Print
Hits: 1828
Print Friendly, PDF & Email

prismo

Tornare all’utopia

di Valerio Mattioli

La vittoria di Trump e l'ascesa dei populismi europei sono dati di fatto. L'antidoto è uno soltanto: ricominciare a immaginare un futuro alternativo a quello che finora è stato

utopia hero 1Negli stessi mesi in cui cadono i 500 anni dall’Utopia di Tommaso Moro, abbiamo capito che ad andare a gonfie vele è il suo contrario. Voglio dire: viviamo in tempi che più distopici non si può, no? Da una parte i viaggi su Marte e le intelligenze artificiali che ragionano per conto proprio; dall’altra – per restare alla cronaca di questi mesi – Brexit, Trump, e un pianeta Terra che entro il 2100 rischia di assomigliare più a Venere che alla Gaia azzurrina immortalata dall’Apollo 17. Poi uno dice la fantascienza.

È istruttivo lo slittamento che ha investito la narrazione mainstream negli ultimi diciamo quindici anni. Dalla sbandierata fine della storia in cui lo stesso concetto di “futuro” veniva acriticamente soppiantato da un eterno presente ecumenico e inviolabile, ecco che proprio il futuro torna ad allungare la sua ombra su quel continuum spaziotemporale che nemmeno la crisi del 2008 è riuscita a ridestare da un torpore pluridecennale. Solo che, l’abbiamo capito: è un’ombra molto, molto minacciosa.

L’elezione a presidente di Donald Trump e l’ascesa dei populismi in Europa sanno di presagio ad almeno un decennio di regressione e tragedie, e nel suo consueto stile iperbolico ma efficace, Bifo parla già di una “guerra nella quale poco di ciò che chiamammo civiltà è destinato a sopravvivere”, ricorrendo a un parallelo storico che più sinistro non si può: “come fece nel 1933, la classe operaia [bianca] si vendica di chi l’ha presa per il culo negli ultimi trent’anni”.

Quest’ultimo passaggio, si inserisce a sua volta in una più generale polemica che ruota attorno al ruolo (a seconda dei punti di vista: reale, presunto, ingigantito, sottovalutato) che la working class statunitense ha giocato nell’elezione del nuovo presidente USA, e che di rimando sottolinea la sconfitta – questa sì, comunemente accettata – delle cosiddette élite urbane progressiste, una categoria vaga all’interno della quale rientrano tanto benestanti manager di larghe vedute, quanto giovani creativi carini e sottooccupati: “i finti semplici”, come li ha perspicacemente ribattezzati una mia vicina di casa sessantenne restia alle apericene e alla gentrificazione galoppante nella borgata in cui entrambi viviamo.

 

Zeitgeist vs. Finti Semplici

L’immagine ricorrente è quella di un segmento sociale composto da cosmopoliti frequentatori dei più esotici bazar culturali che si ritrovano di colpo spiazzati da un mondo che, oddio!, non sa cosa sia un Singapore Sling, non apprezza le virtù di un hamburger di cinta senese, e quando c’è da andare a votare non si comporta come dovrebbe. È un’immagine senz’altro caricaturale, ma che in effetti sembra echeggiare in alcune delle reazioni che hanno accompagnato i fatti degli ultimi mesi. Reazioni che, e non poteva essere altrimenti, hanno oscillato tra lo sbigottito e il disperato.

Leggo sul Tascabile che, secondo Alessandro Giberti, con le presidenziali USA e prima ancora con Brexit “ha vinto lo zeitgeist”. Ecco, questo è esattamente il tipo di ragionamento che rischia di produrre altri 10, 100, 1000 Donald Trump: la colpa della tragedia è di un mondo meschino e senza filtro, popolato da bifolchi che la sparano grossa il cui parere – grazie ai social network, alla Rete, e boh, “all’aria che tira” – conta tanto quanto quello dei più assennati, “che sanno di cosa parlano” e che hanno “responsabilità e cervello”.

Ora: che il “big bang relativista” provocato “dall’estrema democratizzazione di accessi e opinioni” si porti appresso evidenti distorsioni, è un dato di fatto, e qui su Prismo credo che esista un’intera rubrica a riguardo (nel caso stiate controllando: non esiste, ma è come se ci fosse). D’altra parte, quello che viene occultato in analisi del genere è un qualsivoglia approfondimento sulle cause – politiche, economiche, e soprattutto di immaginario – alla base della catastrofe; semmai, un simile atteggiamento sembra preludere a un sentimento che da qui in avanti rischia di trasformarsi in ritornello ricorrente: è ora di farla finita col suffragio universale.

Che queste élite comincino a pensare a contorte forme di exit strategy pur di non vedere il proprio mondo crollare, è comprensibile; se non altro perché il proprio mondo è anche – così pare – l'unico mondo possibile.

Per un tipo come Fabrizio Rondolino, “il suffragio universale comincia a rappresentare un serio problema per la civiltà occidentale”. Sono battute, certo (uhm….). Reazioni a caldo, boutade da giorno del giudizio rivestite dalla consueta patina di stanca ironia. Come è anche vero che il modello su cui fondano le attuali democrazie occidentali è tutto tranne che intoccabile – anzi. Ma sentimenti del genere sono anche il naturale esito di un percorso che pare provenire da una parodia scritta male di La ribellione delle élite, il saggio di Christopher Lasch che, uscito originariamente nel 1995, è recentemente tornato di gran moda.

Solo qualche mese fa, in pieno psicodramma post-Brexit, l’analista americano James Traub pubblicava un articolo intitolato It’s time for the Elites to Rise Up Against the Ignorant Masses. La tesi di Traub, per come esplicitata nel sottotitolo al pezzo, è che la vera sfida al giorno d’oggi non sia più destra vs. sinistra con tutto quello che ne consegue in termini di visione del mondo, diritti e politiche sociali, ma “the sane vs. the mindlessly angry”. L’equivalenza tra “angry” e “mindless” è qui sintomatica: sei arrabbiato? Allora vuol dire che sei stupido, quindi non hai titolo per discettare sulle cose del mondo. Non è esattamente questo il modo in cui la sinistra pretendeva a suo tempo di parlare ai diseredati, ai marginali e agli oppressi; eppure, è bene ricordarlo, questi ragionamenti provengono da ambienti intellettuali che si ritengono sinceramente democratici e, sapete com’è, liberal.

Non è d’altronde un mistero che tali ambienti abbiano preso da tempo a manifestare un vero e proprio fastidio nei confronti di chiunque sia unfit al loro mondo ipercompetitivo e intellettualmente (anche se non sempre economicamente, e qui alberga un paradosso su cui prima o poi dovremo tornare) avvantaggiato: dall’iniziale accondiscendenza condita di paternalismo “illuminato”, si è via via passati al rigetto, alla presa per il culo, e poi all’insulto bello e buono, pescando a piene mani da un vocabolario i cui unici lemmi contemplati sono arroganza e sarcasmo. Visti i presupposti, che queste élite (le stesse a cui magari appartenete anche voi che state leggendo) comincino a pensare a contorte forme di exit strategy pur di non vedere il proprio mondo crollare, è comprensibile; se non altro perché il proprio mondo è anche – così pare – l’unico mondo possibile. E ora che questo mondo va in frantumi, cosa rimane?

 

Deficit d’immaginazione

Immagino sia troppo presto per suggerire che, assieme a quel mondo lì, ad andare in frantumi saranno anche le parole d’ordine che l’hanno plasmato. Che poi sono le stesse di Hillary Clinton e dei suoi omologhi della sinistra riformista europea: il feticcio del “merito”, l’enfasi sul “mettersi in gioco”, il mantra dello “stare sul mercato”, l’affannosa sottolineatura dei vantaggi della “competitività”, l’ossessione per il “self-engagement”, sono tutti slogan che le sinistre (neo)liberali reiterano da talmente tanto tempo che abbiamo imparato a considerarli, più che dati acquisiti, poco meno che fatti di natura.

D’accordo, il mondo nato da queste parole d’ordine è un posto faticoso e infelice, dove ciascuno più che solo è – ehm… – “CEO presso se stesso”, e al limite se è fortunato può farsi cinque anni di stage non retribuito in qualche start-up perché a pagargli l’affitto ci pensano i genitori; ma è anche un mondo razionale – almeno così assicurano i suoi apologeti – che può essere corretto attraverso una teoria potenzialmente infinita di upgrade e aggiustamenti che ne ottimizzino le performance, senza per questo metterne in discussione le condizioni di partenza – né tantomeno l’ideologia, figurarsi.

Certo, al momento non risulta che questi upgrade abbiano prodotto altro che ancora più solitudine, ancora più disparità, ancora più ingiustizia (sull’“ancora più Trump” vedremo di qui a breve). Ma hanno anche fornito l’orizzonte culturale, grammaticale ed esistenziale di una generazione intera, che quando c’è da prendersela con qualcuno gioca al limite la carta generazionale (“i vecchi”), probabilmente perché indirizzare i propri strali nei confronti degli immigrati e del diverso sarebbe poco in linea col proprio naturale cosmopolitismo liberal; è per capirci lo stesso orizzonte culturale che ha partorito quel fatalismo apocalittico di cui è perfetta testimonianza il culto sotterraneo che circonda la Teoria della classe disagiata dell’amico Raffaele Alberto Ventura, un testo certo brillante ma anche – è la mia opinione – scorretto nell’analisi, tendenzioso nello svolgimento e nefasto per la tesi che lo sottende.

E cioè che, per l’ennesima volta, There Is No Alternative: prepariamoci al declino e ai foschi panorami dello zeitgeist post-democratico, o tuttalpiù mettiamoci in fila per il primo posto che si libera per Marte. Non sono in fondo i tech titans che adesso vagheggiano di spedizioni interplanetarie gli eroi predestinati di quella generazione creativa e intraprendente che a gran voce ha reclamato il primato della meritocrazia, e per la quale “la vera lotta di classe è quella giovani contro vecchi”?

I populismi hanno infine occupato quel fantomatico 'vuoto' lasciato in eredità da quello che Mark Fisher ha intelligentemente ribattezzato 'realismo capitalista'.

Questa rassegnazione pavloviana eternamente schiacciata sul presente, è il segno di tante cose assieme. Ma per quanto mi riguarda è innanzitutto il segno di un deficit di immaginazione. E cioè di una rinuncia a ipotizzare alternative – anche solo immaginarie – a un ordine che ineluttabile non lo è per niente. Ed è sua volta la spia di un’assenza che arrivati a questo punto comincia a farsi assordante: quella dell’utopia. Dell’idea cioè che il futuro non sia dato ma possa essere costruito, e che “ciò che sarà” non per forza dovrà essere la naturale reiterazione di quello che “è già”.

Non credo sia azzardato suggerire che è anche per via di questa assenza che i populismi hanno infine occupato quel fantomatico “vuoto” lasciato in eredità da quello che Mark Fisher ha intelligentemente ribattezzato “realismo capitalista”. In fondo, un esempio ce l’abbiamo proprio qui in Italia: dalle campagne per il reddito di cittadinanza ai grotteschi video sull’automazione totale firmati Casaleggio Associati, il Movimento 5 Stelle è riuscito a suo modo a sottrarre – e a pervertire – temi e prospettive di quelle stesse forze che storicamente incarnavano il dominio dell’alternativa prossima ventura – e cioè proprio le sinistre attualmente ripiegate o su un riformismo implicitamente garante dello status quo, o su marginalissime logiche resistenziali.

Al tempo stesso, l’immediato dopo-Trump ha prodotto un’enorme quantità di interventi sul populismo in quanto “logica reazione” alle macerie del tardocapitalismo neoliberale. E figuriamoci: intervenire su tali macerie e denunciare l’ordine di cui queste sono figlie è giusto e sacrosanto; ma intanto Trump è già qui, e se abbiamo capito che non sarà l’ennesimo aggiornamento di sistema a invertire la rotta di uno zeitgeist che proprio di tali upgrade è espressione, trovo altrettanto inquietante la retorica di un sospetto “ritorno alla gente comune” a partire da non meglio precisati bisogni elementari pericolosamente limitrofi alle più tossiche narrazioni identitarie.

 

La possibilità e un’isola

Le sedute di autocritica (molto emo) che dai processi delle Guardie Rosse si sono trasferite ai tavolini dei bar bistrot in cui si legge a voce alta Glenn Greenwald e Vincent Bevins, l’ammissione che – per dirla proprio con Bevins – “le teste di cazzo urbane del mondo ricco (come me) devono riconoscere che non sono le uniche persone il cui parere conta su questo pianeta”, la litania sull’improrogabile necessità di un “populismo di sinistra”, non riescono a togliermi dalla testa che – come ricorda Chris Jennings in un recente saggio intitolato Paradise Now: the Story of American Utopianism – “separate da un fine utopistico, persino le critiche sociali più incisive hanno il fiato corto”. Ed è ancora Jennings a lanciare un avvertimento che suona più che mai pertinente nelle settimane successive alle presidenziali USA: “Se non ci impegniamo in un serio ragionamento utopistico, le cose non faranno che peggiorare”.

L’idea che una società possa davvero essere (re)inventata e non semplicemente corretta a suon di piccoli aggiustamenti e mediocri “innovazioni”, è dopotutto la condizione prima affinché il futuro non scivoli in quella che dell’utopia è l’antitesi per definizione: e cioè proprio la distopia da cui non a caso siamo partiti. Detta altrimenti: sbarazzarsi del deficit di immaginazione, rimettere in circolo il concetto di possibilità, invertire il senso di uno zeitgeist percepito come castigo divino anziché come prodotto degli uomini e delle donne che questo mondo lo abitano, significa non solo ribadire che no, non è vero che There Is No Alternative, ma soprattutto che, se questi sono i risultati delle parole d’ordine che hanno plasmato il presente, il futuro dovrà ricorrere ad altre grammatiche e altri vocabolari. Ed è ora che queste grammatiche entrino di peso nel mainstream.

In un (prolisso) articolo di circa un anno fa, provavo a riassumere quali sono i temi che già ora fanno del futuro “un campo di battaglia”. Sono gli stessi che ricorrono in un altro saggio del 2016 intitolato non a caso Four Futures; scritto da Peter Frase, il testo esplora quattro plausibili scenari da qui ai prossimi decenni, e se da una parte prospetta concretissimi rischi di una distopia che conduce diritta all’eliminazione di chiunque non produca valore (e che suona un po’ come il sottotesto oscuro della cronaca di questi giorni), dall’altra introduce almeno uno scenario corrispondente in tutto e per tutto ai caratteri dell’utopia possibile.

Per Frase, esistono insomma le condizioni per cui in un futuro non troppo lontano potremmo trovarci in una condizione sia di abbondanza materiale, sia di uguaglianza e giustizia sociale. Sono condizioni che a questo punto dovremmo conoscere bene: una crescente automazione che privi di senso il dogma del lavoro; un reddito base per tutti; una generalizzata condivisione dei saperi e degli accessi; welfare gratuito; diritto all’ozio e alla pigrizia; fine di un’economia basata sullo sfruttamento di energie e risorse; e via di questo passo. È più o meno la stessa ricetta che nel 2015 veniva portata avanti da due testi molto discussi come Postcapitalismo di Paul Mason e Inventing the Future di Srnicek e Williams, e come loro Frase ci tiene a sottolineare che un futuro del genere non solo non è impossibile, ma è già in nuce in molti dei processi che quotidianamente abbiamo sotto gli occhi.

Inoculare il virus della possibilità nei vasi sanguigni di un corpo ridotto ormai in avanzato stato cadaverico, è il prerequisito essenziale perché l'utopia prossima ventura cominci a proiettare i suoi effetti sul presente.

Affinché quelli che per ora paiono poco più che slogan visionari possano se non altro condizionare la realtà, occorre però che si trasformino in seri e autentici temi all’ordine del giorno nel dibattito pubblico e politico. Ancora una volta, ricominciare a parlare di utopia, inoculare il virus della possibilità nei vasi sanguigni di un corpo ridotto ormai in avanzato stato cadaverico, è il prerequisito essenziale perché l’utopia prossima ventura non dico si realizzi, ma almeno cominci proiettare i suoi effetti sul presente. Iperstizione, avremmo detto altrove.

La battaglia si svolge innanzitutto in termini di immaginario: il che non significa derubricare le ingiustizie e le paure che comunque segnano il presente. Significa però aprirle a una prospettiva nuova, che non si riduca al semplice rivendicazionismo della sinistra neoidentitaria, e che vada oltre l’onestamente un po’ parodistica autocritica delle élite progressiste deluse, le stesse i cui ranghi sono popolati – ai livelli più bassi, si intende – da precari in lotta con le partite IVA che per continuare a ritagliarsi una particina da comparsa nel gran bazar dell’Urbe Cosmopolita spendono metà dei loro (magri) stipendi in Xanax (senza dire dei soldi per le apericene in cui parlare di lavoro, certo).

In una massima diventata talmente tanto celebre dall’aver acquisito le sfumature della profezia che si autoavvera, Frederic Jameson affermava che “è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”. Ma ora che il mondo – un certo mondo – sembra finito sul serio, viene spontaneo prepararsi al suo corollario. Ed è innanzitutto da qui che può ripartire il lavoro sull’immaginario: in fondo, che il capitalismo per come lo conosciamo abbia i giorni contati, è un’opinione che negli ultimi anni si è fatta strada in maniera dapprima timida, e poi sempre più pervasiva e infine prepotente, con note che vanno dal millenarismo hi-tech della destra libertarian, alla cupio dissolvi del progressismo liberal.

Può darsi davvero che da qui in avanti la contesa sarà tra le élite “che ne sanno” e i mindlessly angry, con le prime che si rifugeranno in un’isola autogalleggiante per sofisticati enterpreneur, e i secondi che si scanneranno in un pianeta la cui stessa sopravvivenza è tutta da verificare. Ma se quanto arriverà avrà i caratteri distopici delle post-democrazie trumpiane, sarà solo perché dall’altra parte per troppo tempo si è preferito battere sul tasto refresh anziché su quello riavvia. Anniversari a parte, è tempo di ricominciare a ipotizzare mappe, confini e cartografie di un’altra isola: quella che Tommaso Moro immaginò giusto 500 anni fa.

Web Analytics