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euronomade

Dove comincia il Sud?

Generazione, questione meridionale ed empatie ribelli al tempo della mobilità europea

di Carla Panico

World Map 16891. “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà.” (G. Mazzini)

C’è un treno che corre tra gli uliveti pugliesi, attraverso il rosso di una terra riarsa dal sole. È un treno locale, che trasporta per lo più lavoratori e studenti universitari pendolari. È uno dei treni della vergogna, piccolo snodo di un sistema di trasporti che non è di certo un fiore all’occhiello dell’intero Paese, ma che in questo lembo di Italia racconta in particolare una storia di arretratezza, sottosviluppo, mancata modernità. O almeno, questo è il lessico con cui si racconta il Sud.

Il destino a cui è corso incontro quel treno è ormai fin troppo noto, è stato raccontato da immagini ed emozioni e da quella rabbia che, poche ore dopo, già disinnescava per mezzo di una narrazione collettiva l’auto-indulgente versione dell’”errore umano”.

A irrompere sulla scena, invece, è stata una montagna di dati: quelli che snocciolano, cifra dopo cifra, la storia del mancato investimento sul Sud, del 98% delle risorse nazionali riversato sul sistema ferroviario del Nord, dei fondi europei finiti chissà dove, dei binari unici, degli infiniti possibili disastri finora incredibilmente evitati, e non di quello che si è verificato. E poi le storie, quelle di chi su quei treni ci viaggia, perché per farlo bisogna, per certo, avere una buona ragione: bisogna avercela per inseguire i ritmi meridiani delle strade ferrate di questo pigro Italian Sud Est1.

Tutto questo ha un nome: si chiama Questione Meridionale. È un’espressione che si porta dietro un accumulo pesante quanto un secolo e mezzo di storia nazionale italiana. Un’espressione che è diventata fuori moda tante volte, senza mai smettere di essere necessaria: dagli anni ’90, in Italia di “Questione meridionale” si è praticamente smesso di parlare, se non nei termini di una “Questione Settentrionale”, che andava di pari passo con la crescita della Lega Nord.

Eppure, davanti a quella foto che ritraeva lamiere contorte come una ferita aperta tra i filari di ulivi, ci siamo accorti che la Questione Meridionale esiste ancora, anche se a subirla non ci sono più i contadini raccontati da Gramsci, ma una nuova classe di Dannati della terra rossa, lavoratori stagionali, migranti, e soprattutto giovani; sono quei pochi che sono rimasti, perché non potevano permettersi di fare diversamente: quelli che rinunciano a continuare a studiare oppure “ripiegano” sulle università del Sud.

“L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà“, ammoniva Mazzini; e, certo, in questo ammonimento troviamo quella fede in una progressione necessaria della storia, che si compie nella forma Stato-Nazione. Nell’invenzione della Nazione italiana si annida, seminale, questo inganno di fondo: quello di una modernità a senso unico, messianica quanto ideologica, che, con l’Unità d’Italia, si sarebbe progressivamente irradiata verso le periferie indocili e selvagge, i Sud.

A Sud, invece, si è scontata la storia di un sottosviluppo voluto, necessario, funzione dello sviluppo del Nord, che ha trasformato il meridione in bacino di forza lavoro fondamentale all’industrializzazione settentrionale e poi in discarica di stoccaggio dei rifiuti che quell’industria ha prodotto.

Di fronte a questo eterno ritorno di un passato irrisolto, è necessario chiedersi che senso abbia, oggi, porre nuovamente a tema una Questione Meridionale.

In uno scenario in cui i confini degli Stati-Nazione contano sempre meno, e a fronte di uno spazio europeo che può essere linea di fuga e al tempo stesso campo di esercizio di nuovi colonialismi interni, non ha certo più senso agire all’interno di confini nazionali, nella prospettiva di veder nascere un Sud Italia moderno, capace di raggiungere il Nord.

Potremmo, piuttosto, provare ad interpretare in senso opposto a quello modernista la profezia di Mazzini: e se fosse l’Italia intera a essere divenuta Meridione?

 

2. “Ognuno è il terrone di qualcun altro.” (Il terrone fuorisede)

L’industrializzazione rapida e forzata del Settentrione italiano ha prodotto lo straordinario costo umano di un enorme fenomeno migratorio interno, alla metà del secolo scorso: i braccianti del Sud diventavano operai massa al Nord. Il Sud, insomma, pagò il prezzo più alto e decisivo dello sviluppo, mentre il divario economico tra le due aree del Paese tendenzialmente non accennava a diminuire.  Nell’epoca post unitaria, a partire dall’epopea del brigantaggio fino ad arrivare alle diffusione pervasiva di fenomeni di occupazione delle terre, le regioni del Sud venivano percepite come una polveriera eternamente sul punto di esplodere, luoghi indocili poiché abitati dal malcontento e dalla consapevolezza del non avere nulla da perdere: trasformare il Sud da “problema” a bacino di forza lavoro a basso costo significava anche espropriarlo del proprio potenziale conflittuale, disinnescare antagonismi potenzialmente contagiosi che minacciavano l’equilibrio sociale necessario al progresso.

L’emigrazione al Nord, esplosa in seguito al fallimento delle politiche assistenzialistiche sul Meridione, produsse, però, anche effetti opposti a quelli previsti: l’afflusso in massa nelle metropoli industriali di un numero di meridionali che spesso eccedeva largamente le necessità del mercato del lavoro, e che si muoveva sulla base di reti sociali e relazionali larghe e complesse – tutt’altro che nei limiti dell’occupabilità come risposta alla disoccupazione – produsse l’affacciarsi nel cuore – tutto settentrionale – della storia d’Italia di una nuova soggettività, subalterna e “senza parte” quanto ingovernabile. Operai pigri che rifiutavano il lavoro, disoccupati che vivevano di espedienti riscrivendo il tessuto metropolitano, “terroni” che ebbero un ruolo fondamentale nell’esplodere delle lotte operaie degli anni ’70, come ci è stato raccontato da Alfonso Natella, voce narrante di Vogliamo Tutto.

Oggi indagare le nuove forme di divisione sociale del lavoro su base etnica e dei conseguenti fenomeni migratori implica varcare i confini degli stati-nazione: lo spazio in cui si realizzano le classi è – come minimo – quello europeo, come europeo è il mercato, sia finanziario che del lavoro2.

In questo caso, prendendo in esame un aspetto circoscritto della divisione etnicamente connotata del lavoro nel vecchio continente, possiamo operare delle comparazioni con la mobilità della forza lavoro giovanile interna allo spazio europeo. Parliamo di un mercato del lavoro razzializzato sulla base di un preciso schema di costruzione dell’Unione Europea, incentrato sulla grande finanza e sugli organismi centralizzati che la amministrano, che si dispiega lungo un asse centro-periferia ben preciso. Al centro, si collocano i nord produttivi, austeri che – etica protestante e spirito del capitalismo alla mano – dettano le condizioni di inclusione nell’Europa dei Sud pigri, indolenti, indebitati.

In questa ineluttabile dialettica dello sviluppo, tuttavia, uno sguardo meridionalista ci suggerisce di leggere in maniera più interconnessa e reciproca il rapporto tra aree ad alto e a basso livello di modernità che si relazionano all’interno di uno spazio unitario – in questo caso non nazionale, ma sovranazionale.

In questo scenario, non sono alcune aree, ma intere nazioni a ricoprire il ruolo di bacino di reclutamento di forza lavoro, largamente ricattabile, ma soprattutto altamente disponibile alla mobilità: è così che migliaia di giovani italiani, spagnoli, portoghesi e greci diventano ogni anno -mediante un processo di differenziazione che si produce già durante la formazione scolastica – lavapiatti a Londra, ricercatori precari a Parigi, stagisti a Berlino e quant’altro.

Non a caso, le restrizioni legislative per l’ingresso di stranieri nel Regno Unito, fino all’escalation che ha portato al Brexit, ci raccontano una forma radicale di xenofobia che assume gli stessi significanti del razzismo nostrano – “ci rubano il lavoro, delinquono…” – rivolti, però, ad una classe di giovani Sud Europei impoveriti che sbarcano ogni anno nelle città britanniche. In questo processo di divenire Sud di intere nazioni europee, si compie al tempo stesso una progressiva meridionalizzazione dell’Europa intera: quella che si basa sulla rete di relazioni e scambi messi in circolazione da questa diaspora meridiana giovanile che meticcia l’Europa dall’interno.

A che latitudine inizia, quindi, il Sud? Dove si colloca esattamente il confine, quando da Sud un’intera generazione, costretta alla mobilità continua per ricatto del lavoro, invade e contamina con le proprie forme di vita le metropoli nord europee?

La Storia d’Italia, storia soprattutto di una questione meridionale eternamente irrisolta e di spostamenti di massa di forza lavoro, ci consegna, forse, una definizione possibile: è Sud un luogo da cui si parte molto più di quanto si arrivi.

In questo senso, davanti ai dati statistici3 - chi arriva nel nostro Paese continua ad essere in numero  minore di chi se ne va, a dispetto delle retoriche razziste sull’invasione degli stranieri – la mancata soluzione della frattura Nord/Sud collassa nel paradosso di un divenire Sud dell’Italia intera: oggi la Questione Meridionale ha dimensione europea.

 

3. “A Sud di nessun Nord.” (C. Bukowski)

Quali soggettività nuove si producono in questa articolazione transnazionale che si dà oggi lo sfruttamento capitalistico? Innanzitutto, soggettività frammentate, costrette ad un individualismo forzato, condannate alla solitudine. È il destino che sembra accomunare una giovane generazione diasporica, quasi contagiata dal fatalismo che si attribuiva stereotipicamente al carattere meridionale. C’è, naturalmente, un costo emotivo enorme da scontare nell’andirivieni a cui sono forzate le vite precarie di migliaia di giovani europei, che investe l’intermittenza del lavoro come degli affetti.

La sensazione di essere sempre nel posto sbagliato, colpevoli di essersene andati4 e al tempo stesso accusati di lassismo e poco spirito di iniziativa quando troppo “mammoni” per partire, genera fratture profonde nella propria identità e nella possibilità di riconoscersi come soggetto collettivo.

Questo attacco è stato portato avanti negli ultimi anni ai danni di una generazione che è la prima ad aver pagato la crisi finanziaria e ad avervi opposto un netto rifiuto, mediante un ciclo di lotte sociali che richiedevano welfare e diritti, ma soprattutto affermavano forme di vita comuni in risposta all’austerità.  Tra il 2008 e il 2012 la sponda settentrionale del Mediterraneo è stata attraversata da una pluralità di espressioni di una generazione cresciuta all’interno di reti – tanto di quelle virtuali quanto di quelle tracciate dalle rotte aeree low-cost e dai progetti Erasmus: l’Onda, gli Indignados, le occupazioni delle piazze.

Come sempre accade, disinnescare i Sud ribelli ha costituito una priorità per garantire la stabilità del potere: per farlo, il dispositivo coloniale del sottosviluppo, della disoccupazione che diventa ricatto e della conseguente mobilità forzata è stato un meccanismo di facile utilizzo.

In questo scenario, la frammentazione e l’esodo di massa di un’intera generazione che aveva animato le lotte sociali nei propri Paesi e ne era uscita sconfitta, ha efficacemente rallentato lo sviluppo di nuovi movimenti. Non a caso si può affermare che, paradossalmente rispetto alla lettura canonica, in questa nuova fase il Meridione ha espresso, soprattutto nella sua dimensione metropolitana, una capacità di tenuta e di risposta organizzativa maggiore delle altre aree dei rispettivi Paesi: ne è esempio la ricchezza dei movimenti sociali che vi si sono sviluppati in questi ultimi anni sui temi ambientali come sulle nuove ipotesi municipaliste – Barcellona, Roma, Napoli. I luoghi già abituati a essere Sud sembrano – paradossalmente – aver subito meno il contraccolpo che questa ondata di meridionalizzazione progressiva ha inflitto nella forma della pacificazione sociale.

Eppure, anche in questo caso, la mobilità forzata della forza lavoro – giovane, sud-europea, formata o iperformata – ha prodotto anche delle conseguenze inattese rispetto al suo obiettivo normativo: con la “fuga” non solo di cervelli, ma soprattutto di braccia, gambe, cuori e corpi gettati in pasto al mercato del lavoro europeo, sono entrate necessariamente in circolo anche intelligenze ed esperienze ribelli, che hanno dovuto immaginare nuove forme di connessione e organizzazione completamente diverse da quelle tradizionali. Si sono creati flussi migratori che eccedono gli angusti dettami del mercato del lavoro, che si attivano sulla base di relazioni affettive molteplici, che muovono le persone non solo nella prospettiva di lavorare, ma anche nella speranza di vivere lavorando il meno possibile. Piccole comunità che sfidano il margine dell’integrabilità con il loro muoversi e riversarsi nelle metropoli europee, cercando mezzi di sussistenza di vario tipo ma anche sperimentando forme di vita che sono sistemi di micro-resistenza, per sfuggire, anche se solo in parte, ai meccanismi di cattura che le circondano.

E mettendo in circolazione, al tempo stesso, un archivio di saperi di lotta virale, in grado di ibridarsi sui livelli locali: è in quest’ottica che, anche nel più freddo cuore d’Europa, può verificarsi il divenire Sud di una piccola porzione di spazio urbano di cui giovani di diverse nazionalità si riappropriano, sperimentando una pratica di lotta che passa attraverso la condivisione collettiva di una nuova socialità diurna e notturna. Con la Nuit Debout, Parigi ha risuonato dei ritmi delle piazze occupate dagli indignados in Spagna e dei movimenti studenteschi italiani, in beffa alla meteorologia e allo stato d’emergenza.

Rifiutare ritmi e tempi dello sfruttamento capitalistico non corrisponde, insomma, a nessun desiderio conservatore e provinciale di chiusura al mondo: come insegna Alfonso Natella, terrone spedito in catena di montaggio, al Nord non è necessario avere un lavoro se c’è sempre qualcuno disposto ad invitarti a pranzo per ascoltare le storie che hai da raccontare.

Perché gli uomini e le donne se ne vanno in giro, si chiedeva Chatwin, invece di starsene fermi in un luogo?

Per seguire le vie dei canti, strade che corrispondono a note di un pentagramma in cui ogni melodia, una volta eseguita, evoca un pezzo di mondo e ne rende possibile l’esistenza; e al tempo stesso ogni melodia è un canto che non può essere intonato se non si percorre, contemporaneamente, la strada che esso racconta.

Spostarsi, quindi, come condizione irrinunciabile per esistere, perché il mondo esista.

Organizzare tale irrequietezza, forse, è la vera sfida politica di questa generazione: trovare il modo di tenersi insieme, di spezzare l’individualismo a cui si viene costretti, come rete di (r)esistenza fatta di empatie e affezioni in grado di contaminare il mondo che si attraversa.

Senza sentirsi, per questo, in dovere di non soffrire a ogni sradicamento; ripartendo, invece, dalle proprie fragilità e provando a metterle in connessione: accettare come un segnale di riconoscimento reciproco quella malinconia meridiana generazionale che si rintraccia negli occhi che si incrociano in giro per il mondo o ad ogni ritorno. Del resto, a Sud, si sa, si piange sempre due volte: quando si arriva e quando si parte.

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