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Sbadigliare, vomitare o mozzare teste?

Sebastiano Isaia

One thing I can tell you is you’ve got to be free (Come Together, Beatles).

isib1Secondo il filosofo, e opinionista assai popolare in Inghilterra, Roger Scruton «L’assassino di James Foley è il prodotto del multiculturalismo inglese. Tutto quello che il multiculturalismo ha ottenuto è distruggere una cultura pubblica condivisa, e al suo posto ci ha messo un vuoto che fa sbadigliare». E qui, vittima del noto contagio, devo un attimo interrompere la citazione, per sbadigliare appunto. Fatto! Continuo: «Il più grande bisogno umano non è la libertà, come pensano i liberal, ma l’obbedienza, come hanno capito i musulmani» (Sgozzati dal multiculturalismo, Il foglio, 26 agosto 2014). Una volta Kant formulò – l’apparente – paradosso che segue: «Ragionate quanto volete e su ciò che volete, ma ubbidite!». È su questo “paradosso” che intendo dire qualcosa.

Per un verso Scruton affonda il coltello nella burrosa, e sempre più screditata (nonché stucchevole), ideologia multiculturalista, la quale ama celare i reali contrasti e antagonismi sociali (d’ogni tipo: di classe, di genere, di razza, di religione) dietro una tolleranza, anch’essa ridotta a mera finzione ideologica*, che sempre più mostra la sua vera natura di strumento al servizio dello status quo sociale. Per altro verso egli, suo malgrado, tocca un nodo fondamentale della condizione disumana nell’epoca del dominio totalitario e planetario degli interessi economici (capitalistici): la reale mancanza di libertà di tutti gli individui. Oggi la «libera scelta» non solo è un inganno, un’ipocrisia (soprattutto quando si presenta in guisa elettoralistica), ma è anche un’odiosa arma di oppressione psicologica di massa: «Nessuno ti ha obbligato a scegliere quel lavoro, quella merce, quella persona, quel partito. Guarda il ben di Dio che ti offre il mercato (delle merci, della politica, delle idee, delle religioni, delle amicizie, dei desideri)! Oggi la società ti offre perfino la libertà di scegliere il sesso che meglio aderisce alla tua più intima personalità. Anziché lamentarti, impara dunque a usare meglio il tuo libero arbitrio».

 

Francamente non mi stupisco quando, dinanzi a tutto questo ben di Dio liberale, a tutta questa abbondanza di “libero arbitrio”, qualcuno decide di staccare la spina della “libera scelta”: «Basta, mi sono stancato di scegliere con la mia testa! Ditemi chi sono, e cosa devo pensare, fare, dire». Com’è noto, il disagio sociale, da solo, non genera nella mente del disagiato le giuste domande. Non parliamo poi delle giuste risposte! D’altra parte, in epoca di crisi dei valori tradizionali e di superamento delle vecchie contrapposizioni ideologiche (“comunismo” versus “liberismo”), darsi alla Jihad per molti giovani desiderosi di “fare qualcosa” può essere un eccellente modo per superare la noia – e forse anche La nausea: «Penso che siamo tutti qui a bere e a mangiare per conservare la nostra preziosa esistenza, e che non c’è niente, niente, nessuna ragione d’esistere» (Jean-Paul Sartre).

«È meglio sbadigliare, vomitare o tagliare qualche infedele testa?». Sono tempi amletici questi, non c’è il minimo dubbio.

A proposito: nella mia pessimistica (ma altri potrebbero dire fin troppo realistica, non spetta a me dirlo) concezione della vigente realtà sociale l’intera umanità (a cominciare da chi scrive ed escluso chi legge, s’intende) va rubricata come disagiata, a diverse gradazioni.

«Già da tempo abbiamo detto che è “l’angoscia sociale” che costituisce l’essenza di ciò che chiamiamo la coscienza morale» (S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’io, 1921, Newton). La coscienza morale del disagiato che soffre senza comprendere la radice del male che lo tormenta non ha una natura qualitativamente diversa nell’individuo “normale” (mediamente isterico, paranoico, frustrato e quant’altro) e in quello “patologico”, i cui parametri del disagio non sono più allineati alla soglia della normalità. Ciò che discrimina fra “normalità” e “patologia” è più una questione quantitativa, se così posso esprimermi, che qualitativa. È nei momenti di acuta crisi sociale, quando è la società nel suo complesso che sembra entrare in un patologico stato di convulsione, che questa tesi trova una drammatica conferma. Detto per inciso, la soglia della normalità non smette di innalzarsi, e molti riescono a “rimanere nei parametri” solo con l’ausilio della chimica farmaceutica.

Scriveva Slavoj Žižek nel 2007:

«Nel profondo di se stessi, anche i terroristi fondamentalisti mancano di autentica convinzione: le loro esplosioni di violenza lo dimostrano. La fede di un musulmano deve essere ben fragile se si sente minacciata da una stupida caricatura apparsa su un quotidiano danese a scarsa diffusione. Il terrore islamico fondamentalista non si basa sulla convinzione dei terroristi della propria superiorità e sul desiderio di salvaguardare la propria identità culturale-religiosa dall’assalto della civiltà consumistica globale. Per i fondamentalisti, il problema non è il fatto che li consideriamo inferiori a noi, ma piuttosto che loro stessi si considerano segretamente inferiori. Ecco perché le sussiegose rassicurazioni politicamente corrette sul fatto che noi non proviamo alcun senso di superiorità nei loro confronti non fanno altro che renderli più furibondi e alimentare il loro risentimento. Il problema non è dato dalla differenza culturale (dal loro tentativo di conservare la propria identità) ma, all’esatto opposto, dal fatto che i fondamentalisti sono già come noi; dal fatto che, segretamente, hanno già interiorizzato i nostri modelli e criteri. Paradossalmente, quello che manca davvero ai fondamentalisti è una dose di autentica convinzione “razziale” della propria superiorità» (La violenza invisibile, Rizzoli).

La cieca violenza come esibizione di una forza muscolare chiamata a celare una radicale debolezza esistenziale. Più ci sentiamo «segretamente» attratti da qualcosa che dobbiamo riprovare, osteggiare, odiare, e maggiori investimenti psichici e affettivi facciamo in atteggiamenti di riprovazione, ostilità e odio nei confronti di ciò che «segretamente» agogniamo. L’autoflagellazione del pio credente nel Signore Misericordioso la dice lunga sulle demoniache tentazioni che lo fanno schiumare di desiderio malato – il desiderio si ammala tutte le volte che la coscienza ne dichiara l’inesistenza: «Non è vero che amo la pornografia! Non è vero che i bambini mi attraggono! Non è vero che mi piace la musica rock! Non è vero che…».

La crisi della famiglia tradizionale, che una volta offriva agli individui almeno la parvenza di un rifugio di ultima istanza che li metteva al riparo dai rigori dell’ambiente esterno, rende ancora più evidente la solitudine dell’individuo atomizzato nel seno della società di massa assoggettata sempre più capillarmente e brutalmente alla bronzea legge dell’utilità economica.

Il bisogno di vedere un padrone in carne e ossa, un nodoso bastone oggettivo che ci minaccia dall’esterno, dandoci almeno la possibilità di razionalizzare un disagio altrimenti inspiegabile, esprime la realtà di una Potenza sociale impersonale che non riusciamo più a riconoscere per troppa prossimità. La presenza del Dominio nella nostra vita quotidiana ci è così familiare, che non riusciamo più ad apprezzarla per distinzione: «Dove finisce il Moloch, dove inizio io?». Difficile rispondere. Probabilmente impossibile. Difatti, noi stessi siamo fatti della stessa sostanza del mostro (della Potenza sociale), ed è per questo che la vecchia distinzione fra un “dentro” e un “fuori”, che poteva creare in un Max Stirner l’ingenua illusione di una fuga individuale dall’oppressiva universalità sociale, oggi non è più nemmeno concepibile, se non come fuga estrema, come suicidio. O come – illusorio – ritorno a civiltà e luoghi meno compromessi con il Capitalismo occidentale, come credono molti giovani immigrati di seconda e terza generazione, delusi da ciò che offre il convento del Primo Mondo.

Il «vuoto che fa sbadigliare» di cui parla Scruton è probabilmente una delle tante manifestazioni del pieno del Dominio.

Come ho detto altre volte, più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali, e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionalista o/e imperialista.

Nella misura in cui, per mutuare abbastanza indegnamente il Ragno di Stoccarda, è il tutto che dà verità, struttura e funzione a ogni particolare condizione e relazione, non può darsi reale libertà nella società che vede gli individui di tutte le classi sociali venir assoggettati da un Moloch che essi non controllano e dal quale sono invece controllati, incalzati, minacciati. È questa radicale mancanza di libertà che fa degli individui degli eterni bambini alla ricerca di un’Autorità che dia loro un indirizzo preciso, una guida, un senso al complesso e il più delle volte incomprensibile (irrazionale) mondo. Come Freud capì bene, è qui che si radica quella mentalità passivamente gregaria che espone gli individui alle avventure politiche più disastrose e violente. Ma questi eccezionali eventi illuminano a giorno l’essenza della regola. Solo che per vederla occorrono occhi in grado di farlo. Come sanno il poeta e il filosofo, non basta guardare per vedere, soprattutto in tempi di miopia di massa.

E dove manca la libertà, nella sua accezione non puramente formale e ideologica (per intenderci, non la “libertà” che riempie i libri dei giuristi, dei politici e dei filosofi che sorvolano sulla struttura classista della società, o comunque non la pongono al centro della loro riflessione intorno alla “libertà”); dove manca la libertà, dicevo, deve necessariamente latitare anche l’umanità, che non sarebbe nemmeno concepibile senza la prima.

«Finchè un uomo è nella miseria per la cattiva organizzazione sociale, l’identificazione con questo ordine in nome dell’umanità è un controsenso. L’adattamento pratico può essere inevitabile per l’individuo, ma l’occultamento dell’opposizione tra il concetto di uomo e la realtà capitalistica uccide il pensiero di ogni verità» (M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, 1932, Savelli).

Qui il concetto di miseria deve essere declinato in termini squisitamente sociali (esistenziali, direi), e non riduttivamente materiali (economici).

La fuoriuscita dell’uomo dalla minorità di cui egli stesso è l’artefice: in questo, secondo Kant, si compendia il significato ultimo dell’illuminismo. Il progetto illuminista non poteva non fallire, giacché esso affidava l’emancipazione universale degli individui a una rivoluzione antropologica (culturale, morale, etica) che lasciava intatta quella struttura classista che li sequestrava (e continua a sequestrarli) nella dimensione disumana del lavoro sfruttato, reificato e alienante. Dove c’è la divisione classista della società, con tutto ciò che tale divisione presuppone e pone sempre di nuovo (la prassi capitalistica riproduce ogni giorno la marxiana «accumulazione originaria»), non può esserci né libertà né umanità. Nell’epoca dello sfruttamento scientificamente progettato e praticato della natura e dell’individuo atomizzato ridotto a mera risorsa economica (a «capitale umano») il non-ancora-uomo è ancora (direi sempre più)in uno stato di tragica minorità. Ma, al contrario di quando accadeva nella tragedia greca, qui il Deus ex machina non siede nemmeno fra il pubblico.

«Il più grande bisogno» di cui parla Scruton non è «umano» ma disumano.

 

* Gli stessi rapporti sociali capitalistici, nella misura in cui si danno attraverso la mediazione del mercato (del lavoro, delle merci, del denaro, ecc.), acquisiscono una solida struttura ideologica. Infatti, la prassi contrattualistica del mercato mistifica oggettivamente un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento.

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