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prismo

L’ipotesi della guerra civile

di Raffaele Alberto Ventura

gavras 1I terroristi non sono lupi solitari ma pesci che nuotano nell’acqua del risentimento che si cova nelle banlieue. Adesso il rischio è che s’inneschi una spirale di violenza che potrebbe contagiare l’intero corpo sociale.

La strategia dello Stato Islamico in Occidente è ormai chiara: attraverso l’esercizio di una violenza feroce e indiscriminata, si tratta di attirare sui musulmani delle rappresaglie che li spingano poi ad abbracciare la causa jihadista. È un meccanismo infernale del quale avevo illustrato il funzionamento fin dagli attentati a Charlie Hebdo. Ma quello che abbiamo vissuto in gennaio non era ancora niente: oggi abbiamo la terribile conferma che quella strategia sta funzionando.

Quando il presidente François Hollande parla di una guerra, con l’obiettivo di rendere operative le forme giuridiche che ne conseguono, sta esorcizzando lo spettro di qualcosa di ben peggiore: quello di una guerra civile. Siamo seri, nessun esercito potrà mai invadere la Francia dalla Siria e dall’Iraq, nemmeno se tra i rifugiati dovesse nascondersi qualche combattente infiltrato. I terroristi che hanno agito il 13 novembre a Parigi sono nati e cresciuti in Europa, dove spesso hanno precedenti di piccola criminalità. Nel martirio hanno trovato la maniera di esprimere un risentimento — la haine — che ha ben poco di religioso. E che non si combatte con le bombe.

"Guerra civile”, “libanizzazione” e “balcanizzazione” sono termini che ritornano spesso nel discorso della destra e dell’estrema destra francese (ma non solo) ed esprimono i sentimenti di una parte della popolazione; talvolta del loro vissuto quotidiano in contesti di convivenza estremamente tesi. Sono parole che il presidente Hollande non può evidentemente pronunciare, sono parole che i mezzi d’informazione cercano di evitare per timore che la profezia si autoavveri, ma (ahinoi) sono parole che possono esserci utili per capire quello che sta succedendo in una Francia che ha dichiarato lo “stato di emergenza” a tempo indeterminato. Perché anche l’assenza di queste parole ha delle conseguenze: lascia il campo libero a forze politiche come il Fronte Nazionale, che intercettano un disagio e propongono le peggiori soluzioni. Ma prestissimo anche il Fronte Nazionale ci sembrerà un partito moderato — quando inizieranno le piccole e grandi rappresaglie dei nuovi Breivik. È inutile negarlo perché li abbiamo visti e li abbiamo sentiti: ci sono francesi che hanno elogiato (letterariamente) i massacri di Utøya e altri che hanno approvato (ironicamente) quelli di Charlie Hebdo. Per citare Mao, questa è l’acqua in cui nuotano gli autori delle stragi di domani.

Molti francesi sono comprensibilmente esasperati dal modo in cui i giornali minimizzano i singoli avvenimenti che si sono accumulati negli ultimi anni. Se proviamo a mettere in fila quello che è accaduto soltanto nel 2015, quello che sarebbe potuto accadere, per tacere di quello che non è stato reso noto, lo scenario è spaventoso: in gennaio Charlie Hebdo e l’assalto al supermercato cacher; in febbraio, dei poliziotti aggrediti davanti a un centro culturale ebraico; in aprile, un uomo viene arrestato prima di attaccare una chiesa; in luglio, quattro uomini vengono fermati prima di attaccare un campo militare; in giugno, un uomo decapitato e un attacco a una centrale di gas; in agosto, un tentativo di attentato su un treno tra Amsterdam e Parigi; in ottobre, un altro attentato a un campo militare sventato… Per non parlare dell’orrore assoluto rappresentato dalle azioni di Mohamed Merah nel 2012, con l’uccisione deliberata di tre bambini ebrei davanti a una scuola. Denunciare il fallimento dell’intelligence sembra essere, anche qui, un modo di esorcizzare la paura di una minaccia più grande, semplicemente impossibile da controllare — un mostro che ha fatto la sua tana fuori dalle grandi città. Oggi il governo francese è costretto ad ammettere che colpiranno di nuovo ma non si sa dove.

L’ipotesi della guerra civile è uno 'storytelling' che rischia di armare la mano dei terroristi di entrambe le fazioni, in un feedback continuo tra realtà e rappresentazione non dissimile dalla proverbiale 'corsa all’armamento' tra nazioni.

Ha senso allora parlare di guerra civile? Come segnalavo dopo gli attentanti a Charlie, i teorici della controinsurrezione ritengono che bastino da principio poche centinaia di soldati pronti a morire per scatenare una spirale di violenza che può coinvolgere l’intera società; e oggi in Francia ci sono almeno tremila potenziali jihadisti che vogliono questa guerra civile. Si tratta dunque di un’ipotesi che dobbiamo prendere sul serio, consapevoli tuttavia che è proprio il discorso sulla guerra civile che rischia di scatenarla effettivamente. L’ipotesi della guerra civile è uno “storytelling” che rischia di armare la mano dei terroristi di entrambe le fazioni, in un feedback continuo tra realtà e rappresentazione non dissimile dalla proverbiale “corsa all’armamento” tra nazioni. Quel che è sicuro è che la Francia si trova su una pendenza molto ripida e deve trovare un modo di non scivolare ancora più in basso. Storicamente si considera che l’inizio delle guerre di religione del Cinquecento coincide con la strage di Wassy del 1562, nel quale morirono una cinquantina di protestanti: metà delle vittime del Bataclan. Persino l’iconografia è straordinariamente simile.

A furia di ripetere verità ovvie (forse anche necessarie) come il fatto che i musulmani non sono tutti terroristi e che i terroristi non sono tutti musulmani, a furia di reagire alle sciocchezze scritte dai vari Maurizio Belpietro, Matteo Salvini e Christian Rocca, il rischio è che si finisca per sottovalutare che il problema del terrorismo va ben oltre un pugno di “lupi solitari” che possono essere facilmente isolati dalla popolazione. Non è così: nelle periferie francesi si diffondono leggende metropolitane sul complotto ebraico, nelle periferie si cova il risentimento nei confronti di una società che promette tanto e mantiene poco, nelle periferie si riscopre l’Islam come sostrato identitario, nelle periferie non tutti sono Charlie, nelle periferie gli spacciatori armano i terroristi, nelle periferie i morti del Bataclan sembrano lontani come per noi i morti in Siria… È in questo contesto che esplode la violenza. Ostinandosi nell’esercizio di un’ideologia di Stato profondamente contradditoria, la République ha tentato per decenni di comprare la tranquillità distribuendo briciole di welfare e illusioni di ascesa sociale a una popolazione che chiedeva innanzitutto vere opportunità ma anche rispetto per la propria differenza culturale. Come sola risposta ha avuto la sacralizzazione delle bestemmie e l’interdizione del velo.

le massacre de wassy gravure tortorel et perrissin bis

Bisogna pensare a quello che successe negli anni di piombo in Italia: le Brigate Rosse non sarebbero potute esistere se non fossero state avvolte da vari strati di connivenze, affinità, complicità, amicizie, appoggi esterni, giustificazioni. Miguel Gotor lo ha mostrato bene nel suo libro Il memoriale della Repubblica: al di là della catena della responsabilità dirette esiste una catena delle cause indirette, esistono dei canali per mezzo dei quali circolano le informazioni, insomma esistono necessariamente dei nessi tra i terroristi e una parte della società civile. È la zona tiepida della contro-insurrezione. Questa intercapedine è il primo strato che rischia di essere assorbito nella sfera insurrezionale, e poi via via tutti gli altri. Proprio per non contribuire alla mobilitazione dei tiepidi bisogna fare attenzione agli effetti di un’eccessiva stigmatizzazione dei loro comportamenti: non avrebbe senso partire in guerra contro un’intera fascia di popolazione, perché in questo caso finirebbe loro per convenire mettersi dalla parte degli insorti. E d’altra parte sarebbe un grave errore anche lasciare che certi discorsi e certi comportamenti si banalizzino.

Quando i terroristi operano, lo fanno sempre in nome di un mandato che credono di avere ricevuto dalla popolazione, manipolando simboli che sono stati trasmessi loro dall’esterno. Quando colpiscono il Bataclan, ad esempio, lo fanno perché considerano che attaccare un locale connotato per le origini ebraiche dell’(ex-)proprietario li renderà legittimi presso la loro base. Più precisamente essi attingono a un archivio orale e digitale di discorsi che hanno indicato quel locale come bersaglio, come ad esempio una minaccia pubblicata su Internet nel 2008. Si tratta di un video nel quale vediamo dei giovani mascherati con la kefiah dirigersi all’entrata del Bataclan:

Il video di minaccia al Bataclan del 2008:

https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=-WBDanqAVLw

… La rabbia che sale nel nostro quartiere [contro le occupazioni israeliane], noi avremo difficoltà a contenerla… Per questo vogliamo mandare un messaggio alla direzione del Bataclan [che organizzava ogni un anno un gala per finanziare la polizia di frontiera israeliana]… Oggi voglio restare gentile ma fermo, ma sappiate che noi, con tutte le persone che stanno dietro di noi, non saremo capaci di tenerli a lungo… Vi prenderete la responsabilità dei vostri atti…

Col senno di poi, la minaccia suona particolarmente inquietante, non foss’altro per la “memoria da elefante” che i terroristi hanno mostrato di avere, che coesiste con la limitatezza dell’informazione di cui dispongono (ignoravano il cambiamento di proprietà sopraggiunto nel frattempo). Ma non è detto che la minaccia del 2008 sia direttamente legata agli attacchi: è più probabile che l’esistenza di questo precedente, o di altri simili, abbia semplicemente ispirato la scelta del bersaglio. I terroristi realizzano con la violenza le più inconfessabili fantasie estratte dall’inconscio dei tiepidi, proprio come le Brigate Rosse quando rapirono l’Aldo Moro già trasformato in bersaglio da Leonardo Sciascia, Elio Petri e Gian Maria Volonté. Da parte loro alcuni ragazzini delle periferie, che magari non farebbero male a una mosca, possono vedere nell’estetica del kalashnikov una specie di riscatto. Qualcuno di loro assapora la diffidenza con la quale la gente lo guarda in metropolitana e ci gioca per darsi arie “da duro”.

La parodia del 'rap terrorista' del gruppo La Caution:

https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=_-couaDiP4E

Tutti coloro che nell’ultimo ventennio hanno puntato sul risveglio di una “coscienza di classe” delle banlieues in senso marxista, salutando le profezie cinematografiche e le rivolte del 2005, oggi si trovano ad assistere al disastro: come cantava il rapper Passi, “le fiamme del male hanno colpito la città”. Quello che è accaduto a Parigi il 13 novembre ha finito per realizzare quella che dieci anni fa era soltanto una parodia di cattivo gusto. Giocando sulle paure della piccola borghesia bianca ma anche sull’autopercezione dei ragazzi di periferia, il gruppo La Caution aveva realizzato un pezzo di “rap terrorista” (in stile Metal Carter) per il film horror Sheitan con Vincent Cassel. Il video (vedi sopra), che mostra scene di violenza estrema, circola oggi su Internet spesso senza menzione della sua natura parodistica, andando così ad alimentare lui stesso una certa percezione della realtà. Il testo suona oggi come un’oscura profezia:

Terrorista, nemico pubblico
Fa’ saltare i treni, le torri e le scuole […]
Sono una bomba umana in una scuola materna […]
Faccio un appello per l’odio, l’omicidio, lo stupro,
il massacro, la strage col napalm […]
Le persone mi seguono, come pecore verso il macello, alla morte […]
E uccido come respiro con la mia orribile lama, sgozzare lapidando senza negoziare […]
Attrezzato di esplosivi ho i nervi che avvampano […]
Siete la dinamite io sono il detonatore, la pressione aumenta, il conto alla rovescia comincia […]

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