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micromega

Il crollo del Muro di Berlino e le retoriche dell’Occidente

di Angelo d’Orsi

25-anni-caduta-muro-berlino-anniversario-510Il settimanale tedesco Die Welt in occasione dei 25 anni del Mauerfall (il cosiddetto “crollo del Muro”), ha realizzato un dossier sulla ricorrenza, dando la parola ad alcuni trentenni (compresi fra i 26 e i 35 anni), ossia individui che il 9 novembre del 1989 erano bambini, da uno a dieci anni. Il quadro che dipingono è di grande interesse, e nell’insieme si può definire problematico. Il pensiero critico, insomma, sopravvive, e non si lascia imbavagliare dallo spirito della celebrazione, quella beota di chi non ha perso l’occasione, in questi giorni, per inneggiare al liberalismus triumphans, magari tirando in ballo la situazione geopolitica attuale, con cenni al ritorno alla guerra fredda per colpa dell’aggressività dell’“Orso russo”.

Dibattiti tv, servizi sui giornali, interviste, hanno riproposto luoghi comuni, stucchevoli e spesso fuorvianti, anche se stavolta va rilevato un minimo di pudore in più rispetto al passato: forse effetto della crisi che si sta impietosamente prolungando, lasciando una scia sempre più scura di dolore, tra rassegnazione inerte e rivolta incipiente. Ma l’apologetica dell’Occidente domina, e prevale, di gran lunga, incurante di quel che le vicende internazionali ci hanno regalato come prodotto della fine del bipolarismo, e ingresso nell’era unipolare, con lo strapotere, militare, economico, finanziario, culturale, degli Stati Uniti d’America, il vero Big Brother della famiglia umana.

Insomma, stupisce che tutti, praticamente tutti, abbiano dato per scontato che, comunque, “si sta meglio” e che i prezzi che si sono pagati nella gestione dell’acquistata libertà a Est, e per la diffusione del sistema democratico nell’universo mondo, erano in qualche modo iscritti nel fatale andare della storia. La quale, con buona pace di Fukuyama, non si è affatto arrestata tra la City londinese e Wall Street, come del resto egli stesso a distanza di qualche anno, dalla sua boutade, fu costretto a riconoscere.

Naturalmente, basta che si inviti a riflettere ed ecco che scatta la ben nota sequela di accuse e polemichette: “Volete rialzare il Muro? Siete in ritardo…” - “I nostalgici del gulag” – “La storia vi ha condannato”, e via seguitando. Né mancano le cifre dei morti, quelli attribuiti al “comunismo”, cifre offerte non si sa in base a quali criteri messe a punto, né da quali contabili. Su Facebook uno storico (serio, e progressista) si spinge a dichiarare coloro che provano a fare distinguo sul 1989 di essere simili ai nostalgici del fascismo, alle celebrazioni del XXV Aprile. In un dibattito su rete Rai, il più a sinistra è Achille Occhetto, che non perde l’occasione per auto elogiarsi (“era la sola cosa da fare e io la feci, e portai il partito comunista nell’area della socialdemocrazia”), e gettar invece fango sui suoi ex compagni di partito. Che pena.

Possibile che si debba sempre cadere nelle tifoserie? Possibile che il senso critico, anima di qualunque ricerca intellettuale, debba esser messo così facilmente da parte? Possibile che non si riesca a ragionare, senza essere ingiuriato da chi non è d’accordo, e applaudito dagli altri, prescindendo, il più delle volte, gli uni e gli altri, dal merito dei tuoi argomenti?

Il biennio 1989-1991, indubbiamente, fu, in un certo senso, una “rivoluzione”, in quanto non solo produsse cambiamenti repentini di regimi politici, dunque sul piano istituzionale, ma portò al potere classi sociali nuove? Che è l’essenza della rivoluzione, come spiegava Antonio Gramsci a Benito Mussolini, nel 1925, in occasione del suo unico discorso parlamentare, quando più volte venne interrotto dal “duce”. Certamente, possiamo sostenere che in Russia e nei “paesi satelliti”, parte del sistema sovietico, dopo il 1989-91 abbiamo ritrovato sovente gli stessi personaggi della vecchia nomenclatura, semplicemente con un cambio di casacca politica. Ma altrettanto sicuramente, il sistema di garanzie sociali, di diritti sostanziali, di welfare, fu spazzato via. E fu cambiato il clima umano di quei paesi: pochi giorni fa ero in Polonia, e ho conversato con un ingegnere, che lucidamente ha ammesso i benefici del post-’89, ma altrettanto lucidamente ha elencato i danni, il primo dei quali per lui era proprio sul piano antropologico. Era emerso, diceva, parlando accoratamente, un individualismo prima sconosciuto; furono spezzati i legami sociali, cessarono tutte quelle attività collettive – dalle ferie al dopolavoro, dalle sezioni di partito agli eventi sportivi, dalle biblioteche al teatro – che facevano sentire le persone garantite da reti di protezione: oltre alle istituzioni, v’era “la gente”, a costituire la rete. Ora ciascuno finito il lavoro corre a casa, sbarra l’uscio e si fa gli affari suoi. Conservatorismo (nel caso polacco, tremendamente cattolico), ma anche edonismo sfrenato, ecco i due risvolti del post-’89, nel mondo post-sovietico. Le attese di vita, secondo dati apparsi su fonti occidentali, in molti di questi Paesi si sono ridotte. Le disuguaglianze economiche sono diventate macroscopiche. E per gli ultimi in fondo alla scala sociale, la vita è più dura che in passato, anche se hanno i supermercati traboccanti di merci, e possono espatriare liberamente.

Ma le conseguenze più gravi, a mio avviso, si riscontrano sul piano internazionale, nella terrificante definizione del “nuovo ordine mondiale”. Il dominio economico-militare degli Usa, senza alcun bilanciamento, e senza l’effettiva presenza calmieratrice del “Terzo”, ossia l’Onu (ridotto al rango di notaio della Superpotenza), ha generato nella classe dirigente di quella nazione una perversa volontà sopraffattoria. Il mondo è parso per un momento alla sua mercé: il bombardamento della sede dell’Ambasciata cinese a Belgrado, nel corso della più infame delle “nuove guerre”, nel 1999, fu la prova di quella volontà, ma fu probabilmente uno degli atti finali, perché, tra la fine di quel secolo e l’inizio del XXI, cominciò un riassetto internazionale, con fenomeni di resistenza diffusi, allo strapotere statunitense, e l’unipolarismo si trasformò progressivamente in multipolarismo. Oggi gli Usa non si potrebbero permettere di bombardare l’ambasciata cinese, in sintesi. E la Russia è ritornata al rango di grande potenza, piaccia o non piaccia, malgrado la corona di ferro che Nato e UE cercano di disporre intorno al suo territorio, che, benché ridotto dalla frammentazione dell’URSS post 1991, rimane il più esteso del mondo.

Nello stesso tempo, proprio la riscossa di altre nazioni, la crescita economica, e militare di alcune tra esse (i Brics: Brasile Russia, India, Cina, Sudafrica), ha eccitato l’eterna cupidigia degli USA, che nella situazione di crisi sistemica del capitalismo, cercano nuovi sbocchi commerciali, e hanno bisogno di far girare a pieno ritmo la propria macchina militare, smaltendo armi, e investendo, di conseguenza, in nuovi, sempre più sofisticati sistemi di distruzione e di morte.

L’esportazione della democrazia, la grottesca formula che ha giustificato tutte le guerre recenti, è la conseguenza evidente del “crollo del Muro”. Ossia, la dissoluzione del blocco sovietico, con “l’arrivo della democrazia” in quei paesi, ha avviato il gioco del domino, con il cosiddetto “contagio democratico”, che è consistito, in definitiva, in una serie di piccoli e grandi colpi di Stato, il cui fine era la eliminazione di leader (dittatori o capi eletti in libere elezioni) sgraditi a Washington, o in moti di piazza più o meno spontanei, che quando sfociavano in regimi politicamente accettabili all’Occidente venivano tollerati, ma quando producevano, magari, anche, con democraticissime elezioni, assetti politici non graditi (vedi l’Egitto), si provvedeva senza tanti complimenti a cassare con un tratto di penna, secondo il modello cileno.

Non di rado il pretesto è stato un ostentato sentimento di umanità verso popolazioni in difficoltà, nel vasto mondo: e furono le “guerre umanitarie”, le più ipocrite, realizzate con una sfacciata cancellazione delle convenzioni internazionali, una destrutturazione del “diritto dei popoli”, e un ritorno alla forme più estreme della umana ferocia. Il mondo pacificato sotto il segno del “Libero Mercato” ha palesato il suo volto orribile di una conflittualità permanente: Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia, Siria, Ucraina, per tacere di Israele che impunemente procede nella sua politica genocidaria verso i palestinesi.

Proprio il “muro della vergogna” costruito dagli israeliani all’interno dei Territori Occupati, una struttura rispetto alla quale il Muro di Berlino appare una specie di giocattolo, è la prova della grande menzogna: lo slogan “mai più muri” è risuonato anche in questi giorni di celebrazione del 9 novembre 1989: ma evidentemente vale soltanto per i muri costruiti dagli “altri”; noi i “nostri” muri ce li teniamo e li rafforziamo e li moltiplichiamo: alla frontiera tra Usa e Messico, nei possedimenti spagnoli in Marocco, persino a Padova, per isolare gli extracomunitari.

Ma il peggiore dei muri è quello che ormai separa e contrappone, irrimediabilmente, quei quattro quinti di umanità, che giacciono nella miseria, dal rimanente quinto che invece vive nell’agiatezza. E più noi, i cittadini del “Nord” del mondo, alziamo barriere protettive, più intorno a noi cresce la minaccia di chi nulla possiede. Se non ci apriremo all’accoglienza e alla solidarietà queste enormi maree umane ci sommergeranno, e allora non varrà dire: noi eravamo dalla vostra parte. Saremo tutti colpevoli, ai loro occhi, e la nostra indifferenza odierna giustificherà la loro vendetta.

Nel 1989, Norberto Bobbio, uno che mai fu comunista (né tentato di diventarlo, ma neppure mai intruppato fra gli anticomunisti: e ne ho scritto proprio su MicroMega), ancor prima degli eventi berlinesi di novembre, davanti ai fatti di piazza Tien an Men, a Pechino, nel giugno, aveva scritto: «... è da stolti rallegrarsi della sconfitta e fregandosi le mani dalla contentezza dire: "L’avevamo sempre detto!". O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». E aggiungeva: «il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l'utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere».

Personalmente non so se il comunismo fosse soltanto una utopia, ma certo era e rimane una speranza, per gli "schiacciati dai grandi potentati economici" (ancora Bobbio), per i "dannati della terra" (per dirla con Frantz Fanon). E questa speranza non verrà meno sino a quando ve ne saranno.

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