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Tecnologie, capitalismo e vie di fuga

di Giorgio Griziotti

Incontro-dibattito sul libro di Giorgio Griziotti  Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, (Mimesis, 2016), presso il Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa (Milano), 4 maggio 2016

griziotti21Innanzitutto mi preme sottolineare che questo libro non è nato con l’intenzione di sviluppare un’elucubrazione teorica sulle tecnologie, o sul rapporto tra tecnologie e sociopolitica, ma quasi da un bisogno, scaturito da due inclinazioni personali: la passione per le tecnologie – ho studiato e lavorato tutta la vita in questo campo, soprattutto nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione – e quella politica. Facendo parte del lungo ‘68 italiano, termine che preferisco a quello degli ‘anni di piombo’ che viene propinato dai media mainstream, mi sono infatti trovato a riflettere e a cercare di capire qual è il nesso fra queste tecnologie e il contesto politico in cui viviamo.

Quando ho cominciato a interessarmi di politica erano gli anni in cui Berkeley, l’università e città californiana, era un doppio simbolo: da un lato la culla dei movimenti che negli Stati Uniti si battevano contro la guerra in Vietnam, dall’altro il luogo in cui nasceva quello che sarebbe poi divenuto il free software. È lì infatti che vengono create le prime versioni di Unix ‘open source’, precursore di Linux e del free software, ed è lì che sono state inventate le funzioni essenziali per connettere i computer a internet. Anche se la commessa veniva dal ministero della Difesa americano, che negli anni della guerra fredda era interessato a costruire una rete che potesse ricomporsi in caso di un evento atomico, la nascita di internet corrispondeva anche a un bisogno di quella generazione, che voleva comunicare e che lottava contro le forme d’imperialismo allora dominanti.

L’esperienza e il vissuto dei decenni che ho passato professionalmente nel campo di queste tecnologie mi hanno portato a riflettere sul ruolo della tecnica, che è da sempre una forma di mediazione con il mondo, con tutte le sue contraddizioni e biforcazioni. Una delle immagini che ho inserito all’inizio del libro è infatti ripresa dal film culto 2001: Odissea nello spazio, nel quale Kubrick mostra una scimmia antropomorfa che prende un osso e ne fa uno strumento di difesa e soprattutto di aggressione, una scena che simbolicamente rappresenta il nascere della tecnica.

Tuttavia oggi sta avvenendo un importante cambiamento: queste tecnologie, che prima erano separate dalla nostra soggettività, ora entrano a farne parte. È una trasformazione che già altri studiosi prima di me hanno definito un divenire macchina dell’uomo, il famoso mito dei cyborg di Donna Haraway. Siamo quindi di fronte a un salto rispetto alla mediazione della tecnologia come prima era intesa, un cambiamento di paradigma.

A partire da questa visione ho dunque cercato di articolare il libro su tre assi portanti, molto legati tra loro: l’aspetto del produrre, quello del vivere e quello dell’organizzarsi. Sono legati perché i confini tra produrre e vivere, tra lavorare e vivere, oggi non sono più netti come prima – so che non è una riflessione nuova, anche se io cerco sempre di mettere in evidenza il ruolo delle tecnologie in queste osmosi. Oggi lavoriamo perché abbiamo anche uno smartphone che ci sollecita ed entra in gioco in momenti che fanno parte sia della vita che del lavoro, e i due aspetti si mescolano. In tutto questo mi pare che la figura di uomo nata nell’Umanesimo e nell’Illuminismo non sia più così centrale. C’è una discussione aperta, qualcuno dice che siamo davanti a soggettività ibride, quello che viene definito ‘postuma-no’. Su questa tendenza, portata avanti anche da studiose femministe e progressiste come Rosi Braidotti, che afferma che il postumano è una speranza perché in esso si sviluppa un’etica diversa da quella capitalistica attuale, io francamente sono un po’ critico: perché se le tecnologie vengono usate, come lo sono oggi, per plasmarci, il postumano può essere benissimo capitalista; non esiste nessun automatismo che renda il postumano non capitalista.

A questo si aggancia il tema sulla neutralità delle tecnologie. Si sa che le tecnologie non sono mai neutre, ma fanno parte di processi dinamici – una tecnologia immobile è una tecnologia morta – ma proprio per questo possono assumere valenze politiche anche opposte, a secondo del modo con cui vengono utilizzate. L’esperienza politica degli anni Sessanta e Settanta e il fatto d’aver in qualche modo interiorizzato alcuni concetti fra cui quello della biopolitica come emerge per esempio in Foucault e poi in Hardt/Negri, sono stati fattori essenziali per percepire il cambiamento di paradigma a cui accennavo prima.

Lavorando nel settore proprio nel momento in cui tutta l’industria delle reti e dei dispositivi mobili nasceva e poi cresceva esponenzialmente, ho intuito che gli smartphone e simili sono gli strumenti biopolitici per eccellenza. Proprio perché li abbiamo su di noi, permettono un controllo individuale e finissimo, e quindi il ruolo di questi apparecchi è intimamente legato alla prossimità con il corpo. Una situazione molto diversa rispetto ai PC: per scrivere su un computer, per esempio, bisogna accenderlo, aspettare che sia pronto e stare seduti e poi la scrittura implica principalmente il funzionamento dell’emisfero più legato alla razionalità. I dispositivi mobili entrando invece direttamente e sempre di più a contatto con il corpo, come dicevo, coinvolgono praticamente i cinque sensi e provocano emozioni (i pubblicitari ci vogliono inculcare che oggi tutto è solo emozione): ascoltiamo musica, vediamo video, parliamo, giochiamo e comunichiamo in svariati modi. Questo avviene in qualsiasi situazione, momento e luogo. Ci permettono di immergerci in realtà aumentate o virtuali e attraverso un’infinità di sensori possono interagire o monitorare persino il buon funzionamento biologico: che si tratti della glicemia di un diabetico o del ritmo cardiaco di un jogger, solo per fare qualche esempio. I devices sono talmente il tool emblematico della biopolitica che ho sentito la necessità di creare un neologismo: bioipermedia.

La tecnologia dunque non è neutra e questi dispositivi sono utilizzati per modellarci, per plasmare addirittura i comportamenti, le emozioni, le carte del cervello, come dicono i neuroscienziati. “Noi vogliamo conoscere prima di voi quali sono le vostre intenzioni”, ha affermato l’amministratore delegato di Google; per il consumismo, certo, ma non solo, anche per un controllo politico globale. Ma se questa è l’essenza di come una tecnologia viene utilizzata oggi dal capitalismo cognitivo, proprio per il fatto che non è neutra essa permette, nello stesso tempo, un certo livello di autonomia.

Le grandi multinazionali digitali, ormai simboleggiate dall’acronimo GAFA (Google, Amazon, Facebook e Apple) si basano maggioritariamente su un prodotto che non gli appartiene, che è in effetti un prodotto del comune: il free software e l’open source. GNU Linux è probabilmente il simbolo più conosciuto. Non solo perché è un artefatto di grande portata ma soprattutto perché lo troviamo dappertutto, anche se non sempre lo sappiamo. Anima non solo milioni di computer, fra cui la grande maggioranza dei server internet o del Cloud, ma partecipa anche al funzionamento di miliardi di apparecchi includendo i dispositivi mobili (Android è un derivato di Linux), le box delle televisioni, le unità di controllo elettronico nelle automobili ecc. Il capitale sta dunque usando un prodotto del comune, e ciò avviene da Berkeley in poi.

È un aspetto importante che va riconosciuto, anche per renderci conto che abbiamo le possibilità, le capacità di linee di fuga, di autonomia nell’uso delle tecnologie. Certo è il prodotto di una moltitudine che ha una determinata capacità tecnologica, però questa intelligenza collettiva tecnica è enormemente più forte e diffusa rispetto a quando io ho cominciato a lavorare nel settore; all’epoca eravamo pochi pionieri. Non è importante saper programmare, tutti in qualche maniera contribuiamo alle evoluzioni. Pensiamo al termine prosumer, cioè produttore e consumatore, che a me non piace peraltro, perché implica uno sfruttamento, un lavorare gratis per le multinazionali. È quello che succede quando ci obbligano a parametrare le applicazioni, o quando ci fanno utilizzare delle versioni che non sono stabili e che contengono anomalie che dobbiamo scoprire e segnalare. Tutto dipende dai modi d’uso: quando con la nostra creatività inventiamo delle modalità non previste, quando usiamo le app in una finalità d’autonomia, allora contribuiamo alla produzione del comune anche senza essere programmatori.

L’autonomia nell’uso delle tecnologie, che già ci permette una via di fuga, potrebbe essere molto più forte. Pensiamo al movimento del peer-to-peer, che ha in qualche modo intaccato la cupola del copyright, che certo esiste ancora ed è sempre fortissima, però oggi è possibile avere musica o video gratuitamente.

Esistono altre tecnologie recenti che aumentano il potenziale di autonomia, come quella che nasce con il bitcoin, per esempio, che è stato forse pensato in un’ottica anarco-capitalista, ed è utilizzato come dispositivo del capitalismo finanziarizzato e dell’accumulazione. Il bitcoin però è basato su una tecnologia, la block-chain, che apre nuove prospettive, che tramite opportuni algoritmi permette usi diversi da quello di asset finanziario. Esistono già degli esempi, esperimenti come quello del faircoin nell’ambito del progetto Faircoop e delle Cooperative Integrali, e un altro che sta cominciando qui a Milano, a livello di concezione, non ancora di implementazione, che si chiamerà, se lo si farà, commoncoin, e che permetterà di utilizzare la tecnologia della blockchain per avere una moneta autonoma.

Lo stesso si può dire per tutto quello che riguarda la sharing economy. Oggi è egemonizzata dal capitale, basta vedere quello che succede con Airbnb, che ci fa diventare degli affittacamere, con Uber, che ci fa diventare dei tassisti, negli Stati Uniti già esiste un’altra applicazione, che a mio parere arriverà anche da noi, che si chiama TaskRabbit e ci farà diventare tutti un po’ idraulici, montatori di Ikea o tuttofare dei nostri vicini. Una piattaforma con cui, pagando laute commissioni come al solito, si compra il tempo di una persona che ti fa un lavoretto a casa. Tutto questo è controllato dal capitale, che fa miliardi sfruttando la capacità di condivisione delle moltitudini, ma recentemente ho letto un documento interessante di Trebor Scholz, uno studioso tedesco che vive negli Stati Uniti, sulle piattaforme del cooperativismo (1). Ci sono insomma, secondo Scholz, le possibilità di clonare funzionalmente queste grandi piattaforme della Silicon Valley per rendere la sharing economy autonoma dallo stesso capitale; ci sono tecnologie che hanno la capacità di poter essere utilizzate in un modo che non sia quello capitalistico. Il problema quindi è essenzialmente politico. Se non ci crediamo, se non c’è uno stato di fiducia politica nelle nuove monete come commoncoin o faircoin, è chiaro che si resterà su un circuito estremamente ridotto e non si avrà un’influenza e un’espansione importante. Dipende da noi coniugare queste tecnologie, la moneta per esempio, o le forme del cooperativismo, con delle parole d’ordine, dei concetti politici, come quello del reddito universale, un tema molto discusso a Parigi, nelle Nuit debout. A mio parere oggi esiste una capacità diffusa non solo di resistere, ma anche di creare reali possibilità di autonomia. Certo organizzarsi è il passaggio più complicato e più difficile politicamente, perché, dal mio punto di vista, non si tratta di riformare il sistema ma di costruire qualcosa di alternativo. I tempi sono lunghi, ma esistono le capacità per farlo. Bisogna crederci e siamo già sulla buona strada...


Note
1) Cfr. http://www.rosalux-nyc.org/wp-content/files_mf/scholz_ platformcooperativism_2016.pdf

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