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La razionalità dell'1%

Pierluigi Fagan

p003k9js 640 360Il capitolo 91 del Capitale del XXI° secolo di T. Piketty, si sviluppa come ricerca sulle diseguaglianze specifiche dei redditi da lavoro. Piketty rileva che tali diseguaglianze hanno due caratteristiche: a) si sono prodotte vistosamente nelle società anglosassoni (Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia); b) si sono prodotte marcatamente a partire dagli anni ’80.

Questo 1% di super-retribuiti, incide per circa il 18% del totale monte redditi in USA e per circa il 15% nel Regno Unito. In Europa continentale e Giappone, questa incidenza è inferiore e soprattutto non è legata così marcatamente ad un trend temporale. Questi super-retribuiti, comunque meno super, che compongono l’1% delle élite del reddito europeo, esistono dagli anni ’50, poi flettono un po’ ed infine tornano a quelle percentuali dal 2000 al 2010.  I paesi emergenti invece, sempre a livello di 1% più ricco, non arrivano alle percentuali di incidenza degli americani (ma il Sud Africa che ha una forte componente anglosassone, quasi), ma condividono la stessa dinamica temporale, ovvero il rapido e costante incremento a partire dagli anni’80.

Se passiamo dal centile (l’1%) al millile (l’1 per mille, quindi la cuspide dell’élite, ovvero lo 0,1%), tutte queste tendenze si confermano ed anzi, si acuiscono. Per il decile (il 10% più retribuito) l’incidenza totale delle loro retribuzioni, corrisponde al 47% del reddito nazionale negli USA, 30%-35% per Francia e Germania che era la stessa percentuale degli anglosassoni prima degli anni’80 cioè prima che iniziasse la divergenza.

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Sul piano delle spiegazioni di questa divergenza, Piketty esamina sia le cause indirette che quelle dirette. Le cause indirette sarebbero il minor investimento pubblico in  istruzione negli USA, fatto che ha selezionato ab origine, un classe ristretta di formati per le alte sfere, che sarebbero quindi merce rara, quindi costosa. Inoltre, gli USA ed in genere i paesi anglosassoni, soprattutto se  comparati con Francia e paesi scandinavi, hanno bloccato il salario minimo a livelli bassissimi o lo hanno affidato al mercato, il che è anche peggio. Ci sarebbe anche il capitolo tasse ma lasciamolo fuori per il momento2. Le due cause in sinergia, hanno prodotto molti posti di lavoro a basso reddito e il loro contributo alla determinazione del reddito nazionale, pur essendo loro molto numerosi, sarebbe stato tale da far emergere le alte retribuzioni, legate all’alta ma rara “qualificazione”, come particolarmente incidenti.

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Ma Piketty non si accontenta di queste spiegazioni, ritiene che non spieghino tutto il fenomeno nella sua dimensione. Come cause dirette, individua la “rivoluzione conservatrice” Thatcher – Reagan che ha creato un clima favorevole all’esaltazione del “merito capitalistico”, “estremismo meritocratico” lo chiama il francese, il che indubbiamente è vero. Dall’altra, Piketty nota  il fatto che le retribuzioni sono in pratica autodefinite dal millile superiore (se le danno da loro) e da questo parametro, conseguono quelle del centile e del decile, in proporzione. Questo almeno per il mondo dell’impresa. Stante però un tale standard di ricchi stipendiati (retribuzioni, incentivi, bonus, stock option) è chiaro che si forma anche un “giro” di fornitori di prodotti o servizi che ne condividono la ricchezza. Si potrebbe addirittura ipotizzare che mentre il millile e buona parte del centile sono propri del mondo dell’impresa, l’altra parte del centile e buona parte del decile, stiano coloro che hanno redditi collegati ai consumi del primo gruppo. E’ altresì chiaro che importi così ingenti possono formare in pochi anni un vero e proprio capitale che poi si riproduce a tassi maggiori di quelli della crescita (la diseguaglianza r > c ovvero tasso di rendita del capitale maggiore del tasso di crescita, crescita che è sia demografica che economica, è il perno su cui ruota l’intero lavoro del francese) generando una diseguaglianza strutturale, cioè una oligarchia dominante.

La tribù della “classe agiata”, tra finanziamento ai partiti, lobby e think tank condizionerebbero in loro favore, ovvero alla giustificazione e all’esaltazione di questa diseguaglianza, l’opinione informata e i decisori fiscali, il che è altrettanto vero3, così come è vero che il tutto è preparato e favorito da un contesto ideologico centrato sul merito di sistema, premiare chi porta salute al sistema, cioè profitti4.

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Piketty nota quindi che la cuspide dell’élite piramidale si dà le retribuzioni da sola e cita consigli di amministrazione o le assemblee degli azionisti che, secondo lui, non avrebbero esercitato il dovuto controllo.  Questo è vero ma solo in parte. Sicuramente le assemblee degli azionisti contengono molti votanti che neanche sanno cos’è un’impresa, men che meno quella di cui detengono piccole porzioni di capitale, nè tantomeno quali sono gli standard del mercato in cui opera quella impresa. Ma altri azionisti, gli azionisti di riferimento, il nocciolo duro che spesso ha rappresentanti nei CdA, queste cose non solo le sanno ma sono anche molto precisi nel difendere i propri interessi poiché ogni euro di costo manageriale in più è un euro in meno di profitto per loro.

Ne vien fuori che gli azionisti, le proprietà residue (ex proprietari di maggioranza che ora sono tecnicamente in minoranza ma esercitano ancora un ruolo di indirizzo significativo), i grandi fondi speculativi hanno avallato coscientemente quelle retribuzioni, perché?

Il primo motivo è che la retribuzione è una funzione del volume dell’impresa e del rapporto tra questo e il profitto. Redditi “scandalosi” quali quelli delle star dell’NBA o del calcio europeo o di certi attori o registi, sono in proporzione al volume di business e di profitto al quale danno il loro contributo. Non c’è alcuna legge economica del merito qualificato da null’altro che contribuire a fare soldi in qualunque maniera si facciano in quel business. Messi non è andato ad Harvard, né il signor Robert Downey jr. che ha interrotto la scuola a 17 anni e da adulto si è barcamenato tra problemi di alcol e droga, entrando nella prigioni dopo esser uscito da cliniche di disintossicazione, ricevendo però redditi per 75 milioni di dollari (58 milioni di euro) nell’anno tra il 2013 ed il 2014 (Forbes). Il tutto per la sua straordinaria performance in Iron man, una vera pietra miliare della storia della cinematografia. Il “merito” è quindi un valore relativo ed anche nel caso delle imprese più serie del calcio e del cinema, occorre relativizzare e precisare “merito” di cosa. I meriti vanno relativizzati e dovrebbero oltretutto essere parte di un bilancio che include le passività o meglio i demeriti. Fare profitti ed inquinare, fare profitti e produrre armi (quindi far di tutto per creare la domanda specifica), fare profitti sulle malattie (e spesso, anche qui, far di tutto non per debellarle ma per controllarle) etc.

Il secondo motivo è più contorto e non sapendo nulla né d’impresa, né di business, gli economisti non lo conoscono proprio, non lo “vedono” con le lenti appannate della loro conoscenza esoterica. La retribuzione degli altissimi vertici, legata al profitto che contribuiscono a creare è legata ad un merito spesso perverso. Mentre effettivamente Messi fa la differenza nel sostegno del merchandising mondiale del Barcellona, nessuna impresa produce profitto perché c’è un tizio al vertice dotato di poteri taumaturgici. Talvolta neanche gli azionisti lo sanno ed infatti molti tagli di personale che a loro fanno gola perché diventano immediatamente profitto, hanno poi fottuto l’impresa e disastrato le sue effettive competenze e capacità di competizione. In particolare, quello che può esser un merito a gli occhi degli shareholders a breve, può essere un demerito a gli occhi degli stakeholders che ragionano a medio-lungo.  Mentre l’imprenditore era stanziale ovvero legato ai destini di lungo periodo della sua impresa, azionisti e manager sono migratori. Si fermano sugli stami avidi di polline, succhiano e volano via. Se poi hanno succhiato troppo e il fiore muore per loro è tutto di guadagnato, è distruzione creatrice, i campi sono pieni di fiori e per far spazio a nuovi i vecchi debbono pur morire, meglio se presto.

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Ma c’è anche un terzo misterioso motivo, un motivo che va cercato nel merito di conduzioni di “operazioni speciali ”. Preparare una azienda per la quotazione ovvero farla sembrare un gioiellino nel minor tempo possibile. Va da sé che nel minor tempo possibile nessuna azienda si trasforma da massaia a supermodella ed infatti quello con cui si agisce è la “cassetta dei trucchi”, dal photoshop di bilancio alla chirurgia estetica che sugge il grasso (costo del lavoro) e rende snelli e scattanti anche se scotomizzati. Molti hanno notato costernati che durante la stagione Marchionne, la FIAT e forse la stessa famiglia Agnelli non ha fatto questi gran profitti nonostante le rilevanti retribuzioni del manager. Ma nel caso, “l’operazione” non era fare profitti, era salvare la cassaforte di famiglia e portarla a capo di una azienda multinazionale (multi nazionalità che gli Agnelli, essendo storicamente degli incapaci com’è ampiamente documentato dalla storia della FIAT italiana, non erano stati in grado di costruire con le loro mani, quanto ad imprenditori-produttori), abbandonando l’Italia  incluse maestranze e manager. Sulla questione FIAT c’è un punto cieco anche a sinistra (o quel che ne rimane). Marchionne era pagato per attirare su di sé tutta la rabbia e la critica che l’operazione condotta, produceva. Egli è pagato anche per fare da catalizzatore della negatività. Ma Marchionne è il garzone, il principale di bottega è nella famiglia che pagò a livelli stratosferici un criminale (Moggi) perché organizzasse le cose in modo da far vincere scudetti su scudetti alla loro squadretta di calcio, che ha succhiato decenni di finanziamenti pubblici, che ha avuto (ed ha) a libro paga buona parte della stampa italiana ed ha pesantemente condizionato gli standard dell’intero capitalismo nazionale, banche e Mediobanca incluse, allietandoci su i settimanali “rosa” con le sgangherate vicende della loro famiglia piena di bug di sistema e passando alla storia per la decisiva invenzione dell’orologio sopra il polsino della camicia. Storicamente FIAT, rispetto ai principali competitors francesi o tedeschi, ha basato il suo fatturato per più del 90-95% su un unico mercato: l’Italia. Un mercato politicamente protetto, chiuso, invulnerabile e impenetrabile, un rendita di posizione monopolista, garantita dall’incesto politico.

Le “operazioni” sono assai varie nel catalogo ma hanno sempre, tutte, a che fare con la finanziarizzazione.

Il motivo per cui l’incidenza del millile, del centile e del decile si è impennato a partire dagli anni ’80 e specificatamente per gli anglosassoni è perché queste economie, da allora, hanno fatto una torsione copernicana abbandonando progressiva-mente industria ma financo certi servizi per dedicarsi alla banco-finanza, sia con imprese proprie del ramo (che essendo quelle più decisive sono anche quelle che danno le retribuzioni più glamour), sia con imprese più tradizionali le quali però hanno smesso di dedicarsi al particolare business che le contraddistingueva per dedicarsi a merger&acquisition, quotazioni, emissioni di strumenti finanziari esoterici per reperire e remunerare capitali non necessariamente poi investiti in R&S o potenziamento strategico e produttivo. Gli ultimi decenni sono tra i più poveri di innovazione (si vedano le analisi dell’economista R.J.Gordon) sebbene il coro greco assunto per narrare i fasti della post-modernità del capitale, abbia fatto di tutto per far sembrare il contrario. Se ci fosse stato investimento in innovazione reale, invece di pagare questi “angeli del valore” che magari hanno delocalizzato per la gioia di azionisti irresponsabili e  si fosse meglio distribuito il reddito, stante comunque la contrazione strutturale dell’economia occidentale, oggi le cose sarebbero serie, ma meno drammatiche. Imprese nominalmente iscritte a questo o quel settore di mercato, sono in realtà diventate lavatrici di capitali fittizi che le banca centrale del dollaro ha immesso copiosamente nel mercato lungo tutti i diciannove anni (1987-2006) della gestione Greenspan. Il merito non è più legato al capitalismo concreto delle cose e delle persone, ma a quello esoterico della riproduzione del capitale senza passare per la produzione di alcunché.

Ma per arrivare al nocciolo della questione occorre scendere ancora più in basso. La stragrande parte di tutto il gioco, ovvero mostrare aziende performanti a mille che ogni anno, che dico, ogni trimestre, sono in grado di eccitare i valutatori dei rating e i buyer dei fondi, è chiaro che bisogna avere anche un po’ di fantasia. E la fantasia richiesta non è certo più quella dell’invenzione o dell’innovazione di prodotto o di processo (l’ultima innovazione di processo è giapponese ed è degli anni ’90, il toyotismo), ma dell’innovazione finanziaria per rendere esteticamente interessante il marchio che richiede capitali sul mercato. Questa capacità ha richiesto manager che nulla più hanno a che fare con il business di cui nominalmente si occupano, manager che viaggiano con uno stuolo di giovanissimi e super pagati (quelli del decile) consulenti che saltano dal petrolifero alle telecomunicazioni, dai prodotti in seta alla siderurgia pesante, dalle start up alla fusione per incorporazione senza altre competenze che non quelle della cosmesi, di creare nel minor tempo possibile, imprese “sexy” (espressione effettivamente usata nel gergo in uso nella loro professione). Il loro reddito è certo straordinario per ciò che sanno fare in questo campo dell’apparenza ma comprende anche una sorta di assicurazione professionale implicita, la copertura del rischio. Quale rischio? Il rischio (molto aleatorio e pressoché inesistente anche se mai del tutto) che vengano beccati, Già, perché una certa  parte di ciò che fanno, nonostante la pesante de-regulation, nonostante l’ampia connivenza esplicita di tutto l’ambiente regolatorio, banco finanziario, authority et varie, non è legale. Questo costa, costa molto. Costa anche molto tenere la bocca chiusa perché spesso quelle azioni sono state avvallate da irreprensibili grandi possessori non di reddito, ma di capitale, i veri padroni del valore a vapore.

Il reddito remunera la presa di responsabilità, sociale, professionale, legale. Che una compagnia petrolifera o produttrice di armi o che opera in determinati mercati del terzo mondo per grandi commesse, dia tangenti, è parte funzionale standard di quel business, non è eccezione, è norma. Eppure, questo standard da tutti conosciuto, risulta un crimine secondo le leggi nazionali occidentali, per cui “si fa” ma c’è sempre la possibilità che diventando pubblico, porti ad una incriminazione. Così far lavorare minorenni, produrre prodotti cancerogeni, inquinare, falsificare informazioni-dati-bilanci, falsificare test di idoneità, tramare col potere politico e regolatorio e giudiziario, spiare e ricattare i concorrenti, praticare l’oligopolio di fatto firmando cartelli che proteggano dal mercato, partecipare attivamente alla formazione di bolle fornendo la materia prima: “l’aria fritta”.

I dati delle aliquote fiscali più alte riportati nella nota 1, dicono che mentre per decenni  (fino appunto a gli anni ’80) i legislatori hanno punito severamente ogni eccesso retributivo, sostanzialmente confiscando l’eccedente (con tassi sopra l’80%-90%, in effetti, è confisca) dopo non è solo intervenuta una diversa ideologia, ma la deliberata scelta di sprigionare quei “spiriti animali” che portavano a creare, con le buone o con le cattive, il necessario profitto, vero o falso che fosse, onesto o profondamente disonesto. Necessario perché è  questa la materia prima che alimenta il circo delle quotazioni intorno al quale si è ristrutturato l’intero sistema capitalistico anglosassone. Aliquote da confisca del reddito avevano lo scopo di scoraggiare l’avventurarsi in territori che naturalmente portano a superare i limiti del lecito poiché solo l’illecito produce moltiplicatori veloci ed ingenti. Passare l’aliquota massima su i redditi, dall’80% al 28% come fece Reagan, va letto solo e soltanto come esplicito incentivo alla delinquenza.

Pensare che nel capitalismo, qualcuno becchi un sacco di soldi senza motivo per così lungo tempo solo perché i controllori dell’impresa non sono più controllati o perché imperversa una ideologia estremistica del merito (apparente) è assai ingenuo. Passando dal profitto della produzione, alla produzione di profitto in sé per sé, la nozione di merito è passata ai valori della furbizia, della apparenza seducente, della intraprendenza delinquenziale. L’inflazione dei mercati della droga, delle cure psichiche, della farmaceutica dell’umore nelle capitali anglosassoni, si spiega direttamente con l’evidente crisi dell’anima che questo circo della “malavita del valore” produce. Del resto, una disciplina, l’economia, che nasce nella filosofia morale e da questa si emancipa per liberarsi da vincoli ritenuti restrittivi non può che giungere a questi esiti di morale negativa. Altresì, questa deriva non è reversibile, non si è trattato di uno sbandamento in curva correggibile ma del portato inevitabile della necessità di lasciare l’economia di produzione e scambio ai nuovi paesi emergenti e garantirsi un posto al sole, sovraintendendo la circolazione del capitale finanziario. Gli anglosassoni, dagli anni ’70, sono entrati  in quella tipica fase di autunno del proprio ciclo egemonico, ben descritta dallo storico F. Braudel.

Questo sistema mantiene una sua razionalità formale è quella sostanziale, quella dei fini, che è deragliata ed è deragliata di necessità.

 

1 Capitolo 14 per le questioni fiscali connesse a gli alti redditi.
2 La ricostruzione storica dell’andamento delle aliquote più alte come imposta su i redditi (1900-2013) riportata a pagina 782 per i redditi ed a pagina 788 per le successioni, hanno dell’incredibile. Per ben 48 anni (1932-1980), gli USA hanno applicato una imposta massima su i redditi media dell’81% con punte del 90% tra i ’50 ed i ’60 ovvero proprio gli anni di maggior concentrazione delle innovazioni tanto di processo, quanto di prodotto. I britannici, prima della Thatcher, sono arrivati al 98%! Con Bush, gli americani sono scesi a 35%-36% e con Reagan al 28%. I profeti del merito, dovrebbero spiegare come si realizzò la massima concentrazioni di invenzioni del XX° secolo dei ’50 e ’60, con redditi così livellati.
3 A pagina 810, Piketty cita una serie di studi americani che sosterrebbero la tesi secondo cui “…il processo politico americano è sostanzialmente prigioniero dell’1%”, che cioè il riformatore è prigioniero del riformato, tesi pare piuttosto in voga nell’intellighentia washingtoniana. La mia opinione è che questa lettura della dinamica della “finanziarizzazione per caso”, non comprenda le ragioni di fondo per cui ciò è stato fatto, io credo, nella piena consapevolezza del potere politico, come si è detto in precedenza, di “necessità”.
4 Il mito di Steve Jobs (“jobs” in nomen omen), moderno santo del merito capitalistico, nasce da questa nuova teologia del valore.

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