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mainstream

“Oggetti e argomenti per una disperazione”

di Marino Badiale

rosa-rutila-work-in-progressQuesto scritto è diviso in due parti. La prima è una recensione di due libri letti recentemente. Nella seconda proseguo le riflessioni sul “perché la gente non si ribella?”, iniziate tempo fa sul blog. “Oggetti e argomenti per una disperazione” è il titolo di una poesia di Elio Pagliarani, grande poeta scomparso nel 2012, che trovate per esempio qui.

 

1. Due libri recenti

I.Masulli, Chi ha cambiato il mondo? Laterza 2014

P.Dardot, C.Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi 2013.

La forma di capitalismo che ha organizzato il mondo negli ultimi trent'anni, che per chiarezza comunicativa possiamo denominare capitalismo “neoliberista” e “globalizzato”,  è probabilmente entrata in una crisi irreversibile, una crisi che porterà a qualche nuova forma, ad oggi imprevedibile, di regolazione del modo di produzione capitalistico.

A conferma della nota asserzione di Hegel sulla filosofia come nottola di Minerva, abbiamo adesso una serie di testi che ci spiegano in maniera molto chiara e lucida le caratteristiche principali del capitalismo “neoliberista-globalizzato”. Fra questi, i due testi di  cui parliamo oggi.

Il libro di Masulli è un'ottima sintesi storica dell'evoluzione del capitalismo negli ultimi trent'anni. Partendo dalla “crisi sistemica” del capitalismo negli anni Settanta, il libro analizza le risposte che a tale crisi hanno dato i ceti dirigenti, mettendo in evidenza soprattutto tre aspetti:

“1) La delocalizzazione produttiva nei paesi meno sviluppati che, proprio per questo, consentivano bassa remunerazione del lavoro e condizioni di supersfruttamento; 2) un'automazione senza precedenti della produzione e una crescente informatizzazione dei servizi (…); 3) un consistente spostamento d'investimenti nel mercato finanziario.” (Introduzione, pag.XVIII)

Ad ognuno di questi aspetti il libro dedica un capitolo, per proseguire analizzando le conseguenze di queste dinamiche sui lavoratori sia dei paesi avanzati sia di quelli in via di sviluppo ed emergenti. Per quanto ci riguarda, si tratta di ciò che vediamo succedere da anni, sotto tutti i governi: perdita dei diritti del lavoro, lenta distruzione del Welfare State. L'autore mostra come sviluppi simili, necessariamente differenziati nei tempi e nei modi ma sostanzialmente analoghi quanto alla tendenza di fondo, si siano avuti nei principali paesi industriali: Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Stati Uniti.

La ricostruzione storica compiuta da Masulli ci sembra precisa, chiara ed efficace. Si può forse dissentire da alcune delle conclusioni cui arriva l'autore, quando scrive

“la ristrutturazione capitalista attuata nell'ultimo trentennio si è conclusa con un bilancio fallimentare, sia sul piano economico che sociale e politico. (…) il deciso spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a favore del primo verificatosi nell'ultimo trentennio ha consentito la riproduzione di logiche tradizionali e affatto unilaterali nei modi di determinazione del profitto e di sfruttamento del lavoro. Possiamo anzi dire che sotto diversi aspetti si sono registrati arretramenti e svolte decisamente conservatrici” (pag. 215)

Il dissenso non sta nella ricostruzione dei fatti, ma nella loro interpretazione come “fallimento”: ciò che è successo negli ultimi trent'anni è certo un fallimento dal punto di vista dei diritti dei ceti sulbaterni, e dello sviluppo di una civiltà sociale avanzata, ma tutto ciò non riguarda, ovviamente, la logica dell'accumulazione capitalistica, che è il fondamento della riproduzione sociale, finché siamo nel capitalismo. E da questo punto di vista ciò che è successo negli ultimi trent'anni è ovviamente un grande successo: ad una crisi dell'accumulazione e dei profitti si è risposto con una serie di misure che hanno permesso la ripresa di accumulazione e profitti. Certo, a sua volta il nuovo meccanismo è entrato in crisi, ma le crisi fanno parte della natura stessa del modo di produzione capitalistico. La nuova crisi troverà presumibilmente una risposta con nuove forme di regolazione dell'accumulazione.

Nonostante questo dissenso su alcune della valutazioni finali, è un testo di cui consiglio la lettura, perché chiaro, ben scritto e ben organizzato, e senz'altro utile per avere una visione sintetica di alcuni mutamenti fondamentali nella storia del mondo degli ultimi trent'anni.

Mentre il libro di Masulli è essenzialmente una sintesi storica, quello di Dardot e Laval ha maggiori ambizioni teoriche: si tratta infatti di un tentativo di ricostruzione di alcuni snodi cruciali della vicenda storica del pensiero liberale, che parte dai grandi classici come Locke, Smith, Quesnay, e attraverso i pensatori dell'Ottocento come Mill e Tocqueville arriva alla realtà contemporanea. È un percorso molto denso, ricostruito a partire da alcune categorie elaborate da Foucault (quella di “governamentalità” in primo luogo). Il libro ha anche il pregio di porre in evidenza vicende e correnti di pensiero alle quali finora non è stata dedicata, mi sembra, l'attenzione che meritano, almeno in Italia: per esempio il convegno organizzato da Walter Lippmann a Parigi nell'agosto del 1938, oppure i teorici del tedeschi del cosidetto “ordoliberismo”.

Lo spessore intellettuale del libro rende difficile discuterlo approfonditamente in una breve recensione. Mi concentrerò quindi sull'ultima parte (anche in vista di alcune considerazioni che farò nel seguito). In essa viene proposta un'analisi che si articola molto bene con le dinamiche chiarite nel testo di Masulli: se quest'ultimo si concentrava sugli sviluppi economici e su come essi incidono sui diversi gruppi sociali, Dardot e Laval chiariscono in maniera convincente come questo sviluppi siano andati in parallelo a mutamenti profondi nelle forme della soggettività: essi parlano infatti esplicitamente della “fabbrica del soggetto neoliberista” (è questo il titolo del capitolo 13 del libro). Il punto cruciale è il fatto che l'impresa capitalistica diventa il modello indiscutibile di ogni tipo di realtà sociale e di ogni forma di azione, individale o collettiva. Ciò si attua in primo luogo nei confronti dello Stato, rispetto alla cui sfera d'azione non si ha tanto a che fare con una “restrizione” (per cui determinati ambiti da statali vengono privatizzati) quanto con un drastico mutamento di indirizzo:

“Con il governo imprenditoriale, il mercato non si impone soltanto perché “erode” i settori statali o associativi, ma perché è oramai un modello universalmente valido per concepire l'azione pubblica e sociale. Ospedali, scuole, università e tribunali sono considerati tutti come imprese legate agli stessi strumenti e alle stesse categorie [cioè alle categorie tipiche dell'impresa privata. MB]” (pag.406).

Ma questa “invasione” della logica dell'impresa si estende, come s'è detto, alla stesso costituzione della soggettività. L'individuo nel tempo del neoliberismo è portato a pensare se stesso come impresa e a regolarsi di conseguenza:

“Ogni soggetto è stato portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: studi universitari a pagamento, costituzione di un fondo pensione individuale, acquisto dell'abitazione, investimenti a lungo termine in titoli di Borsa, sono gli aspetti della capitalizzazione della vita individuale che, via via che prendeva piede tra i salariati, ha lentamente eroso le logiche della solidarietà.” (pag.299).

“Il nuovo governo dei soggetti presuppone in effetti che l'impresa non sia prima di tutto una “comunità” o un luogo di crescita, ma uno strumento e uno spazio di competizione. Essa è presentata innanzitutto come luogo ideale di tutte le innovazioni, del cambiamento permanente, dell'adattamento continuo alle variazioni della domanda del mercato, della ricerca dell'eccellenza, della “perfezione”. (…) Esperto di se stesso, datore di lavoro di se stesso, inventore di se stesso, imprenditore di se stesso: la razionalità neoliberista spinge l'io a mutare per rinforzarsi e sopravvivere nella competizione. In qualsiasi attività va vista una produzione, un investimento, un calcolo dei costi. L'economia diviene disciplina personale. Margaret Thatcher ha dato la formula più trasparente di questa razionalità: “Economics are the method. The object is to change the soul”.”(pagg.423-424)

Sono analisi che hanno una forte assonanza con quanto anni fa scrivevamo, Bontempelli ed io, a proposito del “capitalismo assoluto” (si veda per esempio “La sinistra rivelata”, Massari Editore, pagg.169-175). Esse ci danno, io credo, delle valide indicazioni sulle ragioni profonde del trionfo del capitalismo nel trentennio trascorso, e ci spiegano perché, di fronte all'attuale crisi, stenti così tanto a coagularsi un movimento serio di opposizione antisistemica. Di fronte a tali cambiamenti nella costituzione delle stesse soggettività, la lotta economico-sociale da sola è insufficiente, o meglio, è destinata alla sconfitta, perché, come dicono gli autori,

“La questione non è: come imporre al capitale un ritorno al compromesso di prima del neoliberalismo? Ma: come uscire dalla razionalità neoliberista?”

Si tratta, ovviamente, dell'interrogativo cruciale, al quale un testo come questo non può dare risposta. Il fatto di portare il lettore, attraverso un percorso di grande spessore culturale, a porsi questa domanda, non è il minore dei suoi pregi.


2.Si può fare qualcosa?

I due testi dei quali abbiamo appena parlato, ricchi e densi, possono suscitare nel lettore svariate considerazioni. Le mie riflessioni sono partite da questo pensiero: “ormai sappiamo tutto”. Grazie a testi come questi, e agli altri che possono venire in mente (citando alla rinfusa: “Breve storia del neoliberismo di D.Harvey, Shock economy” di N.Klein, “Il grande balzo all'indietro” di S.Halimi, e i tanti altri che adesso non mi vengono in mente e che ciascun lettore può ovviamente aggiungere), abbiamo una visione sostanzialmente esauriente dei fondamentali meccanismi economici e politici che hanno organizzato il mondo negli ultimi trent'anni. Ci mancano molti particolari, ovviamente, sappiamo certamente poco dei dettagli di molti singoli avvenimenti, delle dinamiche fini, degli scontri e degli accordi fra i gruppi contrapposti dei ceti dominanti. Ma le tendenze di fondo sono chiare. Bene, allora perché non riusciamo a concludere nulla? Perché, se tutti i fondamentali sono chiari, non c'è uno straccio di movimento politico che vada a dire a tutti coloro che a causa di questi “fondamentali” ci hanno rimesso e ci rimetteranno (e sono la grande maggioranza) “guardate, le cose stanno così e cosà. Ci stanno portando via tutto, dentro a questo sistema non c'è futuro per noi. Ribelliamoci e costruiamo un mondo diverso”? Che lo vada a dire, intendo, avendo speranza di essere ascoltato e di ottenere un seguito? Come si vede, siamo sempre alla solita domanda “Perché la gente non si ribella?”. Dopo aver posto questa domanda, in un post di qualche tempo fa, ho continuato a rifletterci, grazie anche agli stimoli rappresentati dai commenti dei lettori. Mi sembra adesso di essere più vicino a una risposta. Nel post sopra citato prendevo in esame varie possibili risposte, mostrando che in alcuni casi potevano cogliere una parte della verità ma che apparivano tutte, per un motivo o per l'altro, insufficienti. Ritengo adesso che sia possibile riformulare una di quelle possibili risposte in un modo tale da farci avvicinare al nocciolo del problema. La risposta in questione è quella che in quel post avevo indicato col numero 6, ovvero “la gente non si ribella perché non c'è più nessuna idea di società alternativa all'attuale”. All'epoca avevo criticato questa risposta perché intendevo l'idea di società alternativa come il progetto di una società futura, radicalmente diversa da quella attuale. E mi sembrava di poter obiettare che molte delle ribellioni del passato non avevano avuto bisogno di niente di simile. Ora, questa obiezione mi sembra ancora valida, ma forse si può riformulare la risposta n.6 in modo tale da sfuggire ad essa. Si può cioè pensare che l'idea di una società alternativa non sia il progetto di una società futura, ma qualcosa che in qualche modo esiste già. Infatti, proviamo a chiederci in nome di che cosa i popoli e le classi hanno lottato, quando lo hanno fatto. Che cosa volevano? I contadini che si ribellavano contro classi dirigenti esose e sfruttatrici, che cosa volevano? Continuare la loro vita senza essere sfruttati, continuare a fare i contadini senza patire fame e violenze. I contadini che Lenin chiama all'alleanza con gli operai, nel '17, e la ottiene, e per questo riesce a vincere, che cosa chiedono e ottengono dal potere sovietico? La terra, ovviamente. Chiedono e ottengono cioè di poter continuare a fare i contadini. E gli operai che occupano le fabbriche, nel biennio rosso italiano, che cosa vogliono dimostrare? Di essere in grado di mandare avanti la produzione senza i padroni, direi. Cioè di poter continuare a fare gli operai senza il controllo padronale, senza lo sfruttamento. Voglio dire, in sostanza, che  le classi popolari, quando hanno effettivamente operato rivolte e rivoluzioni, lo hanno fatto in nome della loro vita reale, in nome di una “alternativa” che non era una immaginifica società futura, il paese di Bengodi, ma era la loro vita quotidiana, il loro lavoro, le loro famiglie, le loro relazioni, in una parola la loro comunità popolare, che essi volevano liberata dalla fame, dall'insicurezza, dalla miseria, dall'oppressione, dalla violenza. La società alternativa era qualcosa di reale, di esistente. Era la comunità popolare, contadina oppure operaia. Poi, certo, questa “alternativa” si poteva chiamare socialismo o comunismo, e si potevano sognare fiumi di latte e miele. Ma erano appunti sogni piacevoli. Nessuno (se non appunto piccoli gruppi di sognatori) poteva dubitare del fatto che anche nel “socialismo”, qualsiasi cosa fosse, si sarebbe continuato a lavorare nelle fabbriche e nei campi, perché nessuno poteva immaginare come vivere altrimenti.

La società alternativa per la quale ribellarsi, lottare e arrivare fino al sacrificio della vita era dunque la comunità popolare, con la sua vita usuale, col suo lavoro, liberata dal male che deriva dall'oppressione e dallo sfruttamento.

Il fondamentale dogma marxista, secondo cui la stessa dinamica capitalistica genera la classe che abbatterà il capitalismo, mi sembra esprima proprio questo punto: socialismo e comunismo stanno nella vita concreta della classe operaia, nella sua capacità di lavoro e di azione politica, che la rende in grado di attuare il suo “compito storico”, cioè di realizzare ciò che essa potenzialmente è.

Se tutto ciò è corretto, mi sembra allora possibile chiarire in che senso oggi è venuta meno un'idea di società alternativa. Non nel senso che non si possano elaborare progetti di società future: questi ci saranno sempre, e conteranno poco o nulla come sempre. Ma nel senso che la vita concreta dei ceti popolari non è più la base di una possibile società alternativa, che sia in qualche modo già prefigurata nel presente. E il motivo è quello che abbiamo detto sopra, e che si può esprimere parlando della “governamentalità neoliberista” (come dicono Dardot e Laval) o del “capitalismo assoluto” (come ci esprimevamo Bontempelli ed io). Il motivo è che la logica capitalistica ha ormai invaso ogni ambito della vita, plasmando la stessa soggettività. La vita concreta di tutti, oggi, è modellata sulle esigenze di accumulazione del plusvalore, in un modo inedito nella storia, e perciò non può più rappresentare la base di una società alternativa. I contadini di ogni tempo e luogo potevano ribellarsi a signori esosi, pensando di continuare la loro vita abituale senza essere sfruttati. Gli operai di Lenin e Gramsci potevano pensare ad un futuro di vita operaia liberata dal rapporto sociale capitalistico. Oggi tutto questo non è più possibile. Oggi non c'è più un ambito della vita, né lavorativo né extra lavorativo, che possa rappresentare il fondamento di una vita liberata dal capitale, perché il capitale condiziona tutta la vita. La vita quotidiana, fin negli atti più minuti, come prendere l'auto e andare a fare la spesa al supermercato, è innervata dalla logica capitalistica.  I ceti popolari vogliono, giustamente, essere protetti dall'immiserimento che sentono incombere, ma vogliono continuare una vita quotidiana che è il prodotto di quelle stesse logiche capitalistiche che producono quell'immiserimento. È questa contraddizione che produce il blocco di ogni movimento antisistemico, la sua impossibilità.

Per lungo tempo gli anticapitalisti hanno pensato al superamento del capitalismo secondo il modello del superamento borghese della società feudale. In questo caso, i nuovi rapporti sociali sono cresciuti lentamente all'interno della società feudale, e si sono consolidati lungo i secoli, anche con sconfitte e arretramenti, prima che arrivasse la “spallata” decisiva (per dirla brevemente: la congiunzione di rivoluzione industriale e rivoluzione francese) che ci ha fatti entrare nella modernità. Allo stesso modo, l'anticapitalismo, specie quello di ispirazione marxista, ha sempre pensato ai nuovi soggetti e ai nuovi rapporti sociali come a qualcosa che veniva creato dalla stessa dinamica capitalistica, e cresceva all'interno della società capitalistica. Le considerazioni sopra svolte mi fanno pensare che sia il momento di mettere in questione tali visioni, piuttosto ottimistiche, e pensare ad altri modelli: non certo all'idea che il capitalismo sia eterno, ma piuttosto all'idea che il suo superamento avverrà con altre modalità. Nella ricerca di un'analogia storica, possiamo pensare alla fine dell'Impero Romano e al superamento del modo di produzione schiavistico di cui l'Impero era la massima espressione politica. In tal caso non vi è stata la lenta crescita dei nuovi rapporti sociali all'interno delle vecchie strutture: nessuno ha saputo creare un nuovo modo di organizzazione sociale, e per questo la crisi della vecchia organizzazione si è avvitata a lungo su se stessa, portando ad una autentica crisi di civiltà, prima che iniziassero a crescere i germi di una nuova società, la società feudale. Forse quello che ci aspetta è qualcosa di simile. Data la radicale incapacità collettiva di costruire nuove forme sociali, il capitalismo percorrerà a fondo la sua parabola distruttiva prima che dallo sfascio cominci ad emergere qualche embrione di nuova organizzazione sociale. Questo non è un invito al pessimismo cosmico, nonostante il titolo del post: ciascuno di noi può fare qualcosa per salvare elementi di civiltà dallo sfascio che attende il mondo attuale. È un invito a fare quel che si può, ciascuno nel proprio ambito, senza attendere salvatori che non verranno.


PS
La poesia di Pagliarani alla quale ho rubato il titolo di questo post termina con questi versi:
“Ma se avessi soltanto bestemmiato
allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto
perdonateci a noi per il nostro tempo”

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