si riferisce a un ente, un’autorità, una persona che sta al di sopra di tutti e di tutto. Alla lettera, quindi, “sovranità nazionale”, significa una nazione che non ha alcun’altra nazione sopra di sé, ma anzi – anche questo potrebbe significare – è al di sopra delle altre. Non a caso nella lingua del socialismo non c’è posto per una locuzione passatista come questa. Si parla, invece, di auto-decisione dei popoli o delle nazioni. Nello stesso movimento anti-coloniale si sono usati altri termini: liberazione nazionale o indipendenza nazionale (politica). La “sovranità nazionale”, se riferita all’epoca del capitale interamente globalizzato, è una qualità, una condizione, che non ha nessuna nazione, neppure gli Stati Uniti, nonostante la storica “sovranità”, oggi assai contestata, della loro moneta. Ancora più demenziale sarebbe parlare di “sovranità della lira”, o qualcosa del genere. Effettivamente sovrano sono soltanto, oggi, le leggi impersonali, inflessibili del capitale globale che si impongono ai singoli stati e ai singoli capitalisti, in quanto maschere del capitale, personificazione del capitale come potenza sociale, secondo la definizione di Marx.

Se ci piacesse giocare con le parole, potremmo anche dire: l’unica “sovranità” che c’interessa è quella proletaria e si afferma nella rottura rivoluzionaria, nella sequenza di atti autoritari di forza con cui verranno spezzate le catene del modo di produzione capitalistico e degli stati capitalisti. Ma preferiamo rimanere al nostro bel linguaggio comunista che disprezza da sempre i sovrani e le sovranità, feudali o borghesi che siano, si batte per la liberazione degli sfruttati dal ferreo dominio delle leggi del capitale, e ha espresso il magnifico ‘sogno’ realmente egualitario di una società senza classi e senza stato. La “sovranità”, in tutte le sue declinazioni immancabilmente reazionarie, la lasciamo volentieri a Cremaschi. Insieme ai suoi 1.000 orologi.

* * * *

La risposta di Cremaschi

Cari compagni comunisti internazionalisti,

vi ringrazio per la cortesia di avermi inviato la vostra critica alle mie posizioni e a quelle di Eurostop, critica che mi era già stata fatta pervenire da alcuni compagni a cui giro questa mail. Alcune delle vostre considerazioni meriterebbero una risposta approfondita, però per procedere ad essa avrei bisogno di un chiarimento, onde non correre il rischio di travisare la vostra posizione.

In sintesi, voi su Euro, UE, NATO siete per il SI, per il NO, o per astenervi dall'esprimere una scelta che considerate irrilevante? Siccome dal vostro testo questo non si capisce gradirei una risposta. Intanto vi ringrazio per l'interlocuzione e vi saluto.
Giorgio Cremaschi

* * * *

La replica di Il cuneo rosso

Caro compagno Cremaschi,

non essendo tu alle prime armi, comprenderai facilmente che la tua domanda suona provocatoria alle nostre orecchie. In particolare è scontato che non abbiamo nulla da dire sul sì, il no o l'astensione sulla NATO: stavi scherzando, vero? O forse un problema c'è, ed è da porre non a noi, ma a voi di Eurostop: programmate per caso di uscire dalla NATO per via elettorale? 

In ogni caso, ti rispondiamo nel merito della vera questione su cui si è incentrata l'assemblea di Eurostop: l'uscita volontaria dall'UE e dall'euro come via obbligata per recuperare sovranità nazionale e ritornare alle politiche keynesiane e alla Costituzione.

Come saprai, non siete i primi in Europa a formulare questa proposta e indicare questa prospettiva da sinistra - per quel che riguarda la destra, invece, non se ne parla neppure perché, sebbene con differenti obiettivi, è proprio a destra che questa proposta è nata, ed è stata la destra di Farage e dei conservatori britannici a portarla per prima alla vittoria. Alle forze di sinistra che si sono mosse per prime e con più nettezza in questa direzione (pensiamo a settori di Izquierda Unida) abbiamo risposto nel n. 2 della rivista con un testo che trovi in allegato, che contiene un ragionamento più ampio di queste rapide note di risposta.

L'UE è, per noi, il punto di arrivo di un lungo e ampio processo commerciale, industriale, istituzionale, culturale e anche, per certi versi, popolare, iniziato negli anni '50 del secolo scorso che ha avuto, e ha, per oggetto e scopo la costruzione di un polo imperialista autonomo, concorrenziale da un lato con gli Stati Uniti, dall'altro con i 'giovani capitalismi' emergenti. L'euro è la sua moneta. E ha dovuto essere partorita, ad un certo punto di questo processo 'unitario', per porsi all'altezza delle sfide del capitalismo globalizzato, e limitare lo strapotere del dollaro nelle transazioni internazionali, rafforzando nel contempo l'Europa anche nel Sud del mondo (contro gli sfruttati del Sud del mondo). La sua funzione, quindi, è triplice: anti-americana, anti-Sud del mondo, anti-proletaria. 

All'interno della UE e nell'ente che governa l'euro, come all'interno di ogni consorzio imperialista,  non ci sono relazioni paritarie. C'è un maggior potere della Germania o, nella misura in cui questo asse esiste realmente, dell'asse franco-tedesco rispetto agli altri paesi. Ma in nessun modo i rapporti tra Germania (e asse franco-tedesco) e Italia, tra "capitalismo renano" e capitalismo made in Italy, può essere configurato come rapporto tra metropoli e colonia. Il capitale di 'casa nostra' è stato co-protagonista della costruzione dell'UE e della nascita dell'euro nel suo proprio interesse, dando non a caso agli organi di governo europei suoi funzionari di primo livello (Prodi, Monti, Draghi, etc.). La 'cessione di sovranità' in favore delle istituzioni europee (e in primo luogo della BCE, presieduta da un italiano) di cui tanto si parla nel vostro ambito, è avvenuta da parte di tutti i paesi partner, Germania compresa. Ed è avvenuta per favorire la costruzione di una entità (UE/euro) che abbia sul mercato mondiale una forza maggiore di quella dei singoli stati/"capitalismi nazionali" europei, e faccia in questo modo da efficace scudo allo strapotere della vecchia superpotenza e della vertiginosa ascesa del giovane colosso Cina.

Di conseguenza è evidente che le istituzioni europee sono le istituzioni della classe nemica dei lavoratori, ma è altrettanto evidente, per noi, che lo sono nello strettissimo intreccio con le istituzioni nazionali del capitale (governo, parlamento, apparati statali, Bankitalia, etc.) e i poteri forti nostrani dell'economia e della finanza. Per fare solo un esempio: il Fiscal Compact non è stato imposto all'Italia o ad altri stati da un potere estraneo, straniero, che "ci" comanda come nazione. È stato deliberato contro i lavoratori di tutta l'Europa - nessun paese escluso - da un direttorio di cui fanno parte integrante tutte le borghesie; un direttorio di cui la borghesia italiana è parte di primo rilievo.

Ecco perché è fuorviante, rispetto agli interessi di classe, la vostra prospettiva di una "rottura" che "punta alla sovranità democratica e popolare del nostro paese". Perché le politiche degli ultimi decenni non ci sono state dettate da un potere straniero, ma sono state adottate o co-adottate dalla "nostra" classe dominante, a partire dalla fondamentale e famigerata decisione presa nel 1981 dal keynesiano Andreatta e dal suo compare semi-keynesiano Ciampi, che in dieci anni ha fatto raddoppiare il debito di stato, mettendoci un terribile cappio al collo. Non è il "nostro paese" che ha perso libertà e libertà di movimento, come affermate nel vostro documento; è la classe dei lavoratori salariati, in tutte le sue articolazioni, che l'ha persa, e per decisioni anzitutto interne o volute e approvate anche dall'interno (salvo, poi, data la loro impopolarità, preferire presentarle, in modo demagogico, come decisioni imposte dall'esterno). I lavoratori questa (limitata) libertà di movimento l'hanno persa, e perfino in anticipo per certi versi, anche in Germania, cosa di cui non si parla quasi mai. L'hanno persa grazie all'Agenda 2010 e all'Hartz 4, a seguito di decisioni prese da governi nazionali socialdemocratici e poi, ovviamente, consolidate e convalidate da decisioni degli organismi europei.

L'idea che Eurostop veicola, sia nelle versioni più ambigue, sia in quelle più sguaiate, è invece tutt'altra. E non è un caso che l'applauditissimo Maddalena abbia parlato di "traditori della patria" - è questo il sentire che circolava nella vostra assemblea. Ed è un sentire che, al pari della vostra analisi e della vostra prospettiva di uscita dalla crisi, è di tipo nazionalista, anche se condito di tanti fiori e fioretti 'progressisti' e sociali.

Quindi: la denuncia dei poteri europei, delle istituzioni dell'imperialismo europeo (nella misura in cui esiste come unità) è ovviamente anche nostra, ma non può e non deve sostituire quella dei poteri nazionali. Deve affiancarsi ad essa (in subordine), perché restiamo fermi alla vecchia consegna, sacrosantissima, che in un paese imperialista quale l'Italia è, il principale nemico è all'interno, e non all'esterno. Non ci sfugge che l'Italia conta meno della Germania e della Francia nelle decisioni UE, ma questa circostanza non deve in nessun modo farci dimenticare, o mettere in secondo piano, lo statuto imperialista del 'nostro' stato, del 'nostro' governo, del 'nostro' paese. O il nostro obiettivo dovrebbe essere che l'Italia conti di più, mettendosi in proprio, o alla testa di paesi di minore, o molto minore, forza rispetto ai quali essere la Germania del Sud Europa?

Per noi, i lavoratori di tutti i paesi europei, in misura certamente differenziata ma al tempo stesso comune, stanno soffrendo dentro l'euro e dentro l'Unione per le politiche anti-proletarie dei propri governi, delle istituzioni europee, di Bce e Fmi. Soffrono perché l'UE, come i governi nazionali che la compongono, applica rigidamente le regole della competizione internazionale, del mercato mondiale, del capitale globale, a cui sono sottoposti anche i paesi che sono fuori dall'UE e dall'euro - a cominciare dal più potente di tutti, gli Stati Uniti, nei quali il lavoro è sempre più low cost e a zero diritti!

Ecco perché, per noi, l'alternativa tra "morire per l'euro" o "sfasciare l'euro" è un'alternativa tra due soluzioni entrambe capitalistiche e di impronta nazionalista, la prima per la super-nazione Europa, l'altra per il rispristino della presunta maggiore autonomia delle singole nazioni. Nè l'una né l'altra di queste soluzioni corrisponde agli interessi strategici e tattici dei lavoratori. Non è a caso, del resto, che nel Regno Unito alla testa di entrambi gli schieramenti 'contrapposti' sulla Brexit c'erano esponenti ultra-borghesi del partito conservatore, mentre i laburisti e gli extra-parlamentari, con pochissime eccezioni, erano alla loro coda, in entrambi gli schieramenti. E questa scena davvero magnifica si ripeterebbe in Italia...

Rifiutiamo questa falsa - e rovinosa - alternativa, e ad essa contrapponiamo la prospettiva della lotta comune tra i lavoratori del Sud, dell'Est e del Nord dell'Europa alle politiche anti-proletarie dei loro governi e delle istituzioni comunitarie, Bce in testa. Siamo convinti che ci sono fondamentali obiettivi comuni da perseguire ovunque con la lotta. Contro le politiche di 'austerità'. Contro il debito di stato, per il suo annullamento. Contro il Fiscal Compact. Contro il taglio dei salari, diretti e indiretti, la disoccupazione, la precarietà, l'allungamento degli orari di lavoro, l'intensificazione del lavoro, la distruzione dei contratti nazionali di lavoro e della organizzazione operaia nei luogi di lavoro. Contro il risorgente militarismo europeo e la Nato. Contro lo sfruttamento differenziale, le bestiali discriminazioni, il razzismo di stato e fascistoide nei confronti dei lavoratori immigrati. Su questi terreni, nella lotta, i lavoratori delle diverse nazioni possono avvicinarsi e darsi forza a vicenda.

Non ci nascondiamo affatto le difficoltà di mettere in atto questa prospettiva politica che punta alla rinascita del movimento proletario e alla accumulazione delle forze di classe in vista dei grandi scontri di classe in arrivo.

L'abbiamo già accennato: esiste nell'Unione europea una polarizzazione territoriale tra capitali che si ripercuote sulle condizioni di esistenza e di lavoro dei salariati e sugli indici di disoccupazione e di povertà. I colpi subìti dai proletari dell'Est Europa sono più violenti di quelli subìti dai proletari dei PIIGS. All'interno stesso dei PIIGS i colpi subìti dai proletari e dai giovani greci sono più violenti di quelli abbattutisi sui proletari e i giovani italiani. I colpi subìti dai proletari dei PIIGS sono in media più violenti di quelli subìti dai proletari tedeschi o olandesi. Ma consideriamo puro veleno anti-proletario quello spirito anti-tedesco così diffuso nella sinistra, anche "radicale", che serve esclusivamente a rafforzare le distanze, l'estraneità e la contrapposizione tra i proletari e le proletarie del Nord e del Sud dell'Europa. E che è l'altra faccia della propaganda sciovinista tipica dei mass media e dei governanti del Nord Europa secondo cui nel Sud dell'Europa non si farebbe altro che prendere il sole mangiando a sbafo dello stato e dell'Europa-che-lavora.

C'è una stratificazione materiale storica dentro il proletariato europeo che ha prodotto stratificazioni ideologiche e psicologiche profonde. Ma proprio perché questo problema è reale, ci vuole a nostro avviso il massimo dell'impegno nel tessere i fili unitari dentro il nostro campo di classe, rifuggendo da tutte le soluzioni apparentemente facili che, invece, approfondiscono le distanze già di per sé, allo stato attuale, ampie e pericolose. È estremamente arduo far sentire ai proletari italiani le lotte che si sviluppano in altri paesi come lotte integralmente nostre (l'abbiamo visto di recente anche con le accese lotte avvenute in Francia), ma questo ci tocca fare se crediamo, e noi lo crediamo, che non c'è soluzione nazionale possibile a questa crisi storica del sistema sociale capitalistico. E che all'interno del capitalismo globalizzato, dentro o fuori l'Unione europea e l'euro, non può esserci altro che l'accentuazione della concorrenza e la guerra fratricida tra proletari.

Significa questo che siamo per restare a tutti i costi nell'euro?

La sola domanda è assurda.

Sempre nel n. 2 del 'Cuneo rosso' abbiamo ragionato sulle vicende greche (il movimento proletario in Grecia si è mosso per primo in Europa), e l'abbiamo fatto nel seguente modo :

«Se in Grecia o in un altro paese il movimento proletario e popolare diventerà così forte da imporre al "proprio" governo nazionale misure di politica economica e sociale ritenute incompatibili dai poteri forti che dettano legge in Europa perché antagoniste agli interessi del capitale; e tanto più se in Grecia o altrove la classe lavoratrice acquisterà tanta forza e autonomia politica da prendere il potere per sé, annullare i diktat europei, decidere misure di emergenza a tutela dei salariati, adottare misure coercitive contro le forze del capitale interne, possiamo dare pressoché per certo che tra le misure di ritorsione di Bruxelles e della Bce ci sarebbe la minaccia o la decisione di espulsione dall'euro e dall'Unione, nel tentativo di circoscrivere e stroncare l'effetto-contagio della ribellione proletaria e popolare. Ma una simile cacciata dall'euro avverrebbe in un contesto di scontro di classe infuocato in cui una tale decisione degli odiati super-poteri europei potrebbe diventare, per il suo evidente segno di classe, un boomerang che si ritorce contro chi l'ha lanciato. E la resistenza alle sue conseguenze, in Grecia o altrove, unita ad un appello alla solidarietà dei lavoratori degli altri paesi, assumerebbe una valenza internazionalista. Rispetto all'uscita volontaria dall'euro degli Anguita [esponente di Izquierda Unida] di tutta Europa sostanziata di interessi nazionali [e di logiche nazionaliste], sarebbe davvero un'altra storia...».

Quindi, come vedi, la polemica che hai ritenuto di fare sugli orologi e sull'aspettare/non aspettare manca completamente il bersaglio. Almeno per quello che riguarda noi e i compagni  che si muovono secondo questa logica politica. Troppo facile liquidare l'internazionalismo come se fosse un infantile simultaneismo. Il problema vero non è se ci sarà 'qualcuno', ovvero i lavoratori di un dato paese, che comincerà per primo; questo è ovvio, perfino banale. I problemi veri sono due:

1) cominciare per primi, su che basi e per andare dove?;

2) dare la massima solidarietà a chi ha cominciato per primo, e su una linea internazionalista.

Voi proponete di cominciare ad uscire dalla globalizzazione, o a far retrocedere la globalizzazione. Questa prospettiva, abbiamo già spiegato il perché, è una truffa. Ed è anche una deviazione di percorso da quella che è per noi una prospettiva di classe, perché voi proponete per il 'nostro paese' nel suo insieme, per il popolo, per la comunità nazionale, etc., etc., una via di recupero dell'autonomia nazionale che, a vostro dire, risulterebbe vantaggiosa anche per i lavoratori. Questa prospettiva, al contrario, dividerebbe ulteriormente il campo dei lavoratori tanto alla scala europea che a quella interna, anzitutto tra lavoratori nazionali e lavoratori 'non nazionali'. Non a caso nella vostra assemblea si è sentita almeno una voce esplicita contro gli immigrati, e poi qualche accenno finalizzato a rassicurare gli immigrati; ma sta di fatto che una messa in proprio dell'Italia su basi "sovraniste", cioè nazionaliste, non potrebbe che avere una valenza anti-"stranieri" (l'abbiamo già visto con la Brexit, che ha messo nel suo mirino, almeno propagandisticamente, anche gli immigrati da altri paesi dell'UE). Perché vi sembra strana e da respingere la critica di nazionalismo?

Il vostro ragionamento pecca inoltre di angustia eurocentrica, è chiuso dentro l'Europa. Dopo lo scoppio della crisi del 2008, chi ha dato un grosso scossone all'ordine capitalistico internazionale sono state le sollevazioni arabe del 2011-2012 - che solidarietà hanno avuto qui? Se non sbagliamo, alcuni dei presenti alla vostra assemblea sono andati in Siria a congratularsi con uno dei poteri statali che hanno schiacciato nel sangue queste sollevazioni di sfruttati. L'hanno fatto forse per internazionalismo, per dare una mano a chi si era mosso per primo? La stessa domanda si potrebbe fare per le strenue lotte dei lavoratori e dei giovani greci, che hanno avuto qui un'eco scarsissima. Eppure avevano cominciato loro per primi...

Secondo noi, bisogna invece lavorare a fondo per potenziare i primi contatti, circuiti e solidarietà, di ordine sindacale e politico, che già ci sono, non nella direzione opposta.

Infine un'osservazione non marginale sul rapporto tra la lotta economica e la lotta politica. Anche tu registri che, al momento, c'è una passività sociale dei lavoratori. A nostro avviso, questa passività non può essere aggirata da nessuna furbizia 'politica' (o politico-elettorale). O i lavoratori tornano prepotentemente alla lotta, alla lotta su larga scala, alla lotta economica e politica insieme e indissolubilmente (la lotta contro i brutali livelli raggiunti nel supersfruttamento del lavoro e per la auto-organizzazione nei luoghi di lavoro, la lotta alla repressione, al razzismo anti-immigrati, al militarismo, etc.), o sono destinati a essere carne da macello nella competizione sul mercato globale, sia esso globalizzato o segmentato, e nelle guerre a venire. La simpatia che molti operai e lavoratori sentono per l'ipotesi dell'uscita dall'euro formulata dal duo Salvini&Grillo, deriva proprio dalla loro passività sociale, dal fatto che da molti anni stanno subendo sui luoghi di lavoro l'offensiva padronale senza riuscire a dare risposte di lotta apprezzabili. Il loro ragionamento ci è noto: "visto che le altre soluzioni non ci hanno dato risultati, proviamo anche questi, proviamo anche questa strada". Dietro c'è ancora una volta un'attitudine di delega (elettorale) e un sentimento di impotenza, che può essere vinto solo ed esclusivamente con il ritorno alla lotta di classe vera.

Ciò detto, ti salutiamo

Marghera, 19 febbraio 2017

La redazione de "il cuneo rosso" 

Comments

Search Reset
0
Engels17
Wednesday, 24 April 2019 09:53
Quoting Eros Barone:

Tornando alla legge dell’ineguale sviluppo, può infine essere utile fare un esempio. La bancarotta della Grecia era una realtà fin dal 2006 e si è poi aggravata con la crisi mondiale. La UE lo sapeva, ma non ha fatto nulla perché la borghesia tedesca e francese ci speculavano sopra. Ciò significa che in un regime capitalistico non può esistere cooperazione e solidarietà, ma solo concorrenza e rapine per accaparrarsi mercati, risorse, zone di influenza.


Non si potrebbe dirlo meglio, e invito tutti i compagni e le compagne a studiare "come matti" la storia di questo ineguale sviluppo, la nascita di classi dominanti "contestatrici" della gerarchia vigente (vedi gli Junker nella Germania guglielmina, i nazionalsocialisti, in parte anche i gollisti) e i conseguenti conflitti fra dominanti, e gli spazi che si aprono per una azione rivoluzionaria entro le contraddizioni inter-capitalistiche. Inoltre, ogni qual volta si entra nel dibattito sulla Unione Europea, va messo l'accento sullo sviluppo ineguale al suo interno e le inevitabili regionalizzazioni conflittuali che da ciò derivano.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Max_sic
Thursday, 23 February 2017 17:41
Così la UE sarebbe un progetto alternativo al sistema imperiale USA, peccato che non sia vero, la UE è da sempre il sistema imperiale USA in Europa, basta vedere cosa ha fatto per inglobare tutti i paesi europei del blocco est e quanto questo ci sia costato.
Mi dispiace, ma fate solo confusione, e a proposito se l'Italia uscisse dall'euro "potrebbe" rapidamente recuperare occupazione e salario e quindi non ci sarebbe nessuna deflazione salariale, cosa invece che sarebbe obbligata per la Grecia che nel frattempo ha visto disintegrarsi il sistema produttivo, non a caso Varu non ha nessuna intenzione di uscire da UE e euro, quindi anche qui voi subordinate gli interessi del popolo alle vostre idee "rivoluzionarie".
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Tuesday, 21 February 2017 21:28
Se vi è un dato, quanto mai preoccupante, di cui occorre tenere conto nel dibattito innescato dalle relazioni di Cremaschi e di Maddalena all'assemblea di "Eurostop" a Roma e dagli interventi della redazione di "cuneo rosso" (un dato di cui devono farsi carico, in primo luogo, coloro che sostengono la necessità e la possibilità della fuoriuscita dalla UE e dall’euro) è quello che ci dice, ponendo a confronto ciclo elettorale e ciclo neoliberista, che vasti strati delle classi lavoratrici – soprattutto quelli costituiti dai lavoratori con minori tutele, che operano, prevalentemente con mansioni esecutive, nel settore della piccola e media impresa – hanno da tempo abbandonato i partiti socialisti e comunisti, cioè i partiti che si rifanno alla tradizione del movimento operaio, e hanno orientato sempre di più il loro voto verso le destre, in particolare verso le destre populiste. Si tratta di una tendenza che è in atto in Europa e in Italia da quasi trent’anni e che, lungi dall’arrestarsi, sembra addirittura rafforzarsi. Orbene, questi lavoratori si dimostrano così sensibili alle rivendicazioni incentrate sulla difesa degli interessi territoriali e nazionali, che è possibile affermare che nella loro ottica il conflitto di classe finisce con l’essere sostituito dal conflitto territoriale. Basta considerare che il movimento operaio, come già sosteneva trent’anni fa il sociologo Serge Latouche, si organizza nei ‘luoghi’, mentre il capitale prende il controllo degli ‘spazi’, per capire che un simile spostamento delle rivendicazioni operaie dalla classe al territorio si realizza, sì, in modo istintivo, ma non è affatto né casuale né irrazionale. In sostanza, questi lavoratori si rendono conto che la liberalizzazione degli scambi e la crescente circolazione mondiale dei capitali, delle merci e, in parte, anche dei lavoratori – in una parola la cosiddetta “globalizzazione capitalistica” – ha generato una conflittualità sempre più aspra tra i lavoratori, la quale, peggiorando le condizioni di lavoro, intensificando lo sfruttamento, comprimendo i salari e destrutturando lo Stato sociale, è una potente concausa della crisi economica. È chiaro che, per difendersi dalle conseguenze sempre più pesanti che il controllo capitalistico del mercato, della dislocazione e della organizzazione del lavoro comporta, i lavoratori hanno cercato risposte politiche, e occorre riconoscere che, almeno finora, essi hanno trovato risposte soltanto a destra. Sono state infatti le destre (non solo quelle populiste e xenofobe, ma anche quelle tradizionalmente conservatrici) che hanno manifestato i loro propositi di difesa dei capitali nazionali, si sono espresse a favore del protezionismo commerciale e hanno individuato nel blocco dell’immigrazione la risposta più valida al conflitto tra i lavoratori che viene oggettivamente alimentato dalla globalizzazione. Da questo punto di vista, senza escludere che sia possibile agire anche su questo terreno con un’ottica di sinistra, occorre sottolineare che la classica alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione agitato dalle destre xenofobe è il blocco dei movimenti di capitale. Limitare questi movimenti significa perciò impedire che i capitali scorrazzino liberamente da un capo all’altro del mondo al fine di realizzare i massimi profitti, ossia le maggiori possibilità di sfruttamento del lavoro; significa, altresì, impedire ai capitali di scatenare una concorrenza selvaggia tra i lavoratori a livello globale. A questo proposito, vale la pena di ricordare che la Prima Internazionale, oltre ad essere nata nel 1864 a Londra in occasione di un ‘meeting’ di solidarietà con la causa dell’indipendenza polacca, trasse la sua origine da un problema molto concreto e perfettamente identico, nella sostanza, a quello che qui si discute, e cioè dalla necessità di controllare l’immigrazione di lavoratori tedeschi, spagnoli e francesi in Gran Bretagna, immigrazione che determinava una riduzione dei salari delle classi lavoratrici, poiché i lavoratori immigrati accettavano salari più bassi e condizioni peggiori di lavoro rispetto ai lavoratori autoctoni. Naturalmente, è bene ricordare che i partiti socialisti europei in questi anni non hanno semplicemente favorito la globalizzazione capitalistica, ma sono stati i principali vessilliferi dell’apertura dei mercati in Europa, spingendo il loro fondamentalismo mercatista sino al punto di identificare l’odierno internazionalismo del capitale (e la correlativa apertura dei mercati) con una variante aggiornata dell’internazionalismo operaio, storica bandiera del movimento dei lavoratori. In realtà, per comprendere che questa è una volgare mistificazione è sufficiente considerare che l’internazionalizzazione del capitale e l’internazionalismo dei lavoratori si trovano in un’opposizione inconciliabile, poiché, quando prevale la prima, come accade in questa fase storica, il secondo non solo si riduce a pura testimonianza, ma è sostituito dalla ‘guerra tra i poveri’, laddove la competizione globale tra i lavoratori si acutizza sino a cancellare quasi del tutto la percezione e la pratica della solidarietà internazionalista nella lotta contro il capitale. Sennonché questa è la prova provata che la globalizzazione capitalistica non asseconda la convergenza tra i paesi, come sostengono i liberisti e anche qualche sprovveduto internazionalista, ma, conforme alla legge economica dello sviluppo ineguale, produce crescenti sperequazioni e divergenze sempre più difficili da ricomporre. Sotto tale profilo, se l’Italia è uno dei paesi che sta maggiormente annaspando in Europa, è perché ha perso molto terreno, sia in termini di redditi che di salari, rispetto alle aree centrali dell’accumulazione capitalistica europea. In effetti, come non vedere che, se, nonostante le politiche antioperaie messe in campo, l’economia ristagna ed i contrasti fra le potenze imperialiste aumentano, questa è una conferma palese della legge dello sviluppo ineguale? La semplice constatazione che la UE, un accordo temporaneo fra Stati e imprese capitalistici creato a suo tempo per battere i paesi socialisti e reggere la concorrenza degli USA, appaia sempre più divisa e impotente a fronteggiare la crisi dovrebbe indurre ogni persona sensata a domandarsi quale sia il motivo reale del suo fallimento. La risposta sta proprio nella legge dell’ineguale sviluppo economico e politico del capitalismo,che, come aveva già previsto Lenin, rende la UE impossibile o reazionaria. La UE, in altri termini, si spacca, adotta il modello a “più velocità” e affonda la “solidarietà reciproca” in forza di questa legge assoluta del capitalismo, confermata dal crescente divario fra le economie degli Stati membri. Insomma, bisogna tenere conto di questa legge, se vogliamo capire, con logica dialettica, che sul piano storico il movimento dei lavoratori si sviluppa a livello internazionale proprio in rapporto a processi di compartimentazione e di parziale chiusura dei mercati finanziari e delle merci, non certo grazie ad una loro apertura. Così, è sempre accaduto che, quando si è verificato un processo di apertura globale dei mercati finanziari e delle merci, la competizione è diventata selvaggia e il movimento internazionale dei lavoratori è stato sconfitto (si pensi, per citare un esempio storico, al periodo iniziatosi dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848 con la “seconda Restaurazione”).
Tornando alla legge dell’ineguale sviluppo, può infine essere utile fare un esempio. La bancarotta della Grecia era una realtà fin dal 2006 e si è poi aggravata con la crisi mondiale. La UE lo sapeva, ma non ha fatto nulla perché la borghesia tedesca e francese ci speculavano sopra. Ciò significa che in un regime capitalistico non può esistere cooperazione e solidarietà, ma solo concorrenza e rapine per accaparrarsi mercati, risorse, zone di influenza. Dalla legge dell’ineguale sviluppo però deriva anche la possibilità della vittoria del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, in cui il proletariato prende il potere. Questo deve essere allora il progetto a lungo termine del movimento di classe: la rivoluzione socialista.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
cristian
Tuesday, 21 February 2017 12:50
oh finalmente una posizione genuinamente comunista che non ammicca ai nazionalismi imperanti .... va ve lo vedete marx che quando le borghesie fondavano lo stato-nazione propugnava invece il feudalesimo???!!!!! ecco chi oggi si attarda su posizioni nazionali commette schematicamente un errore simile ... il capitalismo si combatte al suo livello di sviluppo non arroccandosi su illusori cicli di lotta passati alla storia.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Riccardo
Monday, 20 February 2017 23:42
So che sarebbe una brutta cosa, ma dovete proprio pubblicare i deliri di cuneo rosso?
Credo che ci sia un limite a tutto.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Monday, 20 February 2017 22:36
La necessità del conglomerato imperialista detto UE deriva dalle seguenti cifre: l'Europa rappresenta il 7% della popolazione mondiale, il 25% del prodotto mondiale lordo e il 55% della spesa sociale. Il giudizio di Lenin secondo cui gli Stati Uniti d'Europa "in un regime capitalistico sono o impossibili o reazionari" trova una lampante conferma nei fatti politici, economici e militari. La contraddizione tra la necessità dell'unione imperialista sovrannazionale e lo "sviluppo ineguale" del capitalismo diventa sempre più acuta e può essere risolta solo con una rivoluzione socialista (non in un solo paese ma dapprincipio) in un singolo paese. Sennonché è destinata a diventare sempre più acuta anche la contraddizione tra capitale e lavoro salariato, poiché non esistono più né alternative alla riduzione del salario (per acquistare competitività il padronato lo deve ridurre del 40%) né, di conseguenza, spazi per il riformismo e le politiche redistributive (è questa, più o meno sotto traccia, l'illusione di "Eurostop"): non è più possibile far crescere l'agnello e poi tosarlo (ciò implica un mutamento di segno algebrico del riformismo da ala destra del movimento operaio ad ala sinistra della borghesia). La guerra imperialista in tutte le sue forme diviene così la norma delle relazioni internazionali. L’esistenza della catena imperialistica mondiale, la legge dello sviluppo ineguale e della gerarchia tra paesi imperialisti, nonché la teoria della rottura dell’‘anello debole’ sono altrettanti aspetti di una visione integrata dell’imperialismo come ‘formazione economico-sociale’. È a questo punto che sorge un’obiezione di non poco momento alla linea teorico-pratica (trotzko-bordighista) sviluppata dalla redazione di "cuneo rosso" su questo punto specifico ma di importanza fondamentale, laddove emerge una evidente contraddizione tra la tesi enunciata da Lenin nell’articolo "Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa" e la tesi secondo cui con la fase imperialista si chiude irreparabilmente l’epopea delle borghesie nazionali e a prendere forma è un sistema-mondo dentro il quale a fronteggiarsi non sono più le borghesie nazionali e i loro Stati ma blocchi sovrannazionali. In altri termini, se è vero quanto sostiene Lenin nell’articolo summenzionato, che è una stringente confutazione prepostera della subalternità della sinistra comunista di allora e di oggi all’‘internazionalismo del capitale’, e se è indiscutibile la vigenza della legge dello sviluppo ineguale del capitalismo, non si pone allora con forza per il movimento di classe, come indicava Stalin, la necessità di rilanciare la parola d’ordine della lotta per l’indipendenza e
l'autodeterminazione nazionale, raccogliendo questa bandiera dal fango in cui è stata gettata dalla borghesia e saldando questa lotta alla prospettiva della rivoluzione socialista? Non si ripropone forse, nel quadro del polo imperialista europeo, di cui l’Unione Europea è il braccio economico-finanziario e la Nato il braccio politico-militare, il problema del rapporto fra Stati disgreganti e Stati disgregati e quindi, ancora una volta, in funzione antimperialista e in un’ottica socialista, il problema della lotta per l’indipendenza e l'autodeterminazione nazionale? E, fermo restando che posizioni come quelle di "Eurostop" sono, in una certa misura, opportuniste, non sarebbe invece auspicabile che i trotzko-bordighisti della redazione di "cuneo rosso" imparassero che la nazione è una categoria fondamentale della storia e che la stessa classe operaia ha una precisa dimensione tellurica, magari andandosi a leggere, con attenzione ed impegno pari a quelli da loro profusi nello studio dei testi della sinistra comunista, il saggio di Stalin sulla questione nazionale (1913)?
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Roberto
Monday, 20 February 2017 19:51
Dunque, difesa dell'euro sarebbe sinonimo di 'internazionalismo' mentre l'uscita dall'euro sarebbe 'democratica e popolare' e dunque 'nazionalista': penso ce ne sia abbastanza per far rivoltare nella tomba il povero Carlo Marx (e a seguire Lenin e Gramsci)......
Vorrei ricordare, tra l'altro, che i paesi del socialismo reale si autodefinivano 'Democrazie Popolari' e pure la Cina di Mao si definiva tale: erano tutte espressioni del nazionalismo di destra e non lo sapevano: pensa un po' che sprovveduti.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit